DISCERNIMENTO ECCLESIALE E GIUDIZIO DI COMUNIONE: LO SPIRITO GUIDA LE COMUNITÀ IN NUOVI PERCORSI MISSIONARI

Pubblicato in Missione Oggi

+ Angelo Card. Scola, Arcivescovo di Milano

 

 

1. La sinodalità nella Chiesa*

 

Il carissimo Vescovo Roberto ha già voluto orientare questa Settimana della Chiesa mantovana ad un possibile Sinodo. Mi preme allora fare subito una precisazione.

Da dove cominciare una riflessione sulla “sinodalità come cammino attuale della Chiesa”?

Innanzitutto conviene ricordare il significato proprio della parola “sinodo”. Ce l’ha ricordato Benedetto XVI all’inizio dell’ultima Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione: «Synodos vuol dire “cammino comune”, “essere in cammino comune”, e così la parola synodos mi fa pensare al famoso cammino del Signore con i due discepoli di Emmaus»[1].

La Chiesa, cioè il popolo di Dio generato nella storia dal dono che la Trinità ha voluto fare di Sé agli uomini, si dà sempre e a tutti i suoi livelli come communio[2]. Il “soggetto Chiesa”, infatti, “avviene” secondo tutta la ricchezza della communio che è nello stesso tempo communio christifidelium, communio hierarchica e communio Ecclesiarum.

Questo riferimento alla communio, al “cammino comune”, ci permette immediatamente di riconoscere che quando parliamo di “sinodalità” non ci riferiamo, in prima battuta, a strumenti o ad organi di gestione, ma vogliamo riferirci al cammino (l’italiano cammino/strada corrisponde al greco metodo) che tutti insieme siamo chiamati a compiere.

In questo senso, la sinodalità è sempre attuale perché è il metodo permanente della Chiesa: non c’è momento storico in cui la Chiesa non sia un popolo in cammino, una comunione di pellegrini, storicamente situata, verso la patria celeste. Mi preme molto questa sottolineatura perché parlare di “sinodalità” significa, anzitutto, aiutare ogni fedele ad una crescita di consapevolezza circa la propria identità cristiana. Uno non è autenticamente cristiano, infatti, al di fuori di questo “cammino comune” che la Chiesa compie.

 

2. La precedenza di Dio

 

Qual è l’origine del popolo di Dio in cammino? La risposta, tanto limpida quanto esauriente, ce la offre ancora una volta Benedetto XVI nell’intervento già citato. Lo leggo per esteso: «Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio» – qui troviamo uno dei criteri fondamentali per comprendere la sinodalità ecclesiale: essa non nasce da un’iniziativa nostra, ma dall’iniziativa di Dio – Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito, gli Apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente quanto fa Lui. (…) così anche oggi solo Dio può cominciare, noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire da Dio – secondo elemento fondamentale: se l’iniziativa è sempre di Dio, la prima mossa del cammino sinodale non può che essere, il ricevere e il mettersi alla sua sequela – (…) Solo il precedere di Dio rende possibile il camminare nostro, il cooperare nostro, che è sempre un cooperare, non una nostra pura decisione. Perciò è importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire con Lui e in Lui evangelizzatori. Dio è l’inizio sempre, e sempre solo Lui può fare Pentecoste, può creare la Chiesa, può mostrare la realtà del suo essere con noi. Ma dall’altra parte, però, questo Dio, che è sempre l’inizio, vuole anche il coinvolgimento nostro, vuole coinvolgere la nostra attività, così che le attività sono teandriche, per così dire, fatte da Dio, ma con il coinvolgimento nostro e implicando il nostro essere, tutta la nostra attività»[3]: ecco qui il terzo aspetto, l’iniziativa di Dio e il nostro accogliere tale iniziativa maturano nel coinvolgimento di tutto il nostro essere.

Ma, per meglio comprendere come si può realizzare questo comune cammino sinodale, proviamo a considerare come lo stesso Gesù l’ha compiuto nella sua vita.

Una prima testimonianza evangelica del metodo seguito da Gesù con i primi la troviamo all’inizio del Vangelo di Giovanni. Il passo è ben conosciuto da tutti: «35 Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: "Ecco l'agnello di Dio!". 37 E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38 Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: "Che cosa cercate?". Gli risposero: "Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?". 39Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. 40Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia" – che si traduce Cristo – 42 e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa" – che significa Pietro» (Gv 1,35-42).

Val la pena soffermarci un momento su alcuni particolari sull’episodio narrato dall’evangelista. Senza trascurare il contesto complessivo (cfr. Gv 1,29-51) limitiamoci a quello specifico (cfr. Gv 1,35-39). Il Battista insieme ai suoi due discepoli sta battezzando, come è suo costume, il giorno dopo (il giorno dopo: è l’espressione che ricorre ben tre volte – cfr. Gv 1,29.35.43 – a radicare la sequenza dei fatti nella trama concreta del tempo storico) aver dato testimonianza pubblica che Gesù è l’Agnello di Dio. Vede passare Gesù e dice: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1,36). Sentendolo parlare così Andrea e Giovanni, probabilmente già incuriositi dagli avvenimenti precedenti, prendono a seguire Gesù. Immaginiamo la scena: Gesù si volta di colpo e alla sua improvvisa e bruciane domanda – «Che cercate?» (Gv 1,38) – Andrea e Giovanni rispondono con un’altra domanda, la stessa che a ben vedere abbiamo anche noi nel cuore: «Maestro, dove abiti?». «Venite e vedrete. Andarono, videro e stettero con Lui». Con precisione minuziosa l’evangelista annota l’ora: «Erano circa le quattro del pomeriggio». Si tratta di fatti.

In questo incontro dei primi con Gesù ha inizio una familiarità effettiva con Cristo. Essa è nata dalla concreta risposta all’invito di Gesù, dall’aver visto, dall’essere rimasti con Lui, dall’abitare con Lui. Come per Andrea e Giovanni anche per noi la familiarità con Cristo avviene nel tessuto quotidiano dei rapporti e delle circostanze che costituiscono la nostra esistenza.

