“La missione carismatica delle nostre opere oggi”

Pubblicato in Missione Oggi

Quando mi è stato chiesto di fare questo intervento sono stata presa un po’ di sorpresa perché ero appena uscita da un Capitolo Generale impegnativo, ma anche con grandi e belle prospettive.

Poi mi sono resa conto del tema importante e delicato che mi era stato assegnato e mi sono arrivate le ansie e le paure.

Ansie e paure perché la mia esperienza è abbastanza limitata: faccio parte di una Congregazione piccola, missionaria, nata e sviluppatasi soprattutto in Toscana.

E’ vero che da Presidente Regionale dell’USMI per 10 anni, ho potuto conoscere tante realtà e soprattutto entrare in contatto con molte problematiche legate alle Congregazioni e alle opere da esse gestite.

Quindi volentieri cercherò di condividere con voi quanto ho potuto riflettere e quanto ho imparato stando nel “campo”.

Mi sembra comunque importante partire dalla Parola di Dio, per cui mi sono domandata: “Quale testo potrebbe illuminare questo nostro incontro di Economi ed Econome che non sono chiamate soltanto a gestire al meglio le opere, ma a dare un’anima ai servizi per la persona”?

E la scelta è caduta su un detto di Gesù presente nel discorso della Montagna di Matteo, collocato subito dopo le Beatitudini: “Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo (Mt 5,13.14).

Le Beatitudini sono la nostra carta di identità, sono i segni che devono contraddistinguere un cristiano e senza questi non possiamo dire di essere cristiani!

Ma come tradurre questa logica evangelica?

Lo dice Gesù – “Voi siete il sale della terra -  ma se il sale perdesse il sapore con che cosa lo si potrà rendere salato? 

Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra il monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio”.

I discepoli devono essere sale e luce, pena l’inutilità più completa.

Gesù sta dunque parlando del dovere missionario della sua Comunità e possiamo notare anche la sua dimensione universalistica: “La terra e il mondo” sono l’intera Umanità.

La sfida che abbiamo davanti anche noi è proprio questa:  come le nostre Opere saranno “sale” e “luce”?

Da tempo nella Chiesa si parla di nuova evangelizzazione ed esistono due linguaggi per attuare questo programma.

Il primo è quello di sempre, quello dei concetti, della parola, dei contenuti, ma esiste anche un altro linguaggio che è venuto alla ribalta, in modo provvidenziale,  ed è quello dei gesti, così caro a Papa Francesco.

Ecco, le nostre opere per essere “sale” e “luce” devono prendersi cura delle “periferie esistenziali”, che sono i luoghi della sofferenza,  abitati da tutti coloro - come  dice Papa Francesco – che sono segnati da povertà fisica e intellettuale, luoghi dove sta chi sembra più lontano e indifferente; luoghi dove Dio non c’è, periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo.

Ma cercherò di dare ordine a ciò che intendo comunicarvi e lo faccio indicando 4 punti:

 

  • Il PRIMO:             L’evoluzione delle nostre Opere di carità.

 

  • Il SECONDO:          Quando è che un’opera apostolica trasmette il carisma   (cioè è evangelica?).

 

  • Il TERZO:             “Consegnare” le Opere o “rivitalizzarle”.

 

  • Il QUARO:             (a mo’ di conclusione) - Quali vie percorrere per rendere significative oggi le nostre Opere?

 

1° -  L’evoluzione delle nostre Opere di carità

Partiamo dal primo, L’evoluzione delle nostre Opere di carità.

La maggior parte degli Istituti Religiosi, nati a cominciare dalla prima metà dell’Ottocento, sono caratterizzati dalla dedizione totale al servizio e alla carità verso il prossimo.

Servizio rivolto, da un lato, a lenire le sofferenze e i mali morali, fisici e materiali dei più svantaggiati, emarginati ed esclusi, dall’altro a favorire positivamente l’accoglienza e l’inserimento di costoro nella Società, a promuovere risorse e capacità per ridare dignità alla persona.

