Giubileo della Curia Roma. Omedia di Mark Ivan Rupnik

Pubblicato in Missione Oggi

Santo Padre, venerabili Padri, fratelli e sorelle in Cristo, mi è stato chiesto di preparare un aiuto per la meditazione sulla misericordia nella vita quotidiana.

Pavel Florenskij, un geniale pensatore cristiano, di vita santa, martire, sempre ripeteva che la vita è un tessuto relazionale, che la vita scorre attraverso le relazioni, e che nelle relazioni, nella vita relazionale, l’uomo rivela il suo contenuto. E sono due le possibilità, secondo lui: l’individuo rivela se stesso; la persona, come sappiamo, teologicamente rivela l’Altro. Dentro il volto del cristiano c’è sempre ancora un altro Volto. Dentro il volto del cristiano vive la Chiesa, perché partecipiamo al Corpo di Colui che poteva dire: “Chi vede me, vede il Padre”.

 Dunque, è la storia il luogo della conoscenza della per-sona. Vale questo per l’uomo, perché la storia è un mistero delle relazioni, e vale questo per Dio. Dio lo conosciamo nella storia. Nell’Esodo, Dio si presenta così: “Una viscerale commozione per l’uomo io provo”. E nelle prime pagine della Bibbia, abbiamo Dio che si incammina sulle orme dell’uomo. Tutto questo libro è un racconto di questa ricerca.

Dio è l’unico che può coprire la distanza che separa l’uomo perduto, peccatore, morto, dal Dio vivente. L’uomo da solo non può varcare, in nessun modo questa distanza, perché significhi-rebbe varcare il peccato e la morte. Non lo può. E la capacità di Dio, di coprire questa distanza e raggiungerci, è l’identità di Dio verso di noi e verso la creazione, cioè la misericordia.

Leggiamo nell’Ufficio Maronita del Sabato Santo: “Buon Pastore, per cercare la tua pecorella, ti sei abbassato. Fosti elevato sul legno e da lassù hai visto che era diventata polvere. Allora sei disceso verso di lei, nel grande Sheol, ti sei chinato sulla polvere, l’hai chiamata con la tua voce, e l’hai risuscitata, l’hai messa sulle tue spalle e l’hai fatta risalire con te in cielo”. Questa stessa immagine, che si trova sul logo del Giubileo, la troviamo descritta anche in questo bellissimo inno di sant’Efrem il Siro: “Il Pastore di tutto è disceso a cercare Adamo, la pecora che si era perduta. Sulle sue spalle l’ha portata, alzandola. Egli era un’offerta per il Padrone del gregge. Benedetta la sua discesa! Tu sei disceso nell’Ade per cercare la tua immagine inabissata. Come un povero e un mortale, tu sei disceso e hai scandagliato l’abisso dei morti. La tua misericordia è stata confortata nel vedere Adamo riportato all’ovile”.

La misericordia è come la comunione. Nel senso stretto, la comunione è solo la vita di Dio. E la misericordia è il nome solo di Dio. Queste due cose l’uomo non può né inventare né fare. Tranne quando viene raggiunto dalla misericordia e comincia a partecipare al dono della vita che è comunione. Queste due cose non sono opera nostra. Quando l’uomo si sforza di fare la comunione, confondendola con la comunità, per esempio, che è semplicemente un luogo dove si manifesta e si realizza la comunione, prima o poi l’uomo si stanca, perché la comunione si realizza in modo pasquale.

Queste due cose noi non le possiamo fare, le possiamo solo rivelare. E io penso che bisogna stare molto attenti, perché, con tanto forte antropocentrismo, l’individuo che fa tutto, si mette a fare anche le opere di misericordia. No. L’uomo diventa luogo della rivelazione della misericordia, perché comincia a vivere secondo la vita di Dio, cioè includendo l’Altro. L’esistenza di Dio, come dicevano gli antichi Padri greci, è nel modo di essere. E qual è il suo modo? Che il Padre esiste includendo già il Figlio. L’esistenza di Dio è coinvolgente, è includente. E quando l’uomo riceve questa vita e comincia a vivere così, diventa una rivelazione.

Per poter vedere un po’ meglio come l’uomo può rivelare la sua realtà, il suo contenuto, e quale è il vero contenuto che l’uomo nella storia può rivelare come Chiesa, possiamo rifarci ad alcuni passi biblici, ben conosciuti, che non bisogna neanche leggerli, perché li sentiamo tutti dentro. Per esempio, Gv 15, quando Cristo dice: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Rimanete in me…”. Per portare frutto bisogna rimanere in Gesù.