Proprio all’interno di questo tessuto nasce e fiorisce l’amicizia cristiana che si esprime permanentemente come cammino comune.

Papa Francesco ha descritto questa dinamica dell’incontro con Cristo mostrando come la fede illumina il cammino della vita: «La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo» (Lumen fidei 4).

Come può essere quotidianamente alimentato questo cammino comune?

San Paolo, nella Lettera ai Romani, risponde chiarendo il rapporto con la realtà propria dell’uomo che ha incontrato Gesù: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere (compare qui una parola centrale del titolo di questa serata) la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2).

Il nuovo radicale “culto cristiano” – logiké latreia – è un culto totale ad un tempo «spirituale (ma sarebbe meglio tradurre “umanamente conveniente”), morale e mistico»[4]. Esprime la familiarità con Cristo vissuta dall’interno dei rapporti e delle circostanze che tramano la vita di ogni uomo. Non è un caso, infatti, che l’apostolo parli concretamente del dono totale di sé che si concentra nell’offerta dei corpi. Commenta in proposito Schlier: «Un sacrificio di me stesso (…) una vera e propria autodedizione corporea, perciò un’offerta dell’intera mia vita (…) Il corpo è l’uomo nella sua presenza corporea, comunicativa e nella sua realtà efficacemente disponente e disponibile»[5].

Da questo culto integrale, che non è riducibile al rito e neppure alla preghiera, emerge, come espressione di vita rinnovata, la giusta prospettiva del cammino comune dei cristiani. Possiamo, facendo riferimento al verbo che usa Paolo, chiamarlo “discernimento ecclesiale” e “giudizio di comunione”. Questi due elementi sono inseparabili. Fin da ora possiamo dire che il discernimento ecclesiale altro non è che l’esito del giudizio di comunione. È importante notare che questi due fattori implicano il non conformarsi alla mentalità di questo mondo, ma piuttosto il rinnovarsi della mente[6].

La preziosa indicazione paolina ci permette di scartare subito un’idea di “discernimento ecclesiale” e di “giudizio di comunione” che li identifichino con una operazione intellettuale compiuta dal singolo, magari con l’aiuto di un “esperto” in materia. Il discernimento e il giudizio, espressione del culto del cristiano, è invece una manifestazione dell’esperienza integrale cristiana che si dà solo come esperienza comunitaria, ecclesiale, sinodale appunto.

 

3. Il discernimento ecclesiale e giudizio di comunione come esperienza comunitaria

 

Anzitutto il discernimento ecclesiale e giudizio di comunione è sempre il frutto prezioso dell’esperienza ecclesiale.

Inoltre parlare di discernimento ecclesiale e giudizio di comunione come espressione di un’esperienza comunitaria implica l’interrogarsi circa il soggetto, il contenuto e il metodo del discernimento ecclesiale e del giudizio di comunione.

Prima di fare questo triplice passo occorre però una precisazione. Cosa si intende dire quando si mette in campo l’esperienza ecclesiale? Non è necessario proporre in questa sede un percorso analitico di ecclesiologia. Forse basta riflettere con attenzione sulla natura del gesto che stiamo compiendo qui ed ora.

Consideriamo il nostro essere qui riuniti oggi. Questo è possibile per il fatto che, senza soluzione di continuità, l’amicizia che Gesù Cristo ha annodato intorno a sé quel pomeriggio a partire da Andrea e Giovanni si è propagata, fisicamente, nel tempo e nello spazio, giungendo fino a noi. Uomini di razze e popoli diversi, di differenti culture e civiltà, in tempi diversi, da duemila anni, ininterrottamente, aderiscono per grazia all’evento di Gesù Cristo e lo ripropongono alla libertà dei loro contemporanei. Questi, a loro volta, si coinvolgono con quell’evento e lo comunicano ad altri. La fede si tramanda, in questo modo, da esperienza a esperienza.Si tratta di un fatto semplice e nello stesso tempo sconvolgente che non ha eguali nella storia dell’umanità e che dice bene che cosa sia o, meglio, chi sia la Chiesa.

Considerando la persona, la vita e le opere del Nazareno, l’esperienza cristiana può, alla fine, essere definita come l’evento di Gesù Cristo morto e risorto che si rende presente, nella Chiesa e attraverso la Chiesa, nell’oggi della storia a uomini situati, con la loro imprevedibile libertà e con la loro inevitabile appartenenza a popoli, culture e tradizioni. Essa implica contemporaneamente la libertà di Dio e la libertà del credente con la sua storia personale e comunitaria.

In quest’ottica la realtà della Chiesa viene liberata da ogni astrazione, in quanto essa stessa si impone, anzitutto, come fatto che mi avviene: viene al mio incontro (ad-venio). Il fatto cristiano, storicamente ben identificabile, vive, quindi, nell’evento della Chiesa[7].

Il dinamismo profondamente unitario di evento, libertà, storia[8] che identifica simultaneamente la genesi della comunità intorno a Gesù e il suo permanere nel tempo, individua, in concreto, la natura della Chiesa. Essa, infatti, è la comunione di coloro che sono stati afferrati da Gesù Cristo ed inviati a comunicare questo incontro a tutti gli uomini. Quindi il metodo del discernimento ecclesiale e del giudizio di comunione.

 

4. Il soggetto del discernimento ecclesiale e del giudizio di comunione

 

a) Chi è la Chiesa?

 

Alla domanda cos’è la Chiesa? si risponde adeguatamente esplicitando la sua natura di soggetto in cui la singola persona non è mai assorbita dal collettivo. «Cos’è la Chiesa? Per il Mistero in nuce la risposta è: la Chiesa è l’unità di coloro che, schieratisi intorno al Sì immacolato di Maria e formati in questo Sì, sono disposti e pronti a fare in modo che abbia a realizzarsi la volontà di salvezza di Dio su loro stessi e su tutti i fratelli»[9].