In questo senso ci troviamo davanti a un fenomeno generalizzato, che in stretta connessione con le rapide trasformazioni della Società e al sorgere di nuove emergenze, sorgono nuovi modelli di Istituti Religiosi, che per l’esercizio della carità operosa sono capaci di affrontare evangelicamente le nuove sfide.  

Basti pensare al Cottolengo a  San Giovanni Bosco e a tanti altri Fondatori e Fondatrici.

Le nostre Congregazioni Religiose, infatti, maschili e femminili, rappresentano ieri come oggi il volto gratuito della carità. Nel loro ruolo di apri pista hanno saputo indicare come intervenire nelle situazioni difficili e delicate dove il servizio pubblico era totalmente assente.

Ma dobbiamo chiederci quale sia oggi il contributo specifico che ancora possiamo dare e quali siano gli strumenti da adottare e le strade da percorrere per rispondere ai nuovi bisogni.

Infatti alcuni bisogni che i nostri Fondatori avevano avvertito nel passato, sono stato recepiti dallo Stato o trasformati in diritti esigibili dai cittadini.

Inoltre molti servizi che all’origine delle Congregazioni erano offerti per carità, sono ora un diritto che si esige per giustizia.

Quindi possiamo chiederci: “Come definire oggi il nostro impegno nel sociale in quanto Religiosi?

A mio avviso e prima di tutto è, come ricorda Benedetto XVI nella “Deus caritas est” che si fonda su tre valori: la competenza professionale – l’attenzione del cuore e la gratuità.

Ma possiamo chiederci: “E’ oggi possibile esercitare la gratuità in un sistema vincolato da convenzioni, contributi, stipendi?"

Si, soltanto in due spazi: quello del volontariato e quello delle risposte ai nuovi bisogni emergenti, come il bisogno di senso, l’amicizia, l’incontro, le risposte ai bisogni immediati di chi è in difficoltà ( e non sto parlando solo di Migranti).

La Chiesa è e deve diventare coscienza profetica e noi Religiosi dovremmo  essere oggi più di sempre gli avvocati dei poveri.

 

Ma come esserlo?

 

Per Papa Francesco occorre: “Rafforzare ciò che è istituzionale nella Vita Consacrata e non confondere l’Istituto con l’opera apostolica.  Il primo resta,  la seconda passa”

Prosegue il Papa. “Il carisma resta forte, l’opera passa. A volte si confonde l’Istituto con l’opera. L’Istituto è creativo, cerca sempre nuovi cammini. Così anche le “periferie” cambiano e se ne può fare un elenco sempre nuovo”.

 

2°. Quando è che un’opera apostolica trasmette il carisma, cioè          parla,  evangelizza?

         E’ in che cosa si distingue da un’attività prettamente statale o   laica?

 

Nel secondo punto possiamo chiederci: Quando è che un’opera apostolica trasmette il carisma, cioè parla, evangelizza? E’ in che cosa si distingue da un’attività prettamente statale o laica?

 

Nella nostra società dove grande è il rischio di essere considerati dei numeri, saper dare attenzione alla persona, affermare la sua dignità,  a partire da chi è più debole ed emarginato, è uno dei motivi per cui le nostre Opere risultano ancora attualissime.

 

Quando chiediamo ai nostri giovani e alle nostre giovani, il motivo della loro scelta, la risposta è al 90%  legata proprio alla sensibilità verso gli “ultimi”, all’attenzione alla persona.

Questa è e deve essere la nostra prima preoccupazione e non quella soltanto della gestione.

 

Le nostre Opere di carità parlano? Dicono qualcosa?

Se non dicono nulla, se non si distinguono per una speciale e amorevole attenzione alle persone in difficoltà, non hanno più ragione di essere.

 

Proprio in uno dei suoi primi interventi,  Papa Francesco ha detto: “La Chiesa non è una ONG o una organizzazione benemerita per il bene che fa…. Se non annuncia Cristo non è Chiesa”.

 

 

3° - “Consegnare” le Opere o “rivitalizzarle”?

 

Passando quindi al terzo punto, possiamo chiederci: “Consegnare” le Opere o “rivitalizzarle”?

