Buone notizie dal Sud Sudan

  • Lug 16, 2024
  • Pubblicato in Notizie

Alcuni stralci di due interventi di Papa Francesco nella visita ecumenica nel Sud Sudan. L’impegno della chiesa per rinnovare la speranza

Abbracciare il rischio stupendo di conoscere e accogliere chi è diverso. Incontro con gli sfollati interni.

Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!

Joseph, hai posto una domanda decisiva: «Perché stiamo a soffrire nel campo per sfollati?». Perché… Perché tanti bambini e giovani come te stanno lì, anziché a scuola a studiare o in un bel posto all’aperto a giocare? Tu stesso ci hai dato la risposta, dicendo che è «a causa dei conflitti in corso nel Paese». È proprio a motivo delle devastazioni prodotte dalla violenza umana, oltre che per quelle causate dalle inondazioni, che milioni di nostri fratelli e sorelle come voi, tra cui tantissime mamme con i bambini, hanno dovuto lasciare le loro terre e abbandonare i loro villaggi, le loro case. Purtroppo in questo martoriato Paese essere sfollato o rifugiato è diventata un’esperienza consueta e collettiva.

Rinnovo perciò con tutte le forze il più accorato appello a far cessare ogni conflitto, a riprendere seriamente il processo di pace perché abbiano fine le violenze e la gente possa tornare a vivere in modo degno. Solo con la pace, la stabilità e la giustizia potranno esserci sviluppo e reintegrazione sociale. Ma non si può più attendere! Un numero enorme di bambini nati in questi anni ha conosciuto soltanto la realtà dei campi per sfollati, dimenticando l’aria di casa, perdendo il legame con la propria terra di origine, con le radici, con le tradizioni.

C’è bisogno di crescere come società aperta, mischiandosi, formando un unico popolo attraverso le sfide dell’integrazione. C’è bisogno di abbracciare il rischio stupendo di conoscere e accogliere chi è diverso, per ritrovare la bellezza di una fraternità riconciliata e sperimentare l’avventura impagabile di costruire liberamente il proprio avvenire insieme a quello dell’intera comunità. E c’è assoluto bisogno di evitare la marginalizzazione dei gruppi e la ghettizzazione degli esseri umani. Ma per tutti questi bisogni c’è bisogno di pace. E c’è bisogno dell’aiuto di tanti, dell’aiuto di tutti.

Perciò vorrei ringraziare la Vice Rappresentante speciale Sara Beysolow Nyanti per averci detto che oggi è l’occasione per tutti di vedere quello che da anni sta accadendo in questo Paese. Qui infatti perdura la più grande crisi di rifugiati del Continente, con almeno quattro milioni di figli di questa terra sfollati, con l’insicurezza alimentare e la malnutrizione che colpiscono i due terzi della popolazione e con le previsioni che parlano di una tragedia umanitaria che può peggiorare ulteriormente nel corso dell’anno. Ma vorrei ringraziarla soprattutto perché lei e molti altri non sono rimasti fermi a studiare la situazione, ma si sono dati da fare. Lei, Signora, ha percorso il Paese, ha guardato negli occhi le madri assistendo al dolore che provano per la situazione dei figli; mi ha colpito quando ha affermato che, nonostante tutto quello che soffrono, non si sono mai spenti sui loro volti il sorriso e la speranza.

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E condivido quanto ha detto su di loro: le madri, le donne sono la chiave per trasformare il Paese: se riceveranno le giuste opportunità, attraverso la loro laboriosità e la loro attitudine a custodire la vita, avranno la capacità di cambiare il volto del Sud Sudan, di dargli uno sviluppo sereno e coeso! Ma, vi prego, prego tutti gli abitanti di queste terre: la donna sia protetta, rispettata, valorizzata e onorata. Per favore: proteggere, rispettare, valorizzare e onorare ogni donna, bambina, ragazza, giovane, adulta, madre, nonna. Senza questo non ci sarà futuro.

E ora, fratelli e sorelle, guardo ancora a voi, ai vostri occhi stanchi ma luminosi che non hanno smarrito la speranza, alle vostre labbra che non hanno perso la forza di pregare e di cantare.