 Prima cosa interessante è che il Padre è il vignaiolo. Lui pota! Noi siamo sempre sotto il rischio di cominciare ad aggiustare noi stessi da soli, una volta secondo un’idea, un’altra volta su un’altra corrente culturale, ma siamo sempre noi che operiamo su noi stessi. No. E’ molto bello:  il Padre pota, il Padre ci purifica.

E noi sappiamo che sono due le potature descritte. La pri-ma: quella che taglia i rami. E’ una potatura delicatissima, perché se uno non sa farla, prima o poi uccide il vitigno, non cresce bene. Ma la seconda potatura è ancora più delicata. Si fa quando ormai sui rami, sui tralci, si intravedono i grappoli. E viene il vignaiolo e comincia a tagliare anche alcuni tralci che hanno già i grappoli. Infatti, Giovanni, lì, usa la parola “purificare”, non “potare”. Perché? Perché così si porterà più frutto. E solo il vignaiolo, solo il Padre sa quale è il frutto vero che deve portare una persona, perché la storia chiederà a quella persona di rivelarsi.

 Ma se uno comincia ad aggiustare se stesso da solo, rovina. Per esempio: se una persona è molto infuocata, forte, energica, e poi comincia a sistemarsi per diventare una persona tranquilla, mite, buona, quasi flemmatica, ebbene, forse ha rovinato la sua missione. Perché forse Dio, in un dato momento, la chiamerà perché è necessaria una persona forte, energica, decisa. Dio sa quale è il frutto e come portare più frutto. E’ molto curioso, perché il frutto del vitigno non è il grappolo, ma il vino! Non ci si può innamorare del grappolo, dell’uva. Bisogna guardare il vino. E il vignaiolo sa come tagliare, affinché i grappoli che rimangono, portino miglior vino, e ne portino di più.

Una seconda cosa curiosa: non ci si può fermare alla prima tappa della vita: quando uno crea, propone, realizza... Ci vuole il passaggio del torchio, del frantoio, del mosto… per avere il vino. E la Pasqua nessuno se la prepara da solo. Sono gli altri che ce la preparano, spesso i più vicini, come per Cristo: i suoi discepoli sono andati a preparare la Pasqua. L’amore deve maturare in modo pasquale, altrimenti non porta il frutto dell’amore che rimane.

Ma c’è ancora una cosa più curiosa: il legno del vitigno. Il profeta Ezechiele, nel cap. 15, dice: “Si adopera forse quel legno del vitigno per farne un oggetto? Ci si fa forse un piolo per attaccarci qualcosa? No, neanche questo. Ecco lo si getta sul fuoco a bruciare. Il fuoco ne divora i due capi e anche il centro è bruciacchiato. Potrà essere utile a qualcosa? a qualche lavoro?”.

Sono nato sulle montagne dove c’è solo la neve e non cresce niente. Mi ricordo, da piccolo, la gente vendeva ai paesi più caldi le cose… I contadini facevano il sapone da soli… e si diceva: … da quel paese, dove c’è il vitigno, non comprate il sapo-ne, perché mischiano, nella cenere, anche la cenere del vitigno e il sapone sporca, lascia il segno. Perché il legno del vitigno non serve neanche bruciato. Non serve a nulla. Tranne per fare il vino! Quando passa l’acqua attraverso questo legno della vite, solo questo legno ha delle caratteristiche che vengono lasciate dal succo che scorre. E’ capace di produrre il grappolo dell’uva, il mosto, attraverso il torchio, e il vino. E’ un legno unico, che contiene tutto ciò che è necessario per avere il vino.

 A che cosa Cristo si riferisce con questa vite, con questo legno? E’ l’umanità. Se l’umanità non viene attraversata dalla vita filiale, dalla vita divina, finisce tragicamente come ogni essere della creazione. L’uomo è uomo solo se è divino-umano, se è di Cristo, se è la divina umanità di Cristo. Se attraverso la nostra natura umana non scorre un principio personalizzante, personale, filiale, con una vita che ha la sorgente nel Padre…, ci possiamo innalzare in tante opere, ma la tomba e il verme sarà l’ultima stazione.

