«Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza». Storia di una formula e problemi di interpretazione

Pubblicato in Missione Oggi

Da qualche tempo, questo tema è tornato di attualità. Senza riferirci agli studi storici di inizio secolo od al lavoro di A. Capéran (1934), basta pensare alle accurate ricostruzioni storiche di J.P. Theisen (1976), di W. Kern (1979), di F.A Sullivan (1992) e, più recentemente, di G. Canobbio (1994), di J. Dupuis (1997), di S. Sesboüé, (2004) e di S. Mazzolini (2008) per rendersene conto. Perché questa abbondanza? Probabilmente si può indicare la svolta conciliare come criterio di ispirazione ma tutti questi lavori sono postconciliari e tutti sono una ricostruzione della storia del problema; io credo che la ragione stia nella profonda modificazione del dibattito cristologico ed ecclesiologico che la missiologia sta conducendo: la possibilità di mediazioni partecipate alla unicità ed universalità salvifica di Cristo (Gaudium et Spes 22; Redemptoris Missio 5) e l’amplificazione della ecclesiologia al di là dei suoi confini visibili (Lumen Gentium 2; Redemptoris Missio 20) trascinano con sé un necessario ripensamento di tesi altrimenti tradizionali. In un simile contesto la ricerca sull’Extra Ecclesiam diventa una ricerca a tutto campo che, nella patristica e più in genere nella storia, ricerca indicazioni e spazi per un ripensamento della cristologia e della ecclesiologia.

 Il testo che qui recensiamo è la traduzione dell’originale francese del 2004; nella sua introduzione (pp. 5-15), Sesboüé ricorda come la sua ricerca, senza fornire una teologia delle religioni, abbia però due motivi di interesse che investono quella tematica. Il primo è l’ampliamento salvifico che la teologia attuale – soprattutto con K. Rahner e quanti lo seguono – va proponendo: la necessità di una ripresa della relazione Cristo-salvezza comporta che «tutta l’ecclesiologia e tutta la soteriologia sono in discussione» (p. 8) al punto che Sesboüé, cedendo ad una certa retorica espressiva, parla di “scommessa per la fede”. Il secondo riguarda “l’infallibilità del magistero della Chiesa”. Giustamente Ratzinger (1971) coglieva il senso degli interventi magisteriali espressi nell’effato teologico nella “pretesa universale” che la Chiesa esigeva per sé di fronte al mondo delle religioni; questa lettura però autorizza una distinzione tra l’ecclesialità di fondo della affermazione e la sua formulazione storica ed apre il dibattito su come questa eventuale differenza si mantenga nella linea di una coscienza di fede che chiede di interpretare i documenti del magistero eodem sensu eademque sententia. Queste due indicazioni di Sesboüé lasciano comprendere come i problemi che queste due prospettive trascinano con sé siano numerosi e complessi: l’unicità e l’universalità salvifica di Cristo come si sono espresse prima di Cristo e quale ruolo salvifico riconoscono alle religioni? quale valore riconoscono alle altre tradizioni cristiane? per quanto poi riguarda l’ermeneutica magisteriale, quale livello di autorità coinvolge la storia di questo assioma? si può riconoscere una discontinuità e perfino una contraddizione nella sua storia? ed, alla fin fine, cosa significa affermare una salvezza nella Chiesa?

 Su questo sfondo il lavoro di p. Sesboüé si distende in due parti. La prima (pp. 17-235) svolge in otto capitoli la storia dell’Extra Ecclesiam dall’epoca patristica agli interventi magisteriali, dall’epoca moderna al Vaticano I; una menzione particolare meritano gli ultimi tre capitoli dedicati rispettivamente alla teologia del XX secolo, al Vaticano II e – l’ottavo – alle altre confessioni cristiane e religioni non cristiane. La seconda parte (pp. 237-321) affronta in tre capitoli i nodi fondamentali della questione e cioè l’unicità salvifica di Cristo, la continuità o rottura nello sviluppo di questa tradizione e l’ermeneutica delle tesi magisteriali. Una conclusione, una nota su una questione di interpretazione magisteriale ed una breve bibliografia concludono il lavoro. Qui vorrei riprendere gli ultimi tre capitoli sia a motivo della loro importanza sia perché permettono uno sguardo su tutto l’insieme della ricerca.

