La Recente Esperienza Sinodale In Prospettiva Canonica

Pubblicato in Missione Oggi

Una lettura in prospettiva canonica dei principali aspetti inerenti alle due assemblee sinodali riguardanti il tema della famiglia, nella Chiesa e nella società, potrebbe essere articolata intorno a quattro questioni: la prima, circa l'istituzione sinodale in se, vissuta questa volta in chiavi rinnovate che potrebbero meritare un altrettanto rinnovato supporto normativo; la seconda, circa l'istituzione familiare in generale, in quanto la riflessione giuridica non può sottrarsi dalle analisi effettuate in entrambi i sinodi e dall'intuizione formulata quale sua conseguenza più chiara, cioè dal desiderio di "ripartire dalla famiglia"; la terza, più strettamente inerente al diritto della Chiesa, ha per oggetto la soggettività canonica della famiglia, anch'essa valorizzata rispetto alla scarsa rilevanza dottrinale e disciplinare finora presenti; infine, le questioni più strettamente vincolate al matrimonio e ai processi di nullità matrimoniale.

 

Sull'istituzione sinodale

La prima questione (l'istituzione sinodale) pone in risalto in maniera molto efficace che il fondamento più autentico e convincente del diritto canonico altro non è che la norma missionis, un concetto utilissimo per riferirsi in maniera sobria all'unica norma sostanziale che davvero conta, cioè il mandato post-pasquale di andare ("in uscita"), predicare il Vangelo, battezzare e insegnare a fare così conne appresso nell'esperienza esistenziale e comunitaria vissuta con Gesù. Questo orientamento permette di comprendere il diritto della Chiesa come esperienza concreta, maturata progressivamente nei suoi tratti essenziali, con proiezione giuridica per la vita interna della Chiesa e per i suoi rapporti con il mondo.

La norma missionis fa riferimento ad un evento trascendente (il destino di salvezza) ed avente un oggetto liberatore (proprio dalla schiavitù della Legge). Tale nucleo normativo da senso all'esistenza della Chiesa come testimone di una salvezza che, pur chiamata a compimento definitivo nella vita eterna, si costruisce in questo mondo, e al servizio della quale si pone una disciplina maturata per essere fedeli ai contenuti essenziali dell'annuncio, per consolidarsi come comunità e per rispondere alle sfide che, nel corso del tempo, ha posto e continua a porre l'adempimento di tale missione. In tal senso, il fondamento giuridico e canonico riposto nella norma missionis è inscindibile da un principio metagiuridico che ispira la evoluzione delle norme nelle comunità umane più degne di considerazione. Mi riferisco al principio secondo il quale lo ius sequitur vitam: il diritto é infatti al servizio della vita; le norme canoniche poi dovrebbero essere sempre al servizio dell'abbondanza di Vita (con la maiuscola: "perché abbiano vita e l'abbiano in abbondanza"). In tal senso, senza rischi di risultare semplicistici, è utile formulare il senso del diritto canonico considerandolo come uno "strumento per facilitare la vita cristiana", senza complicarla.

La esperienza delle due assemblee sinodali appena celebrate sono una valida dimostrazione di come la disciplina canonica (in questo caso, quella riguardante l'istituzione concreta del sinodo dei vescovi) debba e possa essere posta al servizio della vita, dell'evolversi della vita stessa della Chiesa (in un Kairòs connotato da forti esigenze di collegialità e discernimento in comune, prima dell'elezione del Romano Pontefice, al cui servizio é l'istituzione sinodale), e dell'evolversi delle esigenze della missione (in maniera speciale rispetto al tema della famiglia, oggetto di convocazione). Nel presente caso, la valorizzazione del servizio alla vita (nel senso indicato) si è tradotta in un cambiamento di certi aspetti metodologici che hanno dato un volto del tutto nuovo e più efficace all'istituzione, con la peculiarità di non dover provvedere in maniera diretta a cambiamenti normativi del vigente Ordo Synodi. In effetti, il bene tutelato con questa istituzione creata da Paolo VI 50 anni fa, altro non è che rinforzare l'esperienza di "camminare insieme" e di irrobustire, in maniera specifica, la partecipazione dei Vescovi in aiuto al Papa nella sollecitudine per la Chiesa Universale, rendendo testimonianza di ciò che lo Spirito suggerisce alle Chiese Particolari a loro affidate. Tale valore è stato ricuperato con alcuni accorgimenti circa i modi di preparazione (questionario), di estensione (due anni), di svolgimento (circolo), di votazione (pubblicata) e di conclusione (relazioni) delle assemblee. La vitalità esperimentata rispetto alla forte sensazione di decadenza dell'istituzione sinodale suggerisce di provvedere già al rinnovamento dell'Istituzione sinodale (nelle tre tipologie di assemblea) e dell'Ordo Synodi; ritengo che ciò possieda rilevanza superiore all'interesse per il rinnovamento della Curia. Sulla famiglia come istituzione di interesse pubblico (sociale ed ecclesiale)

