MISSIONE DELLA CHIESA E VITA CONSACRATA

Pubblicato in Missione Oggi

+ Nunzio Galantino

     Vescovo di Cassano all’Jonio

    Segretario Generale della CEI

Cari Padri,

carissimi amici,

vi saluto con sincera stima e cordiale gratitudine, mentre attraverso di voi vorrei raggiungere ciascuno degli oltre 18mila religiosi che offrono il loro servizio e la loro testimonianza nella nostra Chiesa e nel nostro Paese.

È passato ormai un anno da quando Papa Francesco incontrava i Superiori Generali degli Istituti religiosi maschili a conclusione della loro 82ª Assemblea generale; è passato un anno, ma l’eco di quel colloquio – peraltro mai pubblicato nella sua versione ufficiale – è rimasto ancora vivo nella memoria del cuore, con quell’appello inequivocabile: “Religiosi, svegliate il mondo!”.

Vorrei, pertanto, muovere da quel confronto, nella convinzione che già contiene gli elementi di risposta al tema che mi è stato affidato in occasione di questa vostra Assemblea generale, «Missione della Chiesa e vita consacrata. Una lettura della Evangelii Gaudium».

In quella circostanza il Papa riprendeva un’espressione di Benedetto XVI, secondo la quale la Chiesa cresce non per proselitismo, ma per testimonianza – o, come dirà nell’Evangelii Gaudium, “per attrazione” (n. 14) –: questo per sottolineare che ciò che veramente conquista e fa pensare è una vita controcorrente rispetto agli schemi abituali di un orizzonte mondano: quindi, una vita fraterna e docile, vissuta all’insegna del generoso distacco da sé, di una povertà effettiva e abbracciata con letizia, del servizio assunto come stile, nell’accoglienza misericordiosa e animata dalla disponibilità non solo a dare, ma anche a ricevere, ad imparare dall’altro, anche da chi non crede, da chi è lontano, povero o in difficoltà.

A questa diversità il Papa esorta a più riprese: “Siate testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere! È possibile vivere diversamente in questo mondo. Stiamo parlando di uno sguardo escatologico, dei valori del Regno incarnati qui, su questa terra. I religiosi devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo!”. E, a scanso di equivoci, spiegava di non riferirsi ai perfetti, ma a uomini e donne consapevoli della loro povertà e debolezza, dei loro dubbi e dei loro momenti di oscurità. Si riferiva a ciascuno di voi…           E vi auguro davvero che questa attesa – di cui Francesco si fa interprete – possiate sentirvela bruciare sulla pelle! Viviamo una lunga stagione nella quale il Paese è attraversato da una crisi economica e occupazionale che mette a dura prova famiglie ed aziende, ma nella quale noi non rinunciamo a riconoscervi le conseguenze di una crisi morale, culturale e istituzionale. Perché non è solo la crisi finanziaria a preoccupare e a ferire, ma la crisi di umanità che attraversa questo tempo. Dove trovare, dunque, un contributo di ampio respiro, che sia risorsa preziosa per tutti, se non cercandolo proprio fra quanti hanno abbracciato una vita evangelica nella dedizione gratuita ed incondizionata al bene della persona e della comunità degli uomini?

Sì, voi siete un segno prezioso, ben al di là delle mura dei vostri conventi…

 

Tre tentazioni e tre “parole” per uscirne

In realtà, dobbiamo riconoscere senza troppi giri di parole che questa crisi non risparmia nemmeno la nostra Chiesa; possiamo sentirle rivolte a noi le dure parole dell’Apocalisse: “Ho da rimproverarti che hai perso l’amore di un tempo…”. Anche nelle nostre comunità spesso langue la fiducia nella forza dello Spirito, della Parola e dei sacramenti. Come Sara, la moglie di Abramo, si è piuttosto disillusi circa la possibilità di poter generare nuova vita. Proprio questa sfiducia è la prima cosa da vincere.