Il capitolo nono (pp. 241-261) ha come titolo Dal dibattito sulla Chiesa all’unicità di Cristo ma, in realtà, si ferma soprattutto sulla cristologia. Il capitolo è una nitida trattazione dei dibattiti sulla unicità ed universalità della mediazione salvifica di Cristo; in pratica riguarda il dibattito tra inclusivismo e pluralismo. Sesboüé ribadisce i punti che ritiene ormai assodati: la rinuncia ad una visione e ad un linguaggio esclusivista, il nesso profondo tra unicità ed universalità da intendere nel senso che l’affermazione della unicità dipende e si motiva sulla base della universalità dell’opera salvifica di Gesù che, a sua volta, si lega all’incarnazione ed alla manifestazione di Dio nella figura di Gesù. Qui iniziano però i punti discussi: la particolarità storico-salvifica di Gesù come obiezione alla sua universalità, la relazione tra il Verbo ásarkos ed il Verbo énsarkos, la relazione tra la Via e le vie di salvezza, il dialogo interreligioso tra pretesa della Chiesa di Gesù e rispetto-dialogo con le altre religioni ed una ipotesi sintetica sulla figura di Gesù. Condivido la gran parte delle indicazioni presentate in questo capitolo ma, a proposito del’Unica Via o di altre vie (pp. 256-258), mi sarei aspettato un richiamo al testo di Redemptoris Missio 5 – ripreso in Dominus Iesus 14 – sulla possibilità di mediazioni partecipate, da non intendere come parallele od indipendenti. Questa “ipotesi” è adombrata nel capitolo sul Vaticano II, dove si richiamano i testi di Gaudium et Spes 22 e di Ad Gentes 3. 7 ma la presenza del termine “vie” in Ad Gentes 7 è – a mio parere – limitata dal fatto che il termine manca in Gaudium et Spes 22, per altro molto più positivo del testo precedente, ed è interpretata in una linea di praeparatio in Ad Gentes 3. L’ipotesi di mediazioni partecipate – con l’invito magisteriale ad approfondirla – aprirebbe prospettive diverse al dialogo interreligioso.

Allo stesso modo, mi sarei aspettato che, nello sviluppo della solidarietà tra Cristo e la Chiesa (pp. 254-256), si facesse un cenno alla udienza generale del 31 maggio 1995 nella quale Giovanni Paolo II ha trasformato l’affermazione tradizionale nell’altra: sine Ecclesia nulla salus. Si tratta di una affermazione che il Pontefice spiega richiamando quella arcana necessitudo cum Ecclesia che la salus Christi possiede e che mantiene anche verso coloro che non conoscono o non accettano la Chiesa (Redemptoris Missio 10); l’azione salvifica di Dio all’opera nella storia – commenta il papa nella ricordata udienza – comporta una risposta, una adesione alla azione divina che, storicamente, non può configurarsi che come implicitamente comprensiva di una relazione con quella Chiesa che la serve. Qui si aprono questioni ecclesiologiche che Sesboüé accenna appena con un semplice richiamo della Ecclesia ab Abel ma che andrebbero riprese e sviluppate a fondo in una rinnovata visione ecclesiologica che si ispiri al testo di Redemptoris Missio 25: «è lo Spirito che spinge ad andare sempre oltre, non solo in senso geografico, ma anche al di là delle barriere etniche e religiose, per una missione veramente universale».

Devo infine osservare che nemmeno l’indicazione sulla umanità di Gesù come “umanità di eccellenza” (pp. 260-261) mi convince del tutto. Non ho dubbi sulla importanza della umanità di Gesù e sul significato che questa ha svolto al tempo della sua vita terrena, nel cammino della spiritualità ecclesiale e, soprattutto oggi, nell’ambito del dialogo interreligioso; mi resta tuttavia qualche dubbio che questa “eccellenza antropologica”, più che al Gesù perfectum in humanitatehominem vere, eundem ex anima rationali et corporeconsubstantialem nobis di Calcedonia, faccia riferimento a quell’umanesimo rinascimentale che spingeva un Pico della Mirandola – nella sua “Oratio” De Hominis Dignitate – a sostenere che la persona umana, creata senza sedesfaciesmunus e quindi indeterminata, fosse voluto così perché con la sua libertà diventasse plastes et fictor di se stessa. Quando si parla della sua “eccellenza umana”, Gesù rischia di trasformarsi in un modello più che in un Salvatore; questo non è certo un danno ma non credo che esprima la globalità della tradizione. Il mio disagio non è né una condanna né una certezza di verità ma andava manifestato.

Più semplice è il capitolo 10 su Continuità e rotture (pp. 262-277). Sesboüé riconosce che, dal punto di vista dell’unica mediazione di Cristo, la storia presenta «elementi di divergenza o di contraddizione» che chiedono onesta intellettuale per essere ripresentati «con la maggiore esattezza possibile»; da parte sua, l’autore appella ad una Chiesa incarnata nella storia e prospetta una lettura diacronica e sincronica della formula che «è stata capace di correggersi da sé». Da parte sua ritiene che «la capacità di correggersi esprima un aspetto essenziale della verità alla quale e la Chiesa e il suo magistero sono tenuti». In questo modo Sesboüé offre una valutazione che, sullo sfondo della indefettibilità della Chiesa, accetta un processo di sviluppo del dogma. Sono d’accordo con lui su questo giudizio che mi pare sereno ed obiettivo.