Sulla seconda questione, cioè sulle conseguenze giuridiche e canoniche che comporta il rinnovato progetto di "ripartire dalla famiglia", l'esperienza è risultata travagliata e articolata, dagli esiti disuguali nella prima e nella seconda assemblea; in quest'ultima, certamente con maggiore lucidità e sforzo che nella prima, credo che si sia riusciti ad evitare maggiormente il rischio di polarizzazione e travisamento tematico che, in modo insidioso gravò sullo svolgimento della prima assemblea, la quale sembrava avere per oggetto il matrimonio e non la famiglia. La lettura dell'ultima relazione sinodale, specialmente nella prima parte riferita all'ascolto della famiglia, credo sia prova sufficiente (se paragonata con la relazione finale del primo sinodo) di un più deciso superamento di questo rischio.

Tuttavia, in prospettiva giuridica e canonica, non possiamo dire onestamente che si sia compiuto, con la dovuta energia, il salto di qualità che avevo augurato in un commento al questionario preparatorio della seconda assemblea, puntando soprattutto ai contenuti delle domande della prima parte, davvero opportune e pertinenti per evitare l'eccessiva "matrimonializzazione" (si passi l'espressione) del Sinodo, anche nel suo versante giuridico. Lì proponevo come programma, che potrebbe tradurre in prospettiva giuridica l'obiettivo di ripartire dalla famiglia, il bisogno di arricchire il diritto di famiglia, rivalutando la sua dimensione di diritto pubblico. Ciò significa affrancarlo dall'eccessiva riduzione dei suoi contenuti alla sfera del diritto privato, con le sue tradizionali (seppur imprescindibili) tematiche circa la filiazione, la potestà genitoriale, la successione, l'educazione e altre analoghe, oltre al matrimonio. Tale considerazione non sminuisce l'importanza altrettanto urgente che oggi rivestono, anche e soprattutto in prospettiva canonica, le questioni giuridiche inerenti alle relazioni interpersonali tra i membri della famiglia (a cominciare da quelle tra i coniugi), nonché quelle circa la dimensione spirituale, sulla quale occupa un posto di rilievo il tema della dignità sacramentale che possiede l'unione matrimoniale tra battezzati.

E' necessario però suscitare uno sforzo su quel primo settore di temi, che ben si può denominare "diritto della famiglia", e non tanto né solo "diritto di famiglia". Si tratta dei temi riguardanti le politiche sociali ed economiche con forte incidenza nella vita di famiglia; a quelle sull'attenzione ai più deboli: minori, anziani, ammalati; a quelle altre che possono essere qualificate come situazioni estreme. Ripartire dalla famiglia, in senso giuridico, implicherebbe dotarsi degli strumenti necessari per favorire che il diritto pubblico della famiglia sia considerato parametro di riferimento per valutare l'adeguatezza delle norme appartenenti ad altri settori del diritto: la normativa fiscale, sanitaria, lavorativa, scolastica, quella sugli aiuti da erogare a chi si fa carico delle persone non autosufficienti, ...). L'impatto esistenziale delle riferite legislazioni settoriali sulla stabilità e unità della famiglia potrebbe così diventare criterio e istanza critica in linea con l'obiettivo di consentire alla famiglia di svolgere il suo ruolo insostituibile come capitale sociale.

Questa prospettiva é in continuità con la Carta dei Diritti della Famiglia presentata nel 1983 dal Pontificio Consiglio della Famiglia, secondo quanto indicato in Familiaris Consortio n. 46. Nel recente sinodo si è suggerito di riprendere la Carta, che intese proporsi alla Comunità ecclesiale e internazionale come un "appello profetico in favore dell'istituzione familiare" e come "guida per l'elaborazione di una legislazione sulla famiglia" che includa i diritti della famiglia ad un livello di vita degno, ad una organizzazione del lavoro non disgregante, ad un'abitazione decente, ed al ricongiungimento, nel caso delle famiglie di migranti. Sul punto è necessario avvalersi di strumenti empirici lucidi, senza accontentarsi di quelle iniziative imprescindibili, ma del tutto insufficienti, fondate nella sola buona volontà. Si richiede maggiore competenza giuridica, sorretta da analisi interdisciplinari adeguati sulla realtà familiare. Solo da analisi attendibili potranno emergere strategie legislative davvero utili. Alla promozione di una legislazione familiare adeguata si debbono affiancare strategie di altro genere, tra le quali meritano menzione le iniziative educative e di prevenzione, insieme a una presenza direttamente operativa.