Siete voi il seme di un nuovo Sud Sudan, il seme per una crescita fertile e rigogliosa del Paese. Siete voi, di tutte le diverse etnie, voi che avete patito e state soffrendo, ma che non volete rispondere al male con altro male. Voi, che fin d’ora scegliete la fraternità e il perdono, state coltivando un domani migliore. Un domani che nasce oggi, lì dove siete, dalla capacità di collaborare, di tessere trame di comunione e percorsi di riconciliazione con chi, diverso da voi per etnia e provenienza, vi vive accanto. Fratelli e sorelle, siate semi di speranza, nei quali già s’intravede l’albero che un giorno, speriamo vicino, porterà frutto. Sì, sarete voi gli alberi che assorbiranno l’inquinamento di anni di violenze e restituiranno l’ossigeno della fraternità. 

DISCORSO COMPLETO

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Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue. Incontro vescovi, sacerdoti, consacrati e consacrate.

Cari fratelli Vescovi, presbiteri e diaconi, secondo una prospettiva biblica vorrei guardare alle acque del Nilo che scorre come una spina dorsale nel mezzo del vostro paese. Da una parte, nel letto di questo corso d’acqua si riversano le lacrime di un popolo immerso nella sofferenza e nel dolore, martoriato dalla violenza; un popolo che può pregare come il salmista: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo» (Sal 137,1). 

Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità ma allo stesso tempo le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli (cfr Es 3,7). Guardando alla storia di Mosè, che ha guidato il Popolo di Dio attraverso il deserto, chiediamoci che cosa significa essere ministri di Dio in una storia attraversata dalla guerra, dall’odio, dalla violenza, dalla povertà. Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue innocente, mentre i volti delle persone a noi affidate sono solcati dalle lacrime del dolore?

Per provare a rispondere, vorrei soffermarmi su due atteggiamenti di Mosè: la docilità e l’intercessione. La prima cosa che colpisce della storia di Mosè è la sua docilità all’iniziativa di Dio. 

Non dobbiamo pensare, però, che sia sempre stato così: un giorno aveva deciso di fare giustizia da solo, colpendo a morte un egiziano che maltrattava un ebreo. A seguito di questo episodio, però, era dovuto scappare e restare per lunghi anni nel deserto. Lì sperimentò una sorta di deserto interiore: aveva pensato di affrontare l’ingiustizia con le sue sole forze e adesso, come conseguenza, si ritrovava ad essere un fuggitivo, a doversi nascondere, a vivere nella solitudine, a sperimentare il senso amaro del fallimento. Mi domando: qual era stato l’errore di Mosè? Pensare di essere lui il centro, contando solo sulle sue forze. 

A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi, seminaristi, consacrate, consacrati, tutti: sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani. 

Invece, la nostra opera viene da Dio. Mosè apprende questo quando, un giorno, Dio gli viene incontro, apparendogli «in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto» (Es 3,2). Mosè si lascia attrarre, fa spazio allo stupore, si mette nell’atteggiamento della docilità.

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Ecco la docilità che serve al nostro ministero: avvicinarci a Dio con stupore e umiltà. Sorelle e fratelli, non perdete lo stupore dell’incontro con Dio! Non perdete lo stupore del contatto con la Parola di Dio. Mosè si è lasciato attrarre e orientare da Dio. Il primato non è a noi, il primato è a Dio: affidarci alla sua Parola prima di servirci delle nostre parole, accogliere docilmente la sua iniziativa prima di puntare sui nostri progetti personali ed ecclesiali.

È questo lasciarci plasmare docilmente che ci fa vivere in modo rinnovato il ministero. Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma Pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non siamo un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma siamo la comunità dei figli di Dio. 

Purificato e illuminato dal fuoco divino, Mosè diventa strumento di salvezza per i suoi che soffrono; la docilità verso Dio lo rende capace di intercedere per i fratelli. Ecco il secondo atteggiamento di cui vorrei parlarvi oggi: l’intercessione. Mosè ha fatto esperienza di un Dio compassionevole, che non resta indifferente davanti al grido del suo popolo e scende a liberarlo. È bello questo: scendere. 

Così fa Mosè, che “scende” in mezzo ai suoi: lo farà più volte durante la traversata nel deserto. Egli, infatti, nei momenti più importanti e difficili, sale e scende dal monte della presenza di Dio al fine di intercedere per il popolo, cioè di mettersi dentro alla sua storia per avvicinarlo a Dio. Fratelli e sorelle, intercedere «non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione».

Ai Pastori è richiesto di sviluppare proprio quest’arte di “camminare in mezzo”. Dev’essere la specialità dei pastori, camminare in messo: in mezzo alle sofferenze, in mezzo alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata – questo lo può fare qualsiasi ditta –, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente. Mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale – quel brutto “fare carriera” –, ma camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici. Ecco, vorrei ripetere questa parola importante: insieme. Non dimentichiamola: insieme; cerchiamo di vincere tra di noi la tentazione dell’individualismo, degli interessi di parte. 