La Madre di Dio appare così come il nucleo personale della Chiesa. Questo rende possibile affermare che la Chiesa, in Maria, (in forza della sua pre-elezione a soggetto archetipo di tutte le missioni personali), precede il singolo e nello stesso tempo il singolo, entrando nella Chiesa, non diventa membro di una generica unità collettiva, ma di una communio che ha il suo modello (archetipo) nella vita del mistero trinitario[10]. Come aveva già prefigurato Guardini parlando della Chiesa che deve rinascere dalle anime[11], la Chiesa avviene veramente nella persona che appartiene, per grazia e per fede, al popolo di Dio.

In questo orizzonte si collocano i migliori approfondimenti ecclesiologici che, a partire dal dettato conciliare – considerato secondo il criterio ermeneutico indicato dall’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1985: la lettura unitaria delle quattro costituzioni[12] – hanno visto la luce in questi ultimi cinquant’anni. Approfondimenti che, con diverse sottolineature, hanno messo in evidenza l’importanza della communio rettamente intesa[13] per comprendere il mistero della Chiesa[14]. La communio ecclesiale, in forza della natura di soggetto propria della Chiesa (chi non che cosa è la Chiesa!) poggia sulla communio personarum. L’ecclesiologia ha quindi bisogno di una profonda concentrazione antropologica[15].

Per non essere astratti e metterci in ascolto dei nostri fratelli uomini, domandiamoci ad esempio quale giudizio culturale scaturisca da una tale esperienza di vita comunitaria in merito alle questioni dell’immigrazione, dell’interculturalità, del dialogo interreligioso che interrogano ogni giorno la nostra società.

Dio, per comunicare la verità, ha deciso di passare dalla libertà dell’uomo. Lo mostra la vicenda del Suo Figlio incarnato, morto e risorto per noi che, pur essendo la verità vivente e personale, si è offerto a tal punto alla libertà dell’uomo da lasciarsi crocifiggere. Da quel momento, anche per i Suoi l’unica strada percorribile per incontrare i fratelli uomini è l’autoesposizione, la testimonianza. Mettendo in campo contemporaneamente l’ossequio dovuto alla verità e l’accoglienza integrale della libertà dell’altro di qualunque ceto, razza, cultura e religione, la testimonianza costituisce il metodo di una possibile integrazione dei differenti nella nostra società. Le domande che uomini e donne di altre religioni e di altre culture pongono a noi cristiani, potranno trovare risposta adeguata solo se noi non rinunceremo a farci carico della loro libertà e, nello stesso tempo, saremo disposti a pagare di persona per rendere testimonianza alla verità.

Nel caso degli immigrati tale testimonianza verrà, ovviamente, articolata secondo diversi livelli. Nell’ambito dei rapporti interpersonali la logica della testimonianza alla verità non può, con libertà, non andare ben oltre ogni legge di reciprocità. Il vero testimone è colui che si espone in prima persona unicamente per rispondere all’appello della verità. Così facendo ama l’altro gratuitamente, per se stesso. Non avanza pretese nei suoi confronti, né fa calcolo alcuno sulla sua reazione, non “pretende” reciprocità.

Tuttavia non è possibile fermarsi a questo livello del problema. Infatti nella vita della società è necessario che si stabilisca un ordine, per impedire che la possibile assolutezza della gratuità nel rapporto io-tu diventi ingiustizia rispetto a terzi. Appare decisiva, in proposito, la vita dei corpi intermedi. È a questo livello che avviene (o non avviene) l’integrazione. Infatti la famiglia, scuola, i luoghi di lavoro, i quartieri e più in generale tutte le forme associative, ambiti educativi per eccellenza, possono favorire quello scambio sociale capace di rinnovare continuamente una società civile autenticamente democratica. A livello di società civile l’integrazione si gioca seguendo i principi di sussidiarietà e di solidarietà che consentono l’effettivo riconoscimento dell’intrinseca dignità di ogni uomo.

Infine, a livello delle istituzioni statuali la legge della testimonianza assume una dimensione comunitaria e politica. Non c’è legge né sistema giuridico che, in quanto tale, sia in grado di assicurarla. Allo stato democratico tocca però garantire il contesto di ordine, di pace e di benessere necessari perché la logica della testimonianza possa essere concretamente attuata dai singoli e dai corpi intermedi. L’autorità costituita dovrà essere particolarmente attenta, in proposito, a salvaguardare la pregnanza di una traditio innovativa, in quanto fattore dinamico di edificazione di civiltà. Nel massimo rispetto della storia, della cultura e dei costumi del popolo che rappresenta, l’autorità statuale, ai vari livelli, non pretenderà di imporre in modo meccanico un’idea astratta di integrazione. Ad esempio, non porrà, dal punto di vista pratico, sullo stesso piano l’attuazione dei diritti di culto richiesta da più del 90% di una popolazione (cattolica), con quelli pur dovuti ad una ridotta minoranza (musulmana).

 

b) Nel mondo

 

Le nostre comunità ecclesiali, nella misura in cui sono luoghi di autentica esperienza di comunione, possono rifare a chiunque l’invito di Gesù ai due: «Venite e vedrete».

Il fatto cristiano, allora, si rivela come l’evento di Gesù Cristo offerto qui ed ora alla mia libertà, che la riempie di letizia. Si capisce perché da Balthasar il vero centro di interesse dell’ecclesiologia venga così sintetizzato: «Ci occuperemo della Chiesa solo nella misura in cui essa può e vuole essere una mediazione della forma (Gestalt) della Rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Dicendo questo abbiamo probabilmente posto la questione decisiva»[16]. Con l’espressione mediazione ci si riferisce alla natura sacramentale della Chiesa. Il medium ecclesiale è quindi un soggetto vivente, un noi concreto che fa da tramite tra Cristo e la libertà sempre situata dell’uomo. Per questa ragione si può parlare della Chiesa come medium intrinseco, cioè come modalità vitale con cui Gesù Cristo stesso ha scelto di comunicarsi lungo le coordinate del tempo e dello spazio. Questo è quanto in nuce si vuol affermare quando si parla della Chiesa come sacramento. La seconda concentrazione fondamentale – dopo quella antropologica – dell’ecclesiologia a partire dall’insegnamento del Vaticano II è quindi quella sacramentale.