Per farlo, è necessario superare – quasi “buttando il cuore oltre l’ostacolo” – alcune precise tentazioni, a cui il Papa ha dato un nome nel discorso con cui un paio di settimane fa ha concluso l’Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi sulla famiglia. In quella circostanza, Francesco ci ha ricordato che a frenare il cammino è innanzitutto “la tentazione dell’irrigidimento ostile”, quello che prende quanti si chiudono nella lettera e non ne colgono più lo spirito: si può essere, allora, anche zelanti e scrupolosi, ma ci si condanna a non lasciarsi sorprendere da Dio, dal Dio di Gesù di Nazaret…

Una seconda tentazione, diceva ancora il Santo Padre, è quella del “buonismo distruttivo”: credo che non fatichiamo a vedervi quella che, in realtà, è una caricatura della bontà, che spinge a “trattare i sintomi e non le cause e le radici”; è un travisamento della misericordia, ridotta a fasciare ferite senza preoccuparsi di disinfettarle e di curarle davvero…

Ancora, il Papa metteva in guardia dal pericolo di considerarsi padroni e non custodi del depositum fidei, denunciando “la tentazione di trascurare la realtà con l’utilizzo di una lingua minuziosa e di un linguaggio di levigatura per dire tante cose e non dire niente! Li chiamavano bizantinismi, queste cose…”.

Per vincere queste tentazioni, che si manifestano anche nelle diverse forme che degradano la vita religiosa confinandola nella meschinità e rendendola semplicemente infruttuosa, la via indicata dal Vangelo è riassunta in una parola, per la precisione in un verbo, che abbiamo imparato a riconoscere come uno dei capisaldi dell’insegnamento di Papa Francesco: uscire.

Si tratta di uscire per abbracciare la prospettiva della periferia: “I grandi cambiamenti della storia – diceva lo scorso anno – si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia”. E spiegava che si tratta di una “questione ermeneutica”, per cui “si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto”. Per capire davvero, ci insegna Francesco, dobbiamo uscire e “spostarci dalla posizione di calma e di tranquillità e dirigerci verso la zona periferica: stare in periferia aiuta a vedere e capire meglio, a fare un’analisi più corretta della realtà, rifuggendo dal centralismo e da approcci ideologici”.

Nell’Evangelii gaudium dirà queste stesse cose ricorrendo a un’immagine geometrica a lui particolarmente cara: “Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità” (n. 236).

***

A questo punto, per schematizzare potremmo dire che il nostro uscire rimanda a scelte precise.

Innanzitutto, un decentrarsi che comporta di saper prendere le distanze sia dalle proprie idee – quante volte indebitamente assolutizzate! – sia dalle stesse opere. In realtà, c’è stato un tempo nel quale l’identità della vita religiosa era data dalle opere che promuoveva; ora queste opere spesso apportano poco o, comunque, l’identità religiosa fatica a dare ragione di se stessa semplicemente a partire da quello che si fa… Dire questo non significa misconoscere la ricchezza di tante opere portate avanti nelle nostre famiglie religiose con sacrifici inenarrabili, quali risposte a bisogni effettivi in determinati momenti e condizioni storiche; comporta, piuttosto, la convinzione che in determinati casi anche giungere a lasciarle –  a uscirne, appunto – può esprimere un cambiamento alla luce di ciò che questo tempo chiede. Non si tratta, dunque, di relativizzarsi, quanto di capire che proprio la fedeltà al carisma può richiedere questo coraggio, ben sapendo che non viviamo per noi stessi, ma per il Regno: se i nostri carismi non conservassero tale destinazione, resteremmo dei farisei del XXI secolo... Per esemplificare, va in questa direzione anche l’aiuto che siete chiamati a offrire alle nostre Chiese locali perché riconoscano e promuovano la ricchezza di cui siete portatori, e non si limitino a usarvi come aiuto di supporto.

Il necessario discernimento potremmo tradurlo, a nostra volta, con un verbo che è tutt’altro che passivo: ascoltare. Non a caso, aprendo la veglia di preghiera promossa dalla Cei lo scorso 4 ottobre in preparazione del Sinodo, il Papa invitava a chiedere proprio il dono dell’ascolto: “Ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido del popolo; ascolto del popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama”.

***

Una seconda scelta per vivere questa dimensione di Chiesa in uscita è la disponibilità a vincere la paura rispetto a ciò che è altro da noi, specie quando la diversità si configura come complessità e problematicità. A tale proposito, Francesco richiamava la necessità di combattere il “fantasma” di una vita religiosa intesa come rifugio e consolazione. Del resto, siamo testimoni di quanto non regga più l’idea del religioso come di una sorta di artigiano che lavora in proprio, collocato in una dimensione “altra”, “speciale”, un “di più”, che dice separazione… L’intimismo, alla fine, si sposa con l’individualismo, malattie che – mentre chiudono – colpiscono tante relazioni: si finisce per stare bene soltanto con i propri sodali, magari ergendosi pure giudici degli altri, della Chiesa e del mondo; abili nel denunciare ciò che non funziona negli altri come nello stroncarli con pettegolezzi e giudizi, trovando mille motivi per tenersi alla larga dalle loro ferite e dai loro problemi, per non lasciarsi coinvolgere, per non doversene sentire partecipi e responsabili. Si diventa narcisisti, povera gente che cammina su una china pericolosa, con il rischio di condannarsi da sola ad essere sempre meno significativa.