DISCORSO COMPLETO

Presentiamo la sintesi di una attività giovanile promossa dall’équipe di Animazione Missionaria e Vocazionale della Colombia: il "Congresso giovanile Consolazione e Missione". 75 giovani si sono confrontati con il rapporto finale della Commissione per la Verità che in questi anni ha lavorato per ricucire le ferite di quasi 60 anni di guerra che ha insanguinato il paese.

Sono stati tre giorni intensi di attività guidate da dinamiche pedagogiche, esperienze di spiritualità missionaria e di consolazione-liberazione. I nostri giovani hanno approfondito la verità della Colombia ferita e mutilata, superando il muro del lamento e riconoscendo la verità di una guerra indagata in tutte le sue ferite. Come discepoli missionari del Crocifisso Risorto, si sono impegnati a offrire un cuore compassionevole e misericordioso perché la sofferenza, conseguenza della verità mai riconosciuta, sia liberata e trasformata in consolazione-liberazione.

La storia di Macondo

Ricardo Semillas, inviato dal Grande Tutto, seminò il territorio colombiano, chiamato Macondo. Dopo aver compiuto la sua missione di diffondere i semi in modo armonioso, con generosità e varietà esuberanti, Ricardo Semillas ha consegnato questa terra a delle persone perché la curassero e la coltivassero. Tutti vivevano dei suoi prodotti abbondanti, li scambiavano fra di loro con la moneta chiamata "equità", in modo che a nessuno mancasse il necessario per un "buon vivere" e ce ne fosse anche per gli altri.

La cultura fiorì nella musica e nella danza, nella letteratura e nella scultura, nell'architettura e nell'ingegneria, nella scienza e nella tecnologia. La spiritualità si espanse, riempiendo le generazioni successive di valori etici, umani e divini. Le relazioni umane, pur senza molti abbracci, erano intrise di servizio, rispetto, disciplina e apprezzamento. L'orgoglio di essere di Macondo cresceva mentre la moneta locale, l’equità, si rafforzava. La vita ha cantato e ballato nelle giungle, nelle coste, nelle pianure, nelle valli e nelle montagne. Il morbido odore del caffè permeava l'atmosfera all'alba, mentre mais e grano, con platano e yuca, venivano mescolati nello stufato di carne o di pesce, accanto al focolare familiare.

Questa era la situazione quando alcuni attori violenti, che si spacciavano per saggi, arringarono il popolo e si offrirono come benefattori: posero recinti e confini; regolarono i rapporti con nuove norme; raccolsero la moneta equa e inondarono i mercati di banconote. Così che un bel giorno, mentre tutti dormivano e non si accorgevano di quel che stava succedendo, tutti quelli che volevano negoziare dovevano farlo con queste persone e Macondo perse la sua grazia e la sua armonia. Cristhian, il più giovane della popolazione, guardando ciò che non riusciva a capire disse: "temo che alla fine succederà qualcosa di brutto”.

Gli attori violenti seminarono questo territorio pieno di vita con paura, mine e morte. I deserti si moltiplicano quando i fiumi e i torrenti si inquinano o si prosciugano. Le montagne, ferite e sfruttate, si sgretolano inondando di fango fiumi e mari. Le piante della coca e la marijuana abbandonarono il campo sacro della salute ancestrale e Macondo, condannata a "100 anni di solitudine", restò vittima del traffico internazionale di narcotici. Poco a poco, i contadini persero la loro terra, i grandi latifondi si espansero e le città si riempiono di senzatetto. 

Ricardo Semillas, che continuava ad accompagnare il processo della vita nella sua lotta contro la morte, mentre rifletteva a voce alta sulla distruzione che vedeva, disse: "hanno danneggiato Macondo; questo non è ciò che è stato dato dal Grande Tutto; gli attori violenti lo hanno imbavagliato e legato; il popolo se ne sta silenzioso, indignato, arrabbiato e impotente. Abbiamo sentito i gemiti della terra maltrattata e i lamenti dei morti, degli scomparsi e degli sfollati”.  