Ma qui ci interessa sottolineare la principale conseguenza derivante dalla natura di medium intrinseco dell’evento di Gesù Cristo propria della Chiesa. Mi riferisco alla tanto dibattuta questione del rapporto Chiesa-mondo. La Chiesa così concepita appare definibile solo in base ad una duplice costitutiva relazione: a Cristo, da una parte, e al mondo, verso cui è continuamente ed essenzialmente inviata, dall’altra. Da qui deriva una conclusione fondamentale. La categoria di missione diventa anche la categoria chiave per descrivere la vita e l’attività della Chiesa nella sua essenza di mediazione intrinseca di Gesù Cristo: «come la missione di Gesù non si addiziona alla sua persona ma è identica ad essa, così la missione della Chiesa è tutt’uno con la sua essenza»[17].

In questo senso separare la Chiesa dal mondo è impresa vana oltre che artificiosa, destinata – come purtroppo le vicende storiche e non poche elaborazioni teologiche documentano – a suscitare gravi malintesi[18]. Chiesa e mondo individuano una polarità storicamente insuperabile all’interno dell’unico disegno del Padre[19].

L’originario ed inscindibile legame della Chiesa con il mondo impedisce di identificarla con una realtà precostituita, senza rapporto con la storia,da trasferire, poi, nel mondo come in una regione straniera, quasi come una sovrastruttura aggiunta dall’esterno. Ne deriverebbero, tra l’altro – come purtroppo è successo e succede – la sua inesorabile inincidenza e, per finire, la sua inutilità. Invece la viva edificazione della Chiesa ha a che fare, costitutivamente, con la storia, con uomini toccati al cuore della propria libertà dal dono dell’evento di Gesù Cristo. A tal punto trasformati, nel ritmo quotidiano degli affetti e del lavoro, dalla Sua presenza, da comunicarla, gratuitamente, a quanti entrano in rapporto con loro. L’essenza della Chiesa è intimamente missionaria perché il Regno cresce quasi germogliando dal suolo del mondo e gli uomini ne sono – lo sappiano o meno – co-agonisti. Il protagonista, Gesù Cristo, mostra questa unità originaria di Chiesa-mondo nel disegno di Dio (cfr. Gv 17, 21) perché, in Lui e attraverso di Lui, il Regno dei cieli è definitivamente in atto[20]. Vista così la Chiesa, sempre santa anche se composta da peccatori, è la forma mundi. Cioè la figura piena e splendente del mondo salvato.

Consentitemi allora un secondo esempio che ci riguarda da vicino. Non è affatto estraneo all’esperienza cristiana, anzi costituisce un atto di discernimento ecclesiale e giudizio di comunione, parlare della responsabilità che noi cristiani abbiamo nel tentativo di far evolvere l’odierno modello di sviluppo in modello di civiltà che potremmo chiamare nuovo umanesimo.Ogni autentica civiltà implica un intreccio creativo di dimensioni materiali e spirituali che consentano ai singoli ed al popolo di praticare un’integrale vita buona. Non basta produrre maggior benessere economico a vantaggio di tutti, cosa che tra l’altro ai giorni nostri non è assolutamente semplice. Né, d’altra parte, si tratta di demonizzare il denaro o di condannare il mercato. Secondo un articolato sviluppo – dalla Rerum novarum alla Caritas in veritate – l’insegnamento sociale della Chiesa ha chiarito i principi evangelici di giustizia che debbono presiedere al corretto rapporto tra lavoro, economia e politica ai fini di edificare una civiltà in cui tutti vivano, per quanto possibile, in pace e concordia[21]. Proprio in questo quadro si impone l’evidenza che non si dà sviluppo senza civiltà. Ed è civile una società nella quale, di fatto e non solo in linea di principio, il valore di ogni singolo, sempre radicato nella comunità, è riconosciuto e perseguito in tutte le umane espressioni dall’individuo, dalle famiglie, dai corpi intermedi, in una parola: da tutta la società civile al cui servizio sono chiamate le autorità istituzionali di ogni ordine e grado[22].

 

5. Il contenuto del discernimento ecclesiale e del giudizio di comunione

 

Da quanto veniamo dicendo si può sinteticamente concludere che il contenuto del discernimento ecclesiale e del giudizio di comunione – il ciò che occorre giudicare nel nostro cammino comune – è semplicemente la realtà. La realtà considerata integralmente, senza censurare o dimenticare nessuno dei suoi elementi. Le parole di Paolo «esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5, 21) – torna il verbo del discernimento dokimàzete – ci offrono la misura del contenuto del discernimento: ogni cosa, appunto.

Senza nulla temere, perché certi che la storia è guidata con sapienza dal Padre che ha un disegno buono per i Suoi figli. In questo senso, sulla scia di un preciso suggerimento del n. 13 di Fides et ratio, sono solito parlare di logica sacramentale della rivelazione cristiana.

Con questa espressione voglio esprimere la convinzione che tutte le circostanze e tutti i rapporti che formano la trama dell’umana esistenza sono, in un certo senso, iscritti nel disegno unitario di Dio. Per questo circostanze e rapporti rappresentano, analogicamente, ilsacramento del Dio trascendente che interpella l’umana libertà. L’esistere del cristiano in Cristo, in quanto membro della comunità ecclesiale, lo rende evento comunicativo (sacramento) di quella verità cui prende parte. In quest’ottica ogni rapporto che gli è dato chiede di essere vissuto sacramentalmente. Qualcosa di analogo si può dire di tutte le circostanze (da intendere qui in senso lato, come fatti o insieme di fatti con le più variegate caratteristiche). Esse non sono date, ultimamente, per caso. Anche senza negare le molte concause che le determinano, le circostanze non sfuggono, in ultima analisi, al gioco della singolare relazione della libertà di Dio che chiama in causa (vocazione) e mobilita (missione) quella dell’uomo. È necessario però ribadire subito che l’uomo, lasciato a se stesso, non saprebbe cogliere il carattere di evento sacramentale di rapporti e circostanze. Egli ha bisogno per questo di essere immanente ad una comunità ecclesiale sensibilmente espressa.