Se volessimo usare un’altra parola per dire la sollecitudine a guardare in faccia la realtà e a lasciarci anche plasmare da essa, potremmo parlare di confronto: non a caso, è il secondo dono che Papa Francesco invocava dallo Spirito Santo per i padri sinodali: un “confronto sincero, aperto e fraterno – diceva – che ci porti a farci carico con responsabilità pastorale degli interrogativi che questo cambiamento d’epoca porta con sé”; un confronto, ancora, che domanda di lasciarsi trovare e anche di saper andare a cercare…

***

Infine, accanto al decentrarsi e al coinvolgersi, uscire significa anche rifarsi lo sguardo o, meglio, assumere lo sguardo di Cristo: se assumeremo il suo modo di pensare, di vivere e di relazionarsi – ci ricordava il Papa in quella sera d’inizio ottobre – non faticheremo a individuare nuove indicazioni e nuovi percorsi per la nostra pastorale e per la nostra stessa presenza. Perché “ogni volta che torniamo alla fonte dell’esperienza cristiana, si aprono strade nuove e possibilità impensabili”.

Come religiosi, del resto, vorrei dire che questo sguardo vi appartiene, vi caratterizza fino in fondo, vi rende testimoni – con la vostra vita casta, obbediente e povera – di come Dio solo sia il Signore dell’uomo e non ve ne sia altro! Riconoscerlo significa non soltanto “aprirsi alla Sua volontà e dedicare a Lui la nostra vita, cooperando al suo Regno di misericordia, di amore e di pace”; significa anche trovare “il fermento che fa lievitare e il sale che dà sapore a ogni sforzo umano contro il pessimismo prevalente che ci propone il mondo”; significa, in definitiva, “restituire operosamente a Dio quello che Gli appartiene”  (Francesco, Omelia per la beatificazione del Servo di Dio Papa Paolo VI, 19 ottobre 2014).

 

Tre condizioni per una rifondazione

Tre, a mio avviso, possono essere pure le condizioni affinché tutto questo passi dal piano delle buone intenzioni a quello della realtà.

La prima è una vita comunitaria, una vita di relazioni fraterne. In un contesto frammentato e spesso incapace di alimentare rapporti duraturi, la fraternità oggi ha una forza di attrazione enorme: sicuramente costa, tante volte sarà pure lacerante – perché non parliamo di rapporti tra angeli – ma nella vita religiosa è conditio sine qua non di fecondità. Ci si realizza solo insieme: dovremmo ricordarcelo ogni volta che la difficoltà di misurare il nostro passo su quello del fratello o della comunità ci spinge a chiuderci nell’efficienza del lavoro, fosse pure quello dell’apostolato… o a rassegnarsi alla contrapposizione: “Di fronte al conflitto – scandisce puntualmente Papa Francesco – alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (EG 227). Allora, l’altro diventa parte dell’identità di ciascuno, in una vita di comunione che non minaccia l’alterità, ma la genera…

***

Una seconda condizione – già ne ho accennato – rimanda alla necessità di essere autenticamente radicati in un determinato carisma, alla cui appartenenza in ultima analisi ci si trova legati non da argomentazioni, quanto piuttosto da esperienze concrete, che coinvolgono con il metodo evangelico del “Vieni e vedi…”.

La vita religiosa si trova oggi a vivere un tempo di svolta, di riposizionamento, addirittura di rifondazione: ormai non si tratta più di adattarsi né semplicemente di aggiornarsi; occorre arrivare a cambiare gli stessi paradigmi della vita religiosa, se si vuole innescare un autentico processo di cambiamento. Non liberarsi dalle storicizzazioni che condizionano la fedeltà all’oggi sarebbe come arrivare in ritardo all’appuntamento con la storia e quindi rischiare di non esserci, di non venire riconosciuti come presenti, di sparire. C’è bisogno non tanto di aggiustamenti di maniera, ma di forme nuove, creative, capaci di inventare il futuro della Chiesa in un contesto marcato dall’indifferenza e dalla secolarizzazione.  Il nostro tempo ha spogliato le istituzioni religiose della stima quasi sacrale che le rivestiva: i giovani oggi spesso ne colgono soltanto la “stranezza”. Nella fedeltà alle radici, la nostra preoccupazione non può che essere una sola: essere un segno visibile e una sollecitazione rivolta a tutti a vivere secondo il Vangelo. A questa condizione sarà possibile ritrovare un ruolo fondamentale e costitutivo all’interno del popolo di Dio, nell’attenzione agli interrogativi che gli uomini nostri contemporanei si portano dentro e che si manifesta in un bisogno di spiritualità, intesa come vita nello Spirito: la vostra presenza possa far compagnia a tali domande con un’offerta di spiritualità fruibile, capace di generare stili di vita e non soltanto devozioni… Con il carisma che vi è proprio sappiate, inoltre, riconoscere e misurarvi sulle frontiere che oggi più urgentemente interpellano la missione: il mondo della cultura e dell’educazione, come il non facile mondo dell’esclusione.