In mezzo al territorio devastato e al corpo sociale sconsolato, improvvisamente una luce brilla in Oriente: "per la tenera misericordia del nostro Dio, il sole nascente viene a visitarci", lo stesso sole, che è stretto fra le braccia della Consolata, divenuto Parola dice: "Macondo non è morto, ma sta dormendo”. Prendendolo per mano, lo solleva e grida: "Non tutto è perduto, oggi vengo a offrirti il mio cuore. Le persone che hanno sperimentato le più grandi sofferenze, conoscono ciò che significa sentirsi desolati, scoraggiati e abbandonati e per questo sono pronte anche loro a offrire il cuore e tutto il loro essere per confortare e aiutare a liberare gli afflitti che la storia di Macondo ha generato”.

Il silenzio è stato rotto e l'atmosfera, intorno alla "tulpa", il focolare ancestrale composto da tre pietre come la Trinità, si è riempita della parola di rigenerazione depositata nella pentola comunitaria. Nel fuoco ancestrale si prepara l’alimento che restituisce salute e genera liberazione integrale. Tutti siamo consapevoli che quando il dolore è condiviso e compreso cessa di essere sofferto.

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La verità che libera

La verità, quando è nascosta, diventa sofferenza; invece quando viene svelata, anche se fa male, libera. Se questa viene accettata con coraggio e umiltà da tutti, promuove la giustizia, permette il perdono e la riconciliazione, libera le vittime che vengono risarcite e i colpevoli che si pentono e non ripetono i loro delitti. Con la verità tutti possono partecipare alla costruzione sociale e politica della pace, con giustizia sociale e ambientale.  

La verità è impegnativa, rilascia adrenalina, una forza interiore che trasforma e da vita ad azioni, programmi, progetti di misericordia, politiche di pace sociale e ambientale. Dobbiamo dare voce e tempo alla verità, per ridurre le disuguaglianze, la corruzione e superare l'inimicizia sociale. Solo così lasceremo questa triste identità di "figli della guerra" per vivere in "amicizia sociale"; abbandoneremo questa "valle di lacrime" per trasferirci sulla collina del "buon vivere", in questa amata "madre terra", paradiso terrestre.  

La verità è un dono per chi è aperto alla vita. Come dice il galileo Gesù di Nazareth: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". Egli, presentato dall'evangelista Giovanni come "la via, la verità e la vita", si propone come nostro manuale di vita di fronte alle ideologie e alle correnti mondane che, quasi sempre, ci allontanano dal senso e le mete della vita.

Con la verità e con Gesù, vogliamo ricreare la nostra realtà e quell'altro “mondo possibile” in cui siamo impegnati e che serviamo. Lo facciamo riconoscendo e valorizzando tutti senza fobie o discriminazioni, ascoltando e dialogando, camminando insieme, in compagnia, andando oltre le nostre diverse frontiere.

Chiediamo al Dio della vita la luce e la forza del suo Spirito per trasformare i nostri sogni e le nostre parole in vita e azione; offriamo i nostri cuori di giovani studenti, universitari, professionisti e industriali, per stare al fianco degli afflitti e degli stanchi. Coerenti con il discorso dell'ecologia e della cura della "casa comune" accompagniamo e consoliamo chi è nel bisogno.

* Équipe di animazione giovanile e vocazionale dei missionari della Consolata nella regione della Colombia.

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Mons. Luis Augusto Castro Quiroga, colombiano, missionario della Consolata, arcivescovo emerito della città di Tunja, è morto in una clinica di Chía, vicino a Bogotá, dove era ricoverato da venerdì scorso. Una figura nota in tutta la Colombia per il suo impegno sociale e la sua ferma leadership a favore della pace nel Paese. Con la sua narrazione ha fatto della missione, intesa in molti modi, un modo gentile e coinvolgente di essere in contatto con il mondo intero. Aveva 80 anni. "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9).

Mons. Luis Augusto è stato prima di tutto un uomo con una profonda sensibilità umana che ha amato l'umanità e la Chiesa, lavorando sempre per adempiere al comando del Signore: "Andate in tutto il mondo e proclamate la Buona Novella a tutta la creazione" (Mc 16,15). Importanti e significativi sono stati i suoi contributi nel campo della missionologia, che come educatore ha saputo far conoscere con una serie di pubblicazioni e scritti, piacevoli e di facile lettura, che sono costantemente usciti dalla sua penna e nei quali traspariva il suo buon umore e la sua sagacia. Ricordando la sua nomina a vescovo ha scritto: "È un fatto assodato che se si chiede a un santo se vuole essere un vescovo, dice subito di no. Quando mi è stato chiesto se volevo diventare vescovo, ho risposto subito di sì".