Resta da esaminare alcuni punti di una storia indubbiamente problematica, trattati dall’autore nella prima parte del suo lavoro; mi riferisco alla trasformazione di significato che l’effato riceve nell’epoca patristica, alla interpretazione del concilio di Firenze ed al modo con cui si legge la “svolta” del Vaticano II. Non si possono che approvare le conclusioni (pp. 61-65) che Sesboüé traccia al termine della analisi patristica: il cambio di ruolo sociale che la religione cristiana affronta in un impero diventato cristiano e la tesi agostiniana della predestinazione finiscono per incidere sulla relazione «tra l’universale destinazione alla salvezza e le esigenze che quest’ultima comporta». Bisogna però osservare che il punto non è un semplice cambio di significato dell’effato ma una profonda modificazione della ecclesiologia. La perdita di una visione ecclesiologica che veda la Chiesa raccogliere tutti i giusti, a cominciare da Abele, e l’abbandono delle diverse maniere di appartenenza ecclesiale sono indicazioni di una profonda trasformazione ecclesiologica che, unita all’irrigidimento anti-donatista, finirà per dare rivestimento teologico alla «forte accentuazione del diritto ineliminabile della chiesa visibile» (J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971).

Quanto al concilio di Firenze (pp.73-88), Sesboüé si dedica ad una previa, preziosa ricostruzione del valore dei concili e del contenuto della infallibilità; la sua conclusione è che l’eventuale irreformabilità di una dichiarazione non può essere affermata sulla base della «semplice formalità canonica del testo». Il nostro autore ritiene che la formula vada letta reintroducendo nel testo conciliare la considerazione della responsabilità e della colpa, in qualche modo comprese nel rifiuto della fede; ribadendo poi il valore di una formula che esprime la convinzione che la Chiesa gioca un ruolo nell’opera salvifica di Cristo, conclude che «il fuori di lei [la Chiesa] deve essere compreso nel senso di un senza di lei, inteso come un totalmente senza di lei» (p. 88).

L’ultimo punto riguarda la svolta del concilio Vaticano II. Dico subito che l’analisi della svolta del concilio su questo tema è accurata e completa (pp. 177-205); naturalmente si possono indicare ulteriori spunti nella discussione seguente sia a proposito della ricezione del concilio sia riguardo alla interpretazione del subsistit in sia a proposito di Nostra Aetate 2. Forse è questo l’unico limite di queste indicazioni; il capitolo sul Vaticano II rimane ancorato ai testi del concilio, come è legittimo fare, ma il capitolo 10 su Continuità e rotture non riprende la tematica dal punto di vista di un dibattito continuato anche dopo, soprattutto dopo, fino ad assumere significati sconosciuti al Concilio. Mi sia solo permesso richiamare, in ordine alla ermeneutica del dettato conciliare, l’ormai famoso discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia romana nel quale Benedetto XVI fissava i criteri di una corretta interpretazione del concilio: oltre che una precisa ipotesi di lavoro, offre anche un’ottima sintesi delle diverse posizioni sulla problematica della ricezione del Vaticano II.

Infine l’ultimo capitolo – l’undicesimo – ha come titolo La dialettica della verità: riflessioni di ermeneutica magisteriale (pp. 278-321). Per quanto sia probabilmente il capitolo più lungo di tutto il testo, si tratta di una problematica non riguardante esclusivamente il nostro problema ma, più in genere, l’ermeneutica magisteriale. In un periodo in cui il magistero ha indubbiamente moltiplicato i suoi interventi, ponendo così sia la questione della loro interpretazione sia la necessità di riconoscere il grado di autorità che li qualifica, Sesboüé inquadra il problema parlando di una “dialettica della verità” che rimanda al nodo di una fede che deve rimanere se stessa anche in mutate condizioni sociali e culturali. L’intero capitolo è dedicato alla ricerca di criteri che ricava sia dalla esegesi biblica, sulla base di una analogia tra le Scritture ispirate e il magistero assistito dallo Spirito, sia dai diversi interventi del magistero.

Poiché tanto l’autore quanto il recensore si riconoscono in una citazione di Y. Congar (p. 312) vale la pena di richiamarla per esteso: quando si deve costatare la presenza di affermazioni magisteriali tra loro diverse «il mio atteggiamento responsabile di fedele e di teologo – scrive Congar – è il seguente: rispettare e onorare il principio valido che ha ispirato gli enunciati passati, ma riconoscere e spiegare la storicità e dunque la relatività della forma che ha ricevuto questo principio, facendo eventualmente la storia della sua evoluzione ed onorando diversamente ciò che vi è di sempre valido nel principio». Questo punto mi sembra decisivo e sufficiente; le otto indicazioni dottrinali ed i dodici criteri metodologici (pp. 315-321) lasciano l’impressione che quest’ultimo studio sia nato altrove e solo poi collocato come conclusione al presente lavoro.

Chi mi ha pazientemente seguito fino a questo punto può facilmente immaginare la mia conclusione. Il lavoro di p. Sesboüé è un lavoro notevole sotto molti aspetti: documentato, chiaro, è ricco di stimoli sia per una valutazione della tematica sia per uno sguardo ai problemi che da questa tematica possono scaturire. La parte moderna della documentazione storica ed i tre capitoli della parte conclusiva lo raccomandano sia allo studio sia all’aggiornamento sia all’approfondimento di questo tema.

 

Ultima modifica il Domenica, 02 Agosto 2015 13:12
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