Concludo questa tematica indicando che, a mio modesto avviso, così come mi sembra piuttosto i povera la teologia della famiglia, troppo ridotta a teologia del matrimonio (e non di rado incentrata nella dimensione morale), è evidentemente insufficiente l'approccio canonico alla tematica della famiglia, con identica riduzione alla sola sfera matrimoniale.

Sulla soggettività canonica della famiglia

Non manca di avere rilevanza canonica il fatto che nel Sinodo si sia tanto insistito nel riconoscere il ruolo della famiglia, non solo come oggetto della evangelizzazione ma anche come soggetto attivo di essa. In tal senso ritengo lecito parlare di una rivalutazione o arricchimento della soggettività canonica della famiglia, sia come destinataria sia come agente della missione e dell'azione pastorale.

Un primo ambito di tale soggettività deriva dalla concezione della famiglia come Chiesa domestica, con applicazioni specifiche nell'ambito della spiritualità (spiritualità coniugale e familiare) e nell'ambito della educazione nella fede, nonché della catechesi familiare. Non sono però mancate nel dibattito e nel documento conclusivo riferimenti ad altri ambiti meritevoli di maggior tutela rispetto a quella specifica soggettività canonica che spetta alla famiglia, specialmente circa il ministero che ad essa dovrebbe riconoscersi maggiormente fuori dalle mura domestiche e in favore dell'intera comunità: come ministero globale e più specifico della famiglia, nel concerto plurale dei ministeri della comunità, si segnala in diverse parti della relazione finale l'annuncio della bellezza della famiglia, cioè la promozione e il sostegno, soprattutto testimoniale, della qualità delle relazioni interpersonali tra coniugi, tra genitori e figli, tra le famiglie; la protezione alle famiglie più deboli; la vicinanza a quelle che vivono circostanze di speciale sofferenza; l'accoglienza delle famiglie in difficoltà; l'incoraggiamento verso l'impegno fiducioso a chi tentenna nell'assumerlo; l'accompagnamento adeguato di coloro che hanno esperimentato il fallimento dell'unione familiare.

Nella riflessione e nel documento conclusivo si fa menzione esplicita del ruolo dei movimenti e delle associazioni familiari. Si può allora sostenere che il tema della soggettività canonica della famiglia deve essere implementato prendendo in esplicita considerazione il fenomeno associativo tra famiglie, incoraggiato dal magistero pontificio (per es. in Familiaris Consorti° 46; 72) e espressamente formulato nella Carta sui diritti della famiglia (art. 8, lett. b), sia rispetto alla presenza nella società e nelle istituzioni pubbliche, sia rispetto al contributo ministeriale specifico della famiglia, valorizzato nel recente sinodo. In relazione al ministero specifico della famiglia e dei movimenti e associazioni familiari si fa menzione espressa dell'accompagnamento durante i primi anni della vita matrimoniale, indicando che la materia richiede "ulteriore sviluppo" a livello parrocchiale, diocesano e di conferenze episcopali. Si deve quindi ritenere che i primi anni dopo il matrimonio costituiscano una tappa di attenzione pastorale meritevole di esplicita rilevanza canonica o disciplinare, in termini analoghi a quanto si dispone nel CIC su le prime tappe dopo la professione religiosa (can. 659; sugli sposi, cann. 1063, 4 e 1064).

Forse è eccessivo ritenerla una dimensione specifica della soggettività canonica della famiglia, ma nni pare che rivesta molto interesse e sia degna di nota la menzione apposita (seppur senza addentrarsi nello specificare le modalità) circa la partecipazione attiva delle famiglie, o circa l'intervento oculato di alcune di esse, nella formazione dei presbiteri, al punto di essersi indicata come ipotesi l'attualizzazione eventuale dell'Ordo formationis su questo aspetto.