La logica dell’incarnazione come logica sacramentale rivela così la vera natura dell’umana esistenza: la vita stessa è vocazione in quanto la libertà dell’uomo, in ogni suo atto, è chiamata a decidere per il dono di Dio anticipato come promessa. Al di fuori del sacramento non è possibile neppure intuire il valore sacramentale di circostanze e di rapporti. D’altra parte però, finché questo valore non diventa esperienza concreta del credente, mosso in ogni atto della sua libertà da circostanze e rapporti, si può legittimamente dubitare della sua effettiva immedesimazione al sacramento.

 

6. La sinodalità: metodo o via della communio

 

I tratti accennati di una ecclesiologia che, a partire dall’esperienza ecclesiale, conduce ad un’autentica communio personarum ed è capace di logica sacramentale ed autenticamente missionaria, ci consentono di declinare un po’ il metodo sinodale così come esso avviene nel discernimento ecclesiale e giudizio di comunione.

 

a) Dalla “communio” alla sinodalità

 

Il fatto che la Chiesa si attua attraverso una communio personarum impone che la comunione ne costituisca, a tutti i livelli, il principio strutturante. Non c’è realtà della vita della Chiesa – dal ministero episcopale alla vita delle famiglie – che non abbia come forma propria e come legge o dinamica interna quella della communio.

Avendo il Concilio Vaticano II utilizzato il termine ‘collegialità’ per descrivere la figura della comunione propria del ministero episcopale, alcuni autori propongono di usare la categoria sinodalità per descrivere il risvolto giuridico della communio in generale: «Il termine “sinodale”, che può vantare una tradizione più forte e ininterrotta specialmente grazie alla Chiesa orientale e che non è stato confiscato dal Vaticano II per nessuna struttura particolare (il collegio universale dei vescovi), potrebbe essere usato per esprimere la struttura operativa della “communio ecclesiastica” a tutti i livelli»[23].

La communio, la cui origine è prettamente sacramentale (accade nel battesimo e si compie con pienezza nella partecipazione eucaristica caparra della vita eterna, communio sanctorum), è sempre communio hierarchica. Con tale espressione si intende anzitutto segnalare, come abbiamo visto prima, il fatto che la comunione ecclesiale non scaturisce dal libero accordo dei membri della comunità cristiana, ma è il frutto della convocatio Dei, dell’essere ekklesia, convocati dal Padre nel Crocifisso Risorto per opera dello Spirito. Questa origine soprannaturale è permanentemente resa presente dal ministero ordinato il quale, a sua volta, non è l’esito di una qualche designazione della comunità cristiana, bensì un dono gratuito, elargito ad alcuni a favore di tutti, in forza del sacramento dell’ordine. In questo senso la sinodalità riflette il carattere gerarchico della communio ecclesiale e non potrà mai essere compresa secondo i criteri organizzativi delle società civili.

Queste considerazioni sono di primaria importanza per capire il significato della potestas (potere)nella comunità cristiana. Nella Chiesa la potestas nasce dall’obbedienza a Gesù Cristo, Figlio di Dio, Egli stesso fattosi obbediente al Padre, per la potenza dello Spirito, fino alla morte di croce. Per la Chiesa, come per il Suo Signore, il potere implica una libertà la cui radice ultima non è a propria disposizione, non è in proprio potere. A ben vedere siamo qui in presenza di un elemento costitutivo della libertà finita, e quindi del potere, in generale. L’uomo e le comunità umane sono veramente liberi solo se abbracciano tutti i dati essenziali, previi ed insopprimibili, da cui sono costituiti. La genesi, la natura e l’esercizio della libertà si radicano nella natura stessa dell’uomo e della comunità.

 

b) Rappresentanza e testimonianza

 

La natura di comunione missionaria propria della Chiesa si esprime nella sinodalità, quale principio strutturante la vita di comunione a tutti i livelli, scaturisce anche il significato della rappresentanza nella Chiesa.

Per comprendere adeguatamente questo termine – ed evitare in tal modo di mutuare dalla società civile una nozione di rappresentanza non adeguata all’essenza del fatto cristiano e, quindi, al soggetto Chiesa – è importante mettere in evidenza due elementi.

In primo luogo l’origine della rappresentanza nella Chiesa è sacramentale, non sociologica. Dal sacramento dell’ordine scaturisce la possibilità – la sacra potestas – di rappresentare Gesù Cristo, cioè di farlo realmente presente alla libertà di ogni uomo di ogni tempo. è questa la ragione per cui il Concilio Vaticano II afferma che i vescovi «sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nelle loro chiese particolari (…) Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria chiesa, e tutti insieme col papa rappresentano tutta la chiesa nel vincolo di pace, di amore e di unità»[24]. Come afferma san Cipriano: «Episcopus in Ecclesia et Ecclesia in Episcopo»[25].

L’origine sacramentale della rappresentanza propria dei fedeli si trova nel battesimo. In forza di esso il popolo cristiano è costituito come popolo sacerdotale (sacerdozio comune) e, come insegna il Concilio Vaticano II, «partecipa pure alla funzione profetica di Cristo, quando gli rende una viva testimonianza, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e quando offre a Dio un sacrificio di lode, il frutto di labbra acclamanti al suo nome (cf. Ebr. 13,15). La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo (1Gv 2, 20 e 27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà che gli è particolare mediante il senso soprannaturale della fede in tutto il popolo, quando ‘dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici’ esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi»[26].