Invece, se passa attraverso di noi questa vita di Dio, allora l’uomo è capace di portare il frutto che rimane! E’ capace di avvolgere il suo lavoro nell’amore che rimane in eterno, perché torna al Padre. Perciò ciò che l’uomo può rivelare è la sua divina umanità in Cristo! Per vedere questo contenuto bello della divina umanità (Cristo, mandato dal Padre, è come un raggio di sole - dicevano i Padri – che fa passare la linfa nella natura umana, rendendola filiale, divina), dobbiamo riferirci ad un altro passo, che conosciamo molto bene a memoria quasi tutti: Gv 2: Cana di Galilea. Però lì si vede bene qual è il rischio, perché si tratta delle nozze.

 Le nozze sono immagine del Cantico dei Cantici, cioè la relazione uomo-Dio, però la figura centrale sono le sei giare di pietra e vuote. E tutta la tradizione patristica vedeva in queste sei giare la Legge decaduta in un legalismo e in una religione moralistica, che si è prosciugata e non serve più per la purificazione, perché non c’è niente dentro. E quando Maria dice: “Non hanno più vino!” che cosa vuol dire? Il vino, nei Libri Sapienziali, che cos’è? Il senso della vita! (Siracide). Cos’è la vita dell’uomo senza vino? L’amore (cfr. Cantico dei Cantici), il sapore, il gusto della vita! Allora, cosa si sposano a fare se non hanno l’amore?

Una religione che finisce in un moralismo legalistico, pro-sciugato, non serve più. E infatti, come sappiamo dal vangelo di Gv, Cristo supplisce a una serie di cose, Cristo sostituisce l’allean-za: un nuovo rapporto tra l’uomo e Dio, basato sull’amore, basato su un compimento dell’alleanza. Quando fu innalzato, spirò… e l’umanità prese questo respiro e cominciò a vivere nella vita filiale. Si apre il costato e, da questa fessura, viene generata l’umanità nuova. E’ dalla ferita che siamo generati!

Il terzo giorno, che era ben conosciuto nell’Antico Testamento (cfr. Esodo 19): il giorno in cui Dio ha dato la Legge, diventa il terzo giorno della Nuova Alleanza, della risurrezione di Cristo, di un rapporto fondato nell’amore filiale tra Padre e Figlio, tra Dio, che è Padre, e noi. In Cristo, si apre la via della figliolanza, diventiamo veramente figli di Dio. Non con una conquista, ma con una accoglienza. A chi lo accoglie, gli sarà dato il potere di diventare figlio di Dio (Gv 1). Non più con uno sforzo, ma con un’accoglienza.

Questo sistema della religione decaduta in una legge sterile, si vede molto bene in un altro passo, nel vangelo di Mc 10. Troviamo questo ricco giovane, che corre verso Cristo e si getta davanti a lui con una domanda esplicita. Ora, noi sappiamo che nel Medio Oriente non si corre. Infatti nel vangelo di Mc corrono solo due, perché a Dio ci si avvicina con dignità. Si corre quando si è oppressi, quando si è pressati da qualcosa. Tanto è vero che lui si è gettato in ginocchio con una domanda. Ma strano, perché era uomo ricco e molto religioso, molto osservante. Osservava tutti i comandamenti: sta scritto… Però non era felice. Aveva paura della morte. Avrebbe voluto vivere, ma sapeva che doveva morire.

Qui, possiamo vedere una specie di decadenza della religione, come un insieme di pratiche, dottrine, precetti, coman-damenti, esercizi, che l’uomo deve fare per attirare la bene-volenza di Dio su di sé, per conquistarsi uno stato, un premio. E, se non lo farà, alla fine sarà punito. Ma guardate, sappiamo molto bene che proprio da questo Cristo è venuto a salvarci.

Ci sono tanti episodi nel vangelo. Il più clamoroso è certamente quello di Gv 10, quando Cristo scaccia le pecore dal tempio, dagli atri del tempio. Proprio nel cap. 9, il cieco viene cacciato dal tempio, ma ormai è entrato attraverso la Porta che è Cristo, in una sua casa vera. E’ libero di uscire e di entrare. Nel quadro di Gv 10, Cristo spinge le pecore fuori. Certamente sovrappone due immagini: ovile del villaggio, con aulè, che, in greco, non è ovile, ma recinto della tenda dell’incontro, fuori dagli atri del tempio. Le spinge fuori: … e per questo si sono arrabbiati gli osservanti della legge, perché se lui avesse parlato semplicemente di un ovile, non si sarebbero arrabbiati così. Ma si sono arrabbiati al punto che hanno detto: “Questi deve morire”, perché ha dichiarato qualcosa di falso in questo modo di intendere la religione, cioè l’alleanza, fatta decadere a qualche altra cosa. E addirittura sappiamo come va a finire.