 

Don Flavio Peloso, Superiore Generale della Congregazione di don Orione, citando il suo Fondatore diceva ( 7 ottobre u.s.) che oggi occorre  “passare dalle opere di carità alla carità delle opere”.

E dopo aver illustrato le nuove forme di gestione nella sua Congregazione ha posto l’attenzione su tre scelte strategiche che mi sembra opportuno riproporre anche a questa Assemblea.

 

  1. L’ attivazione e ruolo del Consiglio d’opera
  2. La gestione apostolica di un’opera su base di indicatori carismatici
  3. La Formazione dei dipendenti e dei collaboratori.

 

Fino a qualche tempo fa bastava aprire un’opera assistenziale o un scuola ed essa era immediatamente un’opera caritativa.

 

Oggi, dopo l’evoluzione avvenuta, non è più automatico che un’opera assistenziale o sociale o educativa sia ipso facto un’opera caritativa-apostolica.

Il secolarismo, infatti, non tocca solo il contesto sociale, ma anche le nostre stesse opere.

Deve quindi cambiare non solo la dinamica delle opere, ma anche quella di noi Religiosi e dei nostri collaboratori laici che vi operano.

 

E questo comporta un discernimento continuo e spesso una conversione delle opere, ma anche nostra  perché possano essere carismatiche e apostoliche.

 

Scrive sempre Padre Flavio: “Se non sono pulpiti le opere, diventano tombe dell’apostolicità”. E continua: “Non dobbiamo essere né catastrofici (è finita l’epoca delle opere), né illusi (le opere parlano da sole)”.  

 

La rivitalizzazione ha un doppio versante: la missione e la vita.

E’ importante che prima di chiudere una Comunità e cessare servizi e attività, ridurre e diminuire le presenze, pensare a unire le forze vive perché operino insieme e condividano la missione dell’Istituto a tutti i livelli.

 

Queste forze possono venire dai laici, da altre Congregazioni o da altre Istituzioni.

 

4°-  Quali vie percorrere per rendere significative oggi le nostre Opere?

 

Nel quarto punto possiamo invece domandarci: Quali vie percorrere per rendere significative oggi le nostre Opere?

 

Non sono in grado e non intendo qui dare risposte, ma soltanto indicare degli itinerari possibili per ridare slancio al nostro essere e al nostro operare da Consacrati nella Chiesa di oggi.

 

 

  1. Creare Fraternità per ridare speranza.

 

Oggi come dice Enzo Bianchi, noi siamo immersi in una cultura nella quale è dominante la comunicazione virtuale.

Siamo sempre connessi, e dunque ci sentiamo sempre in relazione, anzi oberati da troppe relazioni al punto che non riusciamo a viverle adeguatamente e con il discernimento necessario.

 

Si, oggi dobbiamo essere consapevoli delle difficoltà che abbiamo nei confronti della prossimità, del farci prossimi e del renderci vicini gli uni gli altri.

 

Nella parabola del Buon Samaritano raccontata da Gesù (cfr. Lc 10, 30-35) – continua Enzo Bianchi -   il non fare la carità da parte del sacerdote e del levita è dovuto non ad una particolare cattiveria, non all’appartenenza a una casta, bensì al fatto che non si sono resi prossimi dell’uomo bisognoso, vittima dei briganti.

Se si fossero fermati, si fossero fatti vicini a lui, se l’avessero guardato negli occhi, “volto contro volto”, anche loro avrebbero sentito compassione e gli avrebbero usato misericordia.

 

Noi oggi come Chiesa facciamo la carità più che in altre epoche, ne possiamo essere certi, ma siamo sicuri di vivere la carità evangelica che non è solo donare e condividere i beni, ma è innanzi tutto incontrare, ascoltare, per poter accendere una relazione nella quale poi operare, secondo i bisogni di chi incontriamo?.

 

La prossimità è essenziale all’evangelizzazione e quindi alla diaconia della carità.

 

  1. Passare dal protagonismo al servizio

 

La seconda via mi sembra quella di dover passare dal protagonismo al servizio.

 

Oggi siamo chiamati a preoccuparci non più del ruolo, del potere, dell’incidenza, ma dell’autenticità e della testimonianza.