Oltre a essere un prolifico narratore e autore di numerosi libri, ha promosso la musica, l'arte e i media: a Tunja ha fondato un giornale e un canale televisivo. Si è occupato molto dell'educazione dei leader laici, dei seminaristi e del clero e con il suo carisma ha promosso la fondazione di più di un centro di istruzione superiore.

Eppure, nelle chiese in cui ha prestato servizio, ma anche al di fuori di esse e in gran parte della società civile colombiana, Mons. Castro sarà ricordato come un artigiano della pace determinato, perseverante, insistente e caparbio. L'ha seminata, difesa, sostenuta aprendo continuamente spazi di dialogo e negoziazione. 

Come vescovo di San Vicente del Caguán e Puerto Leguizamo, un territorio dove il conflitto e la violenza erano pane quotidiano, nel 1997 ha svolto un ruolo chiave nell'assicurare il rilascio di 60 soldati rapiti dai guerriglieri delle FARC.

 Dal 2005 al 2016 è stato presidente della Commissione Nazionale di Riconciliazione e in questo periodo è stato per due volte presidente della Conferenza Episcopale: ha promosso tutte le occasioni di dialogo, ha mediato nella liberazione di vari ostaggi, ha presenziato ai colloqui dell'Avana tra il governo e le FARC senza smettere di incoraggiare e guidare le parti in dialogo, e si è fatto garante del rispetto degli impegni presi. Ha potuto vedere questa pace sbocciare e portare i primi frutti. Gran parte della sua eredità sarà ciò che la Colombia farà con questo immenso dono, frutto di una costruzione collettiva e comunitaria, in cui ha svolto un ruolo importante.

In un'intervista concessa a Telesantiago, in occasione del suo addio alla diocesi di Tunja, egli stesso, e come sempre a modo suo, ha fatto questa sintesi della sua vita e del suo ministero sacerdotale ed episcopale: "Oggi c'è un numero che mi gira in testa ed è l'85. Ottantacinque sono stati i sacerdoti ordinati a Tunja formati nel nostro seminario diocesano e altrettanti sono stati gli ostaggi che sono riuscito a liberare dalle mani dei guerriglieri, non a Tunja ma a San Vicente del Caguán. Due numeretti uguali che indicano due compiti molto diversi ma positivi. A questo punto della mia vita mi piace ricordarli entrambi".

Intervista di Paolo Moiola a porposito del conflitto in Colombia  (2017)

La sua biografia

Luis Augusto Castro è nato a Bogotá, la capitale della Colombia, l'8 aprile del 1942. Ha studiato presso il Collegio San Bernardo dei Fratelli Lasalliani e poi presso il seminario minore dei Missionari della Consolata.

Nella sua formazione come Missionario della Consolata ha studiato filosofia presso la Pontificia Università Javeriana di Bogotá; fatto il noviziato a Bedizzole e gli studi di teologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Ha emesso i voti perpetui il 10 marzo 1967 ed è stato ordinato sacerdote a Roma il 24 dicembre dello stesso anno.

Già come sacerdote missionario si è specializzato in counselling all'Università di Pittsburgh e ha ottenuto il dottorato in teologia  nella università Javeriana di Bogotá.

Come sacerdote ha ricoperto vari incarichi: viceparroco nella Cattedrale di Florencia (Caquetá, Colombia) e rettore dell'Università dell'Amazzonia nella stessa città (1973-1975); direttore del seminario maggiore di filosofia dei Missionari della Consolata a Bogotá e, allo stesso tempo, consigliere provinciale (1975-1978); superiore regionale della IMC in Colombia (1978-1981).

Dal 1981 al 1986 ha fatto parte del Consiglio Generale dei Missionari della Consolata a Roma.

Il 17 ottobre 1986, Papa Giovanni Paolo II lo ha nominato ordinario del Vicariato Apostolico di San Vicente-Puerto Leguízamo. La sua consacrazione episcopale ha avuto luogo nella Cattedrale Metropolitana di Bogotá il 29 novembre dello stesso anno ed è stata presieduta dai vescovi Angelo Acerbi, Nunzio Apostolico in Colombia; Mario Revollo Bravo, Arcivescovo di Bogotá; José Luis Serna Alzate, vescovo di Florencia e anch'egli Missionario della Consolata. 

Mons. castro è stato alla guida del vicariato di san Vicente per dodici anni poi, il 2 febbraio 1998, è stato nominato alla sede metropolitana di Tunja dove è rimasto fino alle sue dimissioni per raggiunti limiti di età che sono state accolte da papa Francesco  l’11 febbraio del 2020. 