 In Gv 11, Gesù chiama la pecora: “Lazzaro vieni fuori!...”, e Cristo va dentro la tomba. Per liberarci dalla morte è entrato lui. E anche in Mt 11,28, quando si dice: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò”, l’esegesi moderna, quasi unanimemente, dice che si riferisce agli oppressi e appesantiti da un modo di vivere la religione, che diventa giogo pesante.

Paolo ai Galati, in modo fortissimo, per non dire agitato, dice come è grande il pericolo per noi, che siamo in Cristo, all’interno di questo spazio libero (come dice la Lettera agli Ebrei cap. 10), di questa via aperta e vivente al santuario, al trono della grazia, della misericordia, all’interno di questa libertà, di questa apertura…, di costruire di nuovo dei modi di fare, di vivere la fede, decaduta in una osservanza delle cose, facendo leva su di noi, che conquistiamo qualcosa per avere qualche merito. Paolo si arrabbia in tutti i modi, come sappiamo dalla Lettera ai Galati. Non si può. Il rapporto con Dio viene giustificato gratuitamente. Non possiamo farlo noi. E allora c’è una vera tentazione; cominciare di nuovo a mettere al centro il mio impegno, guadagno, conquista, il merito, per avere poi in cambio qualcosa.

Christos Samaras ha fatto degli studi molto curiosi. Egli dice come di fatto si sono inaridite intere realtà della Chiesa, proprio attraverso questo modo di vivere, di far decadere la fede - che non è accoglienza di una vita nuova, un’umanità vissuta da una vita che è comunione personale – in un semplice impegno delle pratiche religiose.

Nikolaj Berdjaev avrebbe persino il coraggio di dire che, nella Chiesa, il demonio può tornare solo per la via della religione. Altrimenti è subito riconosciuto. Ma entra facendo leva sul fatto che noi dobbiamo fare qualcosa. Una religione che è sempre capace di trovare ancora qualcosa che ti manca, che deve ancora purificarsi… devi ancora impegnarti... E questo stanca, logora. Vediamo quanta gente non ce la fa più. Questa è la grande tentazione di fraintendere e di sbagliare. E allora, che cosa rivela una tale persona? Può rivelare anche la sua perfezione, formalmente impeccabile, però, no, rivelerà sempre se stessa.

Le mancherà sempre una cosa fondamentale: non può rivelare la vita come comunione, come inclusione dell’Altro, come il Volto di uno che ti include. Perché non ce l’ha. E ciò che non hai non puoi rivelare. Bisogna accogliere… acco-glienza!

Alexander Schmemann, sulla stessa pista di Samaras, fa vedere come è accaduta una specie di istituzionalizzazione religiosa della fede nella Chiesa, lungo i secoli di convivenza con l’Impero. E infatti, c’è proprio in Vaticano, nelle stanze di Raffaello, un affresco di Matthew Lauretti, che testimonia come ci siamo compresi come religione che ha sostituito una religione pagana. Questo affresco testimonia proprio questo. Ma è un errore tragico. Il cristianesimo non può essere inteso come un sostituto di una religione pagana. Abbiamo abbattuto un ‘dio’  e abbiamo messo ‘Cristo’. No, no. Mi dispiace, perché nessuna religione, nessuna legge, intesa in questo modo, può fare una costituzione dell’uomo nuovo. E non si tratta di aggiustare un po’ l’uomo, ma di farlo rinascere, di farlo risorgere, di farlo nuovo, di farlo filiale. E per essere filiali, Qualcuno ti deve generare! Non c’è verso, la nostra fede è accoglienza di una vita! Questo è il compito della Chiesa, come dice Paolo agli Efesini: manifestare di quale grazia, di quale bontà siamo stati destinatari! Far vedere al mondo cosa Dio ha fatto di noi! Cosa Dio fa quando scorre attraverso l’umanità.