 

Sul matrimonio e sui processi di nullità

Rispetto al matrimonio, una prima area di questioni canoniche é stata rappresentata dalla preparazione al matrimonio, sulla quale ci si è occupati della pedagogia da utilizzare, inserendo il problema nel richiamo alla obbligata (ma troppo inesistente) catechesi di adulti come forma costante della vita cristiana, nelle sue dimensioni essenziali (Parola, comunità, missione). Il problema si pone spesso (e si è posto in assemblea e in alcuni circoli) al momento di domandarsi se debba esserci traduzione disciplinare del rinnovamento pedagogico auspicato per far fronte alla realtà che oggi vivono le giovani coppie. La normativa codiciale è troppo scarsa e generica: sul punto dispongono il can 1063, 2, che si limita a richiamare una preparazione personale da parte dei futuri coniugi; il can. 1065, dove si stabilisce una preparazione al matrimonio tramite l'eventuale ricezione di altri sacramenti, come la cresima, la penitenza e l'eucaristia; i cann. 1066-1067 con disposizioni sull'indagine che deve precedere alla celebrazione.

Il Pontificio Consiglio della famiglia suggerì tempo fa una più articolata disciplina, distinguendo tre tappe di preparazione: una remota, che si svolge in famiglia, nella scuola e in ambiti di formazione; un'altra prossima, abitualmente consistente in corsi per i fidanzati, sia come catechesi, in forma di colloqui specializzati o con incontri testimoniali; e una tappa immediata, dove tra i vari obiettivi riveste speciale importanza quello di valorizzare il dialogo personale con il parroco, che appare un momento degno di più adeguata disciplina, evitando che diventi mera formalità in forza di una concezione abusiva e impropria dello ius connubii che spetta ai fedeli. Su questo tema i richiami a non perdere di vista l'inesistenza di misuratori della fede (i c.d. "pistometri"), si sono fatti sentire.

In tal senso, si è prospettata fortemente l'idea di approfondire, con adeguate basi teologiche e canoniche, le relazioni tra matrimonio, fede e sacramento. Sono molte le implicazioni giuridiche che, in una società secolarizzata, debbono essere chiarite sulla dignità sacramentale del matrimonio, tanto per accedervi quanto per stabilire la validità. Un concreto aspetto giuridico al riguardo verte sull'ammissione al matrimonio, a seguito di quanto, nella preparazione, sia emerso circa i suoi contenuti essenziali. Il codice stabilisce limiti esclusivamente in caso di abbandono notorio della fede (can. 1071) e, pur in termini esortativi, nel caso di giovani con età inferiore ai costumi locali (can. 1072). Insieme a questa tematica è emersa (seppur troppo indirettamente, e piuttosto con richiami costanti da parte di noi canonisti) la necessità di non dimenticare la rilevanza del "bene dei coniugi" come finalità essenziale del matrimonio; si tratta di richiamo di natura anche canonica, seppur una grande parte della canonistica (e della prassi giurisprudenziale) non è riuscita a trarre le conseguenze canoniche di questa rivalutazione coerente con il rinnovamento apportato dal concilio Vaticano II sulla dottrina del matrimonio.

Sui processi di nullità, recentemente riformati da Papa Francesco secondo quanto era emerso nella precedente assemblea del 2014, l'ultimo sinodo si è occupato poco, riducendosi gli interventi a ringraziare il Papa per aver valorizzato la dimensione pastorale dell'attività giudiziale (con un solo intervento piuttosto guardingo, richiamando una revisione fra cinque anni), e avvertendosi del bisogno di preparare personale, chierici e laici, e di garantire la debita dedizione, accompagnando l'effettiva messa in pratica della riforma.

Ovviamente, poiché non tutti i matrimoni falliti possono dirsi nulli, nemmeno nella rivalutazione della dichiarazione delle parti come mezzo di prova (già prevista nel CIC ma costitutiva di altrettanta difficile ricezione nei tribunali), il sinodo si è occupato dell'ulteriore accompagnamento dei fedeli coinvolti in tali situazioni, formulando i temi del discernimento ulteriore, anche su elementi rivelabili nel foro interno, e quello della maggior integrazione, evitando esclusioni non dovute. Le norme universali non prevedono esclusioni dirette, anche se indirettamente possono dirsi collegate ai requisiti di "vita coerente con la fede" stabiliti per alcune funzioni o servizi, come per esempio per la funzione di padrino (can. 874 par. 1, 3; can 893 par. 1). Alcune norme particolari prevedono in maniera esplicita forme di esclusione, non sempre giustificate se paragonabili con la testimonianza e il servizio che questi fedeli possono offrire rispetto a certi aspetti della vita cristiana, proprio in forza della loro situazione. Tra questi servizi possono risultare particolarmente appropriati quelli di natura formativa

 

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