In questi anni è stato vicepresidente della Conferenza episcopale colombiana dal luglio 2002 al luglio 2005 e poi presidente fino al luglio 2008. In questa veste nel 2007 ha partecipato alla Quinta Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano celebrato in  Aparecida (Brasile). Ha avuto un secondo mandato come presidente della conferenza Episcopale nel triennio 2014-2017

* Con informazioni provenienti da vari media.

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Mons. Luis Augusto Castro durante la celebrazione della festa di Nostra Signora Consolata, il 20 giugno 2022, nella parrocchia del quartiere Vergel, a Bogotà. Foto: Archivio IMC Colombia

Costruttori di pace

Dal Mozambico, dove si trova in missione, il padre Edegard Silva, salettiano di origine brasiliana, risponde ad alcune domande sulla situazione della guerra nella Provincia di Cabo Delgado. "Non parlerò di numeri e statistiche. Dalla missione di Mieze, voglio solo raccontare come abbiamo vissuto questi ultimi tempi in questa conflittiva regione".

La guerra a Capo Delgado continua?

Sì, continua. Di solito dico che qui viviamo in una sorta di "scatola delle sorprese". In ogni "capitolo" di questa guerra, veniamo colti da un fatto inaspettato, che cambia l'agenda e lascia l'intera popolazione sbalordita. Per la comunità attaccata, l'azione terroristica è qualcosa di inaspettato. Per i terroristi si trattava probabilmente di un'azione pianificata.

Il giorno in cui verrà dichiarata "ufficialmente" la fine di questa guerra, i postumi del "dopoguerra" diventeranno una sfida e un lento processo di ricostruzione (umana e fisica) delle comunità. E in questo processo entra in gioco la nostra presenza come Chiesa in queste terre. Sarebbe esagerato dire che "ricominceremo da zero", ma la ripresa del processo di evangelizzazione in questa regione sarà impegnativa.

Ci sono nuovi scenari?

In tutto questo tempo, abbiamo visto che questa guerra è stata caratterizzata da azioni differenziate. Inizialmente, l'uso di machete per decapitare le persone; poi, attacchi a mezzi di trasporto, incendio di case, rapimenti, fino ad arrivare all'uso di armi pesanti e di grosso calibro. Queste azioni non sono improvvisate. Al contrario, si tratta di attacchi pianificati, probabilmente con indicazioni preventive sulle tattiche e i mezzi da utilizzare.

Non si parla molto di questa guerra. Le persone si sono abituate alla guerra?

L'espressione "abituarsi alla guerra" è molto crudele. Chi è mosso da compassione e umanità non può accettare questa posizione di passività. Questa espressione non può far parte del nostro vocabolario. Tuttavia, questa guerra va avanti da cinque anni, il primo attacco è avvenuto nell'ottobre 2017. Il fatto che si svolga nel continente africano non sembra suscitare alcun interesse da parte di molte persone, né dei media tradizionali; per questo motivo, rischia di cadere nel dimenticatoio.

Questo mi ricorda il testo di Marina Colasanti, scrittrice italo brasiliana, che si intitola "So ma non devo", che dice: "Ci si abitua ad aprire il giornale e a leggere della guerra. Quando accettiamo la guerra, accettiamo i morti e che ci possono essere e, accettando i numeri, si accetta di non credere ai negoziati di pace, si accetta di leggere ogni giorno della guerra, dei numeri, della lunga durata". Non possiamo abituarci alla guerra, né alle barbarie che l'umanità e la creazione possono subire!

A Cabo Delgado "respiriamo" ogni giorno questo clima di guerra, gli sfollati sono ovunque. Che ci piaccia o no, accompagniamo con ansia questa via crucis che sembra non avere fine.

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Ci sono stati nuovi attacchi?

In realtà gli attacchi non si sono mai fermati. Quelli di maggiore intensità o impatto rimangono nella memoria della stragrande maggioranza delle persone: il giorno dell'attacco, la fuga nella boscaglia, la distruzione del villaggio, tutto questo è registrato nella storia della vita di ogni persona. In molte di questi villaggi che sono stati attaccati non resta più nulla da distruggere. Inoltre, alcuni villaggi del nord, che non erano stati attaccati, sono stati successivamente conquistati dai terroristi.