La crisi della Vita Consacrata si può vedere come una chiamata a essere “piccolo gregge”, serva impotente dell’Umanità, umile testimone del Regno di Dio.

Una Vita consacrata con una presenza modesta e umile, interculturale nei suoi membri, aperta alla collaborazione intercongregazionale e con i laici.

 

Sappiamo che l’evoluzione delle opere ha creato e crea tensioni e sofferenze. E’ inevitabile perché non ci sono soluzioni immediate evidenti….occorre un processo e questo non è sempre facile.

La nostra relazione con le opere  ci provoca e qualche volta anche ci scoraggia. Però ci siamo, siamo lì pronti e desiderosi per  affrontare il cambio.

E in questa ottica serve più di sempre il dialogo e urge lo scambio di esperienze positive.

 

  1. Essere profondamente inseriti nella Chiesa locale.

 

La terza via è quella di essere profondamente inseriti nella Chiesa locale.

 

Ma in che modo?

Sentendoci sempre di più Chiesa, vivendo non solo con ma dentro la Chiesa, testimoniando la propria appartenenza ad essa e in particolare alla famiglia diocesana, attraverso una corresponsabilità e complementarietà dei carismi e dei servizi.

 

Nella sequela radicale di Gesù alla quale siamo chiamai, è indispensabile chiederci costantemente: quale Gesù stiamo seguendo? Quale volto di Gesù stiamo manifestando con la nostra vita e nel modo di esercitare la nostra missione?

Che volto di Dio soggiace alle nostre Strutture e opere apostoliche?

 

  1. Acquisire un’alta “significatività” territoriale.

 

E per ultimo, come acquisire un’alta “significatività” territoriale?

Ogni comunità di Consacrati vive ed opera in uno specifico territorio.  E poiché è inserita in un determinato territorio, essa è chiamata:

 

  • a radicarsi nel contesto sociale in cui vive.

 

  • ad approfondire la conoscenza dei problemi, delle attese, delle domande, dei bisognoi della gente, che vive nel territorio.

 

  • a rendersi capace e disponibile per porsi a servizio per animare, motivare, sostenere le scelte di volontariato dei Laici .

 

 

  • ad offrire una triplice diaconia

           

  1. La diaconia della fede

            (attraverso la testimonianza di una vita evangelica)

 

  1. La diaconia della carità

            (espressa nei servizi che facciamo)

 

  1. La diaconia della speranza

            (fondata sulla presenza amorevole di Dio).

 

CONCLUSIONE

 

Concludendo possiamo quindi dire che le prospettive di furo quindi per le nostre opere non mancano, però non hanno ancora la forza necessaria per far emergere il nuovo paradigma.

 

Ogni volta che la società e la Chiesa si sono bloccate davanti alle nuove correnti socio-culturali, sono sorte nuove forme di Vita Consacrata e questo hanno aiutato a rivitalizzare le esistenti.

Speriamo che succeda così anche oggi!

 

 

Una parabola  di suor Joan Chittister ci invita a camminare in questa direzione:

 

Un pellegrino  percorreva il suo cammino, quando incontrò un uomo che sembrava un monaco e che era seduto nel campo.  Vicino a lui un altro gruppo di uomini lavoravano presso un edificio di pietra.

 

- Sembri un monaco – disse il pellegrino.

- Lo sono,  rispose il monaco.

- Chi sono questi che stanno lavorando nell’Abbazia?

- I Monaci, rispose. Io sono l’Abate.

- E’ magnifico vedere costruire un Monastero, disse il pellegrino.

- Lo stiamo distruggendo, disse l’Abate.

- Distruggendolo?  Esclamò il pellegrino.  E perché?

- Per poter vedere il sorgere del sole ogni mattina.

 

La differenza con questo racconto è che non siamo solo noi a distruggere l’edificio delle nostre Opere tradizionali.

 

Le stanno distruggendo eventi socio-culturali sia locali che mondiali.

Ma questa realtà è e può diventare il nostro kairos per poter vedere nascere una vita religiosa rinnovata, più felice, più feconda, più fedele, generatrice di vita abbondante.

 

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