Ogni Curia, non solo la Curia Romana, rischia certa-mente questa tentazione, di acquisire  un carattere un po’ para-statale, para-imperiale, come sappiamo dai tempi passati. Ed è una tentazione tremenda, perché questo mette nel cuore la funzione, la struttura, l’istituzione, l’individuo, che è in funzione di… Ma l’individuo non può rivelare altro che se stesso. Perciò si può aprire una porta alla tentazione di importare tutte le patologie del mondo proprio all’interno di noi. E questo sarebbe molto grave, è lo scandalo che noi possiamo dare davanti al mondo, di far vedere che viviamo il cristianesimo come una realtà individuale. No!

Sì, è vero, abbiamo secoli di spiritualità che ha messo nel cuore che cosa? La perfezione dell’individuo. Tu entri in semi-nario, subito si comincia la perfezione di te stesso, e dap-pertutto. Va bene, questo meno male è finito. Però non sarà così facile congedarsi da questo.

Berdjaev direbbe: il demonio della perfezione indivi-duale è la rovina della ecclesialità, del Corpo, della comunione. Come dice Schmemann, il cristianesimo non può promettere a una persona di arrivare a una perfezione ideale, ma le può promettere la vita eterna, in comunione, nel Corpo di Cristo.

Vorrei concludere con un grande maestro, che è il mio padre spirituale, padre Tomáš Špidlík. Anni fa il card. Špidlík mi ha tanto fatto leggere la Bibbia di Vladimir Sergeevič Soloviev. Soloviev, che secondo Balthasar è il più grande pensatore del secondo millennio, diceva che la perfezione della Chiesa è nella organizzazione. Provate a pensare: da noi questo significa subito mettere le commissioni in atto. No, no, no… Soloviev dice: la perfezione della Chiesa è nella organizza-zione. Cioè la Chiesa può portare nel mondo una trasfigurazione della società, perché fa e organizza la vita a modo della sinergia trinitaria, a modo della manifestazione della divina umanità di Cristo, preparando la nuova venuta di Cristo, liberando l’uomo, nella Chiesa, dalla prigione di una dinamica, che all’inizio è necessaria, ma poi deve essere superata. Quale? Peccato-Redenzione. Questa è la prima tappa. Ma poi segue la tappa dello ‘Pneuma’, dello Spirito Santo, della creatività, della liberazione da ogni imprigionamento dell’umanità, che diventa teofanica, che rivela l’amore di Dio, che rivela questo modo di essere includente, che include l’Altro, lo coinvolge.

 Questo, penso sia importante, oggi, in una società così frantumata. Se qualcosa noi vogliamo suggerire alle istituzioni del mondo, sarebbe bello se potessimo suggerire questo: un modo di strutturarsi, di governare, di dirigere, di gestire, che è comunionale, che è includente, che include e che è una manifestazione di una realtà più profonda, affinché suscitiamo l’appetito del mondo. Noi siamo chiamati a suscitare la voglia e l’appetito per una vita così.

Che il mondo, vedendoci così, possa dire: ma che bello! Dietro a una Chiesa brava non si incamminerà mai nessuno. Ma dietro a una Chiesa bella, che dentro di sé, dentro i suoi gesti, sguardi, parole, fa emergere un Altro, il Figlio, e ancora di più, il Padre, perché siamo mossi da quello Spirito Santo che è la vita di comunione, molti si sentiranno attratti.

Allora, vedete che bello! L’uomo diventa luogo della vita come comunione e come misericordia! L’uomo come luogo della Chiesa, l’uomo come luogo della ecclesialità. Come è bello quando senti qualcuno, che ha avuto a che fare con qualsiasi Curia, e dice: sai, ho trovato delle persone libere, libere da se stesse, persone che vivono come ‘offerta’, disponibili, generose, che aprono… che bello! E quanti ci sono e questi, bisogna farli emergere. E tutto cambierà.

 Ecco, questo è ciò che volevo dire come aiuto per una meditazione, affinché, come abbiamo detto all’inizio, si cominci a coprire la distanza tra noi e il nostro uomo contemporaneo, ferito come noi, dolente come noi, provato come noi. Più saremo provati, come tutti gli uomini, più saremo misericordiosi. Perché questo sacerdozio è di Cristo: “E’ stato provato in tutto per essere un sacerdote misericordioso”. E così coinvolgiamo le persone in un desiderio di vita nuova. Grazie.

 

           

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