La "novità" di questi ultimi giorni sono gli attacchi nella regione meridionale della Provincia, precisamente nel distretto di Ancuabe, dove sono stati distrutti alcuni villaggi: questo ha innescato un nuovo ciclo di fuga, la popolazione locale è stata colta dal panico che ha scombussolato l'intera regione.

Questa notizia si è diffusa molto velocemente...

Anche se quasi nessuno ha accesso alla radio, alla televisione o ai social, la notizia si è diffusa in modo fulmineo. La popolazione, in generale, dispone di telefoni cellulari, molto semplici, ma ricaricabili con piccole piastre solari; possiamo comunicare in modo veloce attraverso questi dispositivi, si stabilisce una sorta di "rete di comunicazione" molto efficiente perché ogni famiglia ha parenti o conoscenti distribuiti in geografie molto ampie, uno avverte l'altro a grande velocità. Evidentemente non si può controllare quali informazioni siano vere e quali no, e le fake news si verificano in modo incontrollato in questo contesto di guerra.

Quando si viene a sapere di un attacco, cerchiamo di entrare in contatto con diverse fonti (le équipe missionarie, gli animatori delle comunità o qualche organizzazione), persone che possano garantire la veridicità di queste informazioni.

Ad ogni modo c'è la sensazione che i villaggi siano totalmente abbandonati e la paura si impossessa della gente.

Quale è la situazione della gente?

Non abbiamo lasciato molto spesso l'area in cui svolgiamo la nostra missione. Migliaia di famiglie continuano a vivere in case di parenti, o in insediamenti con condizioni precarie. Come missionari cerchiamo di promuovere azioni che siano alla nostra portata. Abbiamo progetti piccoli e puntuali, soprattutto con i nostri animatori che sono in queste aree ma è una realtà impegnativa e troppo grande per le nostre risorse umane e finanziarie. Anche le organizzazioni umanitarie sono presenti. 

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Che analisi fai della guerra?

Ho trovato interessante un articolo di un responsabile dell'Unione Europea presente in Mozambico che è stato pubblicato di recente. Parla delle tante iniziative intraprese, ma dice che "ci vorrà ancora molto tempo prima che la situazione sia completamente sotto controllo".

È in corso un'azione congiunta tra le Forze armate del Mozambico, le Forze armate della Ruanda e la Missione della Comunità di sviluppo dell'Africa australe. Sono stati compiuti passi significativi. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che anche gli insorti hanno le loro tattiche, e stanno dimostrando un addestramento molto consolidato e probabilmente anche sufficienti finanziamenti.

Come state voi missionari e come stanno le famiglie?

Noi Missionari salettiani, su richiesta dello stesso Vescovo della Diocesi di Pemba, Mons. Antonio Juliasse, continuiamo ad essere un "punto di riferimento" per le comunità di Muidumbe. Non sono in grado di parlare di quel che succede in ogni distretto dove sono pur presenti altre comunità. A Muidumbe la gente ci cerca, ci chiama e molti animatori sono vicini.

Abbiamo informazioni che in molti distretti hanno iniziato a ripulire l'area, con la riconquista di alcune località e questo ha scatenato nella popolazione un grande desiderio di ritorno. Comprendiamo, umanamente parlando, la nostalgia della casa e della comunità. Ci sono molti fattori ma credo che il più forte sia il desiderio di fare ritorno a casa.

Una volta un animatore mi ha detto: " Se devo soffrire nel mio villaggio o soffrire dove mi sono rifugiato... prefersico soffrire nel mio villaggio". Non è una decisione comune fra tutti gli sfollati. In alcuni casi il padre di famiglia fa un sopralluogo per vedere come stanno le cose lasciando indietro inizialmente moglie e figli. Altri preferiscono aspettare un po' anche a causa di continue notizie di nuovi attacchi o addirittura presenza di terroristi. Per dare una idea nel il distretto di Muidumbe ci sono 26 villaggi. In 13 di loro alcune persone, non la totalità della popolazione del villaggio, sono tornate alle loro case.

Noi stiamo anche organizzando, insieme alla diocesi di Pemba, l'invio di materiale agli animatori per realizzare la Celebrazione della Parola. Anche quello un piccolo segno di ritorno alla normalità.

Che significa essere missionari in questo contesto di guerra?

I missionari sono esseri umani e ognuno vive in modo diverso questa emergenza. Non siamo né superuomini, né superdonne!

Non possiamo negare che proviamo paura, che la struttura fisica delle case in cui viviamo spesso ci preoccupa, che dobbiamo fare i conti con una possibile fuga. Sono situazioni che ci riguardano. Il processo di discernimento di fronte alla decisione "partire/restare" è molto difficile.