Come si articolano tra di loro la rappresentanza che scaturisce dal battesimo e quella che ha la sua origine nel sacramento dell’ordine? È il problema del rapporto tra il sacerdozio ministeriale e quello comune dei fedeli. Secondo l’ecclesiologia di comunione occorre pensarli come reciprocamente immanenti: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro»[27]. In questo modo la rappresentanza ad opera nel sacerdozio ministeriale è in funzione della rappresentanza del sacerdozio comune, nel senso che assicura sacramentalmente nella storia la possibilità reale di quest’ultima rappresentanza[28].

Il secondo elemento che occorre mettere in evidenza per comprendere la natura della rappresentanza nella vita della Chiesa consiste nel riconoscimento che la fede – contenuto essenziale dell’esperienza cristiana – non può essere oggetto di delega. Se l’esperienza ecclesiale implica la libera risposta di ogni credente all’evento di Cristo che la comunità cristiana – in forza dell’economia sacramentale assicurata dall’ordine – gli offre nell’oggi della storia, si comprende bene perché nessuno possa rispondere per un altro. In questo senso scriveva con grande acutezza il compianto vescovo Corecco: «la fede non può mai essere rappresentata per delega. La salvezza è eminentemente personale e non può perciò essere oggetto di delega. Nell’atto di fede e nella professione della stessa non è possibile farsi rappresentare da un’altra persona. In definitiva nella Chiesa il concetto di ‘rappresentanza’ si identifica con quello di ‘testimonianza’»[29]. In questa prospettiva è importante comprendere come il desiderio che i diversi organi o istituti sinodali nella vita della Chiesa – si pensi ai diversi consigli – siano il più rappresentativi possibile esige che si dia spazio alla sinfonia di testimonianze personali dei fedeli secondo la diversità di vocazioni, stati di vita, situazioni professionali e rapporti e circostanze che incontrano[30]. Di per sé un padre di famiglia non “rappresenta” la categoria “padri di famiglia”, né un “religioso” o un “consacrato laico” la categoria “vita consacrata”. Quindi, coloro che partecipano ad un consiglio, per stare all’esempio fatto, non hanno come prima funzione quella di rappresentare gli altri, ma quella di vivere in prima persona l’evento ecclesiale di fede costituito dal tale consiglio, ma se la loro vita rende testimonianza di cosa sia esistere in Cristo nelle più variegate situazioni e circostanze, di fatto rendono presente la sensibilità dei molti e parlano, con autorevolezza, a tutti.

 

7. L’attuazione del discernimento ecclesiale e giudizio di comunione

 

Tentiamo di comprendere ora, sulla base delle premesse relative al metodo, al soggetto e al contenuto sinodali, in cosa consista concretamente l’attuazione del discernimento ecclesiale e giudizio di comunione.

Questi atteggiamenti hanno la loro origine proprio nell’esperienza concreta della communio ecclesiale. È importante precisarlo perché normalmente in un’espressione l’aggettivo rappresenta un elemento secondario che potrebbe essere ultimamente rimosso. Non è assolutamente il caso del discernimento ecclesiale e del giudizio di comunione. Questi, infatti, sono il frutto maturo, come abbiamo già detto, dell’esperienza ecclesiale.

Per comprendere a cosa mi riferisco voglio cominciare con un esempio concreto legato al discernimento vocazionale. Supponiamo che un giovane, ascoltando un frate venuto nella parrocchia retta da amici francescani a parlare della sua azione missionaria, si entusiasmi e che questo metta in moto in lui la decisione di partire per la missione... in Colombia. Immaginatelo che si prepara con serietà per un paio di anni, che riesce a convincere mamma e papà inizialmente contrari, che coinvolge nella sua decisione la fidanzata proponendole di anticipare la data delle nozze per poter partire insieme. Supponete che faccia tutti questi passi... La sera prima di partire, quando ormai tutto è pronto e non manca più nulla – nemmeno i biglietti dell’aereo – in Colombia avviene un colpo di stato e si chiudono le frontiere: quel giovane non aveva la vocazione ad andare in missione in Colombia. È un dato di fatto. Ovviamente questo non significa che la sua spinta a dedicarsi ai popoli in via di sviluppo sia da spegnere. Essa troverà un’altra strada, che il Padre eterno gli farà capire...

Per poter discernere è anzitutto necessario verificare come la vita, passo dopo passo – in forza della trama dei segni che la Provvidenza offre alla mia obbedienza libera – sveli la storia progressiva della mia vocazione nel tempo. Il discernimento ed il giudizio implicano dunque la vita come vocazione che chiede l’adesione ad una trama di segni, tracce oggettivamente identificabili nell’esistenza di un uomo libero.

Solo in questo modo si libera la parola discernimento da quella ambigua interpretazione che la considera una sorta di analisi psico-intellettuale previa, fatta a tavolino, restituendole il significato originario di vaglio consapevole e critico.

Se il discernimento è il frutto dell’esperienza ecclesiale, allora scaturisce da essa attraverso il giudizio inteso come costante atteggiamento di verifica. E questo perché l’esperienza ecclesiale si gioca nell’incontro tra la libertà del fedele e la realtà attraverso la quale la Provvidenza, in una trama di segni oggettivi, gli viene incontro e lo provoca ad aderire. Proprio per questa ragione il discernimento non può essere all’inizio del cammino di verifica. Questo è evidente a livello del discernimento della vocazione allo stato di vita. In caso contrario si cadrebbe in una delle due opposte trappole. O si prescinde dalla libertà di Dio seguendo la strada della totale e del tutto illusoria autodeterminazione, o si prescinde della libertà personale del fedele – che non è mai sostituita dalla comunità ecclesiale, bensì da essa retta, sorretta e corretta – conducendolo ad alienarsi magari nel giudizio di un altro, fosse pure il più saggio o il più santo degli uomini.

In questo senso il discernimento ecclesiale è l’attuazione attraverso il costante giudizio di comunione di quella verifica messa in opera dall’esperienza ecclesiale della persona. Un atto conclusivo che possiede contemporaneamente una dimensione personale (soggettiva) e comunitaria (oggettiva).