***

Con questo abbiamo introdotto anche la terza e ultima condizione sulla quale brevemente mi soffermo e che rimanda alla necessità di essere profondamente immersi nella realtà, facendone esperienza: non per nulla il Papa a più riprese ci fa capire quanto sia importante il contatto reale con i poveri, conoscerne il vissuto e farne proprio lo sguardo sulle cose, fino ad accettare anche di imparare da loro. È in questo modo che, con Teilhard de Chardin, possiamo affermare che la scelta religiosa non è un distaccarsi dalla vita, ma un inserirvisi più profondamente, fino a frequentare in maniera appassionata le frontiere esistenziali del nostro tempo. Quanto bisogno c’è di proporre una santità che non sia relegata tra gli incensi del tempio e che non sia spogliata della sua carica originaria, ma fatta di trascendenza e di esistenza quotidiana, indissolubilmente intrecciate tra loro: allora, è laboratorio di nuova umanità, capace di dar vita a strutture mentali, spirituali, affettive – e pure organizzative – semplici e accoglienti, poco pesanti e aperte, in cui non sia assente la gioia della comunione, perché una fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne… L’alternativa è la sterilità, a cui siamo condannati quando il patrimonio della vita religiosa si blocca su un modello di società che non c’è più e su un modello di comportamenti che non esprimono più un valore avvertito come tale.

 

Conclusione

Come sapete, alla fine dell’incontro con i Superiori generali il Papa Francesco ha annunciato che l’anno 2015 sarà dedicato alla Vita Consacrata: sono certo che sarà un tempo di grazia non solo per la vita consacrata, ma per tutta la Chiesa nel contesto dei 50 anni del Concilio Vaticano II, e più in particolare nella ricorrenza dei 50 anni dalla pubblicazione del Decreto conciliare Perfectae caritatis sul rinnovamento della vita consacrata. Pur nella consapevolezza di quanto il momento presente sia “delicato e faticoso”, possiate dunque “abbracciare il futuro con speranza”.

Vi affido due icone evangeliche che obbligano a confrontarsi con il diverso, fino ad assumerne le fattezze: possono ben descrivere il rapporto tra missione e vita consacrata. Eccole: rimandano alla Samaritana al pozzo e al Samaritano che si è chinato sull’uomo incappato nei briganti.

Nella Samaritana possiate vedervi rappresentati come coloro che, inizialmente, cercano la vita nelle tradizioni degli antenati, i quali cercano di dare risposta alla sete attingendo ai propri pozzi. Ma, come lei, possiate giungere ad essere discepoli che capiscono che il luogo sacro dell’incontro con Dio è dentro di sé e che parlano di Gesù non perché altri vi hanno parlato di Lui, ma perché personalmente l’avete incontrato, ve ne siete innamorati e ora lo annunciate non per convincere, ma per condividere una gioia profonda.

Nella figura Samaritano possiate riconoscere l’invito di Gesù a non concentrarsi su se stessi o sulla propria perfezione, ma a decentrarsi sul rapporto con gli altri. Le vite del sacerdote e del levita che passano oltre il ferito, ignorandolo, sono sterili; si esprimono in una lingua che non parla più, vittime di costumi morti e freddi, mercanti di un parlare vuoto, professionisti atei del discorso su Dio. Il Samaritano, invece, vi si propone come un viaggiatore che sa fermarsi e chinarsi e inventare gesti di sovrumana tenerezza.

Siate religiosi che non restano lontani dal rumore della vita, dalle lacrime e speranze di coloro che vivono e muoiono nelle periferie del mondo: la sacralità della vostra vocazione è riposta nella capacità di creare “reti samaritane” di comunicazione con tutti, fino a svegliare le coscienze dell’umanità.

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:35

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