Ma in tutto questo continuiamo ad essere pastori delle comunità che ci sono state affidate, abbiamo una responsabilità e un impegno, il si aspetta una parola di fiducia e di speranza. 

È di estrema importanza sapere cosa dire ed essere prudenti con le informazioni che vengono trasmesse. La testimonianza e la presenza amorevole tra la gente in questo momento sono molto importanti. 

Poi ci è sempre stato chiesto di non stancarci di pregare e chiedere la pace e, visto come vanno le cose nel mondo, non solo in Mozambico. Come seguaci e missionari di Gesù dobbiamo poter entrare ovunque per dire "Pace a questa casa" (Lc 10,5)... venite, unitevi a noi, siamo sognatori, esecutori e costruttori di pace!

* Padre Edegard Silva Júnior, missionario salettiano di origine brasiliana è in missione nella parrocchia di Nostra Signora del Monte Carmelo, Mieze, diocesi di Pemba.

Un incontro dei patriarchi e dei leader cristiani dell'Oriente si è tenuto ieri a Bkerke, sede del patriarcato libanese per affrontare la situazione dei cristiani in Medio oriente e domandare alla comunità araba e internazionale di non appoggiare il terrorismo, aiutando nell'emergenza dei profughi e lavorando per il loro ritorno in patria. E' necessario anche un impegno per trovare una soluzione alla crisi israelo-palestinese.

Il patriarca Beshara Rai ha detto che l'obbiettivo del raduno era di conoscere più fa vicino la situazione dei rifugiati cristiani e quella dei fedeli che hanno deciso di rimanere nel loro Paese, nonostante la guerra e le difficoltà. Per essi, ha aggiunto, è urgente aiutarli a garantire un lavoro, scuole, alloggi perché "possano restare nei loro rispettivi Paesi e preservare così la loro tradizione e missione cristiane".

L'altro obbiettivo è un appello "alle due comunità araba e internazionale" perché vengano in aiuto ai rifugiati, aiutando il loro rimpatrio e aiutandoli a costruire le abitazioni. Questo può essere fatto "mettendo fine alla guerra in Siria e in Iraq con mezzi pacifici, mediante negoziati politici e un dialogo serio fra i belligeranti, neutralizzando le organizzazioni terroriste". Ciò può essere ottenuto se le comunità araba e internazionale "cessano di sostenere [i terroristi] dal punto di vista finanziario e militare, chiudendo le frontiere dove è necessario per impedire la circolazione dei mercenari".

"I disegni politici ed economici - ha aggiunto - non giustificano tali aggressioni terribili contro l'umanità".

Per i patriarchi e i leader cristiani, è necessario anche lavorare per risolvere la crisi israelo-palestinese, sulla base della formula "due popoli, due Stati", permettendo il ritorno dei rifugiati alle loro case. "E' evidente - ha affermato il patriarca Rai - che i due conflitti israelo palestinese e israelo-arabo sono all'origine delle disgrazie che noi viviamo oggi in Medio Oriente".

I leader cristiani domandano uno sforzo maggiore dei governi e delle organizzazioni non governative a favore dei rifugiati e chiedono un impegno maggiore per ottenere la liberazione di tutte le persone rapite, o detenute, siano esse civili, militari o personalità religiose. Fra queste vi sono i due vescovi, il greco-ortodosso di Aleppo, Boulos Yazigi, e il siriaco ortodosso, Youhanna Ibrahim, nelle mani di gruppi fondamentalisti in Siria da quasi due anni.

Un pensiero è stato rivolto alla situazione del Libano, dal maggio scorso senza presidente e con i gruppi politici cristiani e musulmani che ne boicottano l'elezione.

All'incontro hanno partecipato Youhanna Yazigi, patriarca greco-ortodosso; Mar Aghnatios Afram II, patriarca siro-ortodosso; Gregorio III Laham, patriarca greco-cattolico; Mar Aghnatios Youssef III Younane, patriarca siro-cattolico; Joseph Arnaout, rappresentante del Catholicos armeno di Cilicia, Nercès Bedros IX; Michel Kassargi, vescovo caldeo in Libano; il pastore Sélim Sahyoun, presidente del Consiglio superiore della comunità evangelica in Libano e Siria; il nunzio apostolico Gabriele Caccia; diversi rappresentanti di organismi caritativi cattolici, ortodossi e protestanti.

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