Sulla base della logica sacramentale, la stessa cosa si può dire del discernimento ecclesiale circa i segni dei tempi[31]. Esso è l’attuazione di un soggetto ecclesiale che vive l’esperienza cristiana integrale in atteggiamento di verifica (giudizio di comunione). Per inciso possiamo dire che, in questo impianto, la categoria dei segni dei tempi trova un solido ancoraggio ontologico e teologico[32] nella riflessione circa il valore sacramentale delle circostanze e dei rapporti che interpellano quotidianamente la libertà, sempre storicamente situata, dell'uomo[33]. Questo approfondimento rende, poi, il dialogo efficace a tutto campo: dall’ecumenismo al rapporto con le altre religioni, dal confronto appassionato con gli uomini del cosiddetto mondo laico fino alla testimonianza eloquente della carità. Ne scaturisce una concezione dell’azione ecclesiale più immediatamente legata alla testimonianza diretta della profonda corrispondenza di Gesù Cristo all’anelito di salvezza presente nel cuore di ogni uomo e della comunità umana.

Così il discernimento ecclesiale e il giudizio di comunione consisterà nel riconoscimento di quale sia la strada che concretamente più risponde e corrisponde alla missione della Chiesa nel qui ed ora della storia. Mi riferisco alla strada in atto, non a quella che noi immaginiamo o pensiamo di dover percorrere!

Come frutto prezioso dell’esperienza ecclesiale discernimento e giudizio costituiscono un’espressione privilegiata della testimonianza. Consistono, per dirlo con altre parole, nel riconoscimento dell’autorevolezza della testimonianza cristiana. Per questa ragione il discernimento ecclesiale e il giudizio di comunione non possono certo essere ridotti e surrogati da alcuni incontri o riunioni. Essi sono la forma di giudizio sulla realtà di un fedele cristiano, la cui vita è informata dalla comunione.

Perché il discernimento e il giudizio non siano ridotti ad un semplice richiamo ideale sono necessari due atteggiamenti permanenti in tutti i fedeli.

Il primo è la testimonianza personale. Non si raggiunge il giudizio di comunione ed il discernimento senza che ciascuno “paghi di persona”, si giochi in prima persona, si ponga davanti a tutti rendendo testimonianza a Gesù Cristo nel qui ed ora della storia.

Il secondo atteggiamento, non meno fondamentale del primo, è la disponibilità di tutti in ogni momento alla conversione, al riconoscimento della maggior verità della testimonianza dell’altro. Infatti di fronte ad una testimonianza più autorevole, di fronte a un’esperienza ecclesiale vissuta con maggior pienezza la libertà di ciascuno è chiamata a fare un passo per aderire alla maggior verità intravista.

Pagare di persona ed essere disponibili alla conversione sono due atteggiamenti che scaturiscono da quello che a me sembra l’espressione emblematica del rapporto di comunione tra i cristiani. Mi riferisco ad una posizione che io sono solito chiamare stima previa. Dall’origine sacramentale della nostra comunione (dalla logica sacramentale del fatto cristiano) scaturisce questa straordinaria possibilità dischiusa in ogni rapporto tra cristiani. Si tratta, costi quel che costi, di una stima previa verso tutti. Su che cosa può fondarsi una posizione umana talmente inaudita da essere più forte di tutte le opinioni, più forte di tutte le incomprensioni, più forte persino delle umiliazioni? Sul riconoscimento che chiunque mi è dato, mi è dato dal Padre per il mio bene oggettivo. Quindi mi corrisponde profondamente, al di là di ogni diversità, anche profonda. Non ci sono pre-condizioni a questa stima a meno di mortificare la carità, senza la quale nulla ha valore. Ebbene la carità incomincia proprio dall’umile e grato riconoscimento dell’unità che ci lega nella pluriformità di espressioni, frutto della variegata risposta che la storia, le circostanze, e i temperamenti offrono alla multiforme grazia dello Spirito. Questa stima a priori tra i cristiani si rivela decisiva anche per affrontare la delicata questione della pluralità dei carismi nella vita della Chiesa particolare.

Rendere testimonianza, accogliere la testimonianza e percorrere la strada segnata dalla testimonianza: ecco il metodo sinodale!

 

8. Lo Spirito Santo e nuovi percorsi missionari

 

Voglio concludere il mio intervento facendo riferimento ad alcune condizioni per la nuova evangelizzazione. La missione, non dimentichiamolo, è la ragion d’essere del cammino della Chiesa.

Abbiamo visto che il discernimento ecclesiale e giudizio di comunione – che abbraccia a 360° tutta la realtà – scaturisce, cresce e matura solo nell’appartenenza alla comunità ecclesiale che regge, sorregge e corregge permanentemente la vita del fedele. Il discernimento è un giudizio di comunione che ha come scopo il bene del popolo di Dio, cioè, l’edificazione della Chiesa come forma mundi. La comunità cristiana, infatti, si propone a tutti come una compagine di uomini e donne potenzialmente compiuti perché gratuitamente redenti da Cristo. E, nella vita della comunità risuona continuamente l’avvertimento già citato di Paolo: «non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12, 2).

Nell’attuale frangente storico del nostro paese occorre riconoscere che l’indebolirsi del senso dell’appartenenza alla comunità cristiana spiega perché il soggetto ecclesiale vada sempre più perdendo la propria radicazione nella società civile – e con ciò la sua natura popolare – e tenda ad articolarsi come soggetto separato. Una comunità cristiana come soggetto separato produce la figura del cristiano militante (senza enfatizzare la critica ormai nota alla categoria di militanza). Il soggetto militante elabora strategie e cerca tecniche efficaci per riprendere il nesso con la società da cui, forse senza accorgersi, si era appunto separato, come uno che taglia dall’albero il ramo su cui sta seduto. E la logica non cambia se la strategia militante sceglie la strada trionfalistica piuttosto che quella della diaspora. Ma la missione non potrà mai venire dalla militanza, perché nessuna organizzazione o strategia può produrre la vita.

Che fare allora? La proposta è affascinante ma radicalmente impegnativa: si tratta di rigenerare il popolo di Dio attraverso la paziente educazione alla bellezza del fatto cristiano. Allora ogni fedele, in quanto parte di questo popolo santo, sarà in grado di incarnare la Chiesa, dimora di vita dell’uomo nuovo, negli «ambienti dell’umana esistenza»[34].

Tre mi sembrano le condizioni richieste da un’autentica dimensione missionaria:

a)                  Mostrare nei fatti quanto sia perniciosa la tendenza, oggi purtroppo assai diffusa, a disincarnare l’esperienza cristiana, confondendola con una delle tante forme di spiritualismo, sempre più diffuse. Quella cristiana è una spiritualità dell’Incarnazione. Se non incide sulle dimensioni elementari dell’esistenza umana – affetti, lavoro e riposo – il cristianesimo finisce con il ridursi ad un optional. A qualcosa che staa lato della vita e, come tale, facilmente esposto ad essere giudicato inutile e gettato via. A questo proposito sono molto belle le pagine che Papa Francesco dedica nel capitolo quarto dell’enciclica Lumen fidei al fatto che Dio prepara per gli uomini una città. In esse afferma il Papa: «La fede rivela quanto possono essere saldi i vincoli tra gli uomini, quando Dio si rende presente in mezzo ad essi. Non evoca soltanto una solidità interiore, una convinzione stabile del credente; la fede illumina anche i rapporti tra gli uomini, perché nasce dall’amore e segue la dinamica dell’amore di Dio. Il Dio affidabile dona agli uomini una città affidabile» (Lumen fidei 50).

b)                 La seconda condizione è la disponibilità a lasciarci educare («erunt semper docibiles Dei» Gv 6,45) alla testimonianza, e non alla militanza, per poter educare coloro che ci sono affidati. Dalla militanza viene la strategia – che può essere massimalista o minimalista – dalla testimonianza la missione. Cioè il gratuito e spontaneo comunicarsi di una vita cambiata per grazia. In quest’ottica il soggetto, personale e comunitario, non è mai separato dalla sua missione. Di fronte alle prove egli sa bene che desiderio e compito, volere e dovere, non si elidono ma si integrano nell’umanissima esperienza cristiana.

c)                  Infine, il soggetto cristiano – così come abbiamo tentato di descriverlo – non teme di proporre pubblicamente in tutti gli ambienti e situazioni di vita, in tutte le circostanze ed in tutti i rapporti – il cui spessore sacramentale non sarà mai sottolineato a sufficienza –il tesoro straordinario che ha incontrato in Cristo. Egli perciò è teso ad investire, a partire dal giudizio di fede e di comunione, tutti i processi culturali e sociali. Ovviamente cercherà di viverli ed indagarli con la massima criticità possibile senza cadere nel vizio, tanto radicato nell’intelligenza dell’Europa occidentale, di stimare la critica più della creatività (poièsis). Non perderà così il gusto di cogliere la realtà per smarrirsi nell’ideologia. Il cristiano si rapporta a persone, organismi ed istituzioni senza complessi, ma con parresia. La franchezza, magari ingenua, di chi ha trovato il tesoro della parabola (cfr. Mt 13,44) e vuole che tutti prendano parte alla sua gioia, fonte di speranza certa per sé e per tutti i “fratelli uomini”.

Permettetemi di concludere questa mia riflessione con alcune parole di Agostino. Egli descrive sinteticamente la bellezza dell’esperienza ecclesiale e, nello stesso tempo, esorta tutti noi a vivere conforme a questa esperienza: «Così è la Chiesa di Dio: in alcuni santi compie miracoli, in altri santi dice la verità, in altri custodisce la verginità, in altri ancora custodisce la pudicizia coniugale; in altri santi questo, in altri santi quello: ciascuno compie l’opera propria, ma tutti vivono parimenti. E quello che è l’anima per il corpo dell’uomo, lo è lo Spirito Santo per il corpo di Cristo che è la Chiesa (…) Se dunque volete vivere di Spirito Santo, conservate l’amore, amate la verità, desiderate l’unità»[35].

Questo è anche il mio augurio per il vostro cammino.



* Riprendo in questo intervento argomenti trattati in: A. Scola, Chi è la Chiesa? Una chiave antropologica e sacramentale per l’ecclesiologia, Queriniana, Brescia 20113; Id., Nuova evangelizzazione e vita consacrata alla luce della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, in «Revista Española de Teología» 73 (2013) 23-40.

[1] Benedetto XVI, Pranzo con i Padri Sinodali, 12 ottobre 2012.

[2] Cfr. Benedetto XVI, Angelus, 28 ottobre 2012.

[3] Benedetto XVI, Meditazione nella Prima Congregazione Generale, 8 ottobre 2012.

[4] H. Schlier, La lettera ai Romani, Paideia, Brescia 1982, 584.

[5] Ibid., 573.

[6] Ibid., 584.

[7] La parola evento ricomprende la parola avvenimento; ne conserva tutto lo spessore di sorprendente e gratuito accadere, mantenendo, nello stesso tempo, attraverso la preposizione e-[venio] il riferimento al Mistero: è l’accadere da un oltre, da un altro. Cfr. M. Kehl, La Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, 257-305.

[8] Cfr. A. Scola, La logica dell’Incarnazione come logica sacramentale: avvenimento ecclesiale e libertà, inAa. Vv., Wer ist die Kirche? Symposion zum 10 Todesjahr von Hans Urs von Balthasar, Johannes Verlag, Einsieldeln 1999, 99-135.

[9] H. U. von Balthasar, La mia opera ed epilogo, Jaca Book, Milano 1994, 57.

[10] Cfr. Id., Teodrammatica v. 3, Jaca Book, Milano 1983, 422-424; A. Scola, La missione della Chiesa all’alba del Terzo Millennio: discepoli e testimoni del Signore, in Aa. Vv., Congresso del laicato cattolico Roma 2000, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 77-114.

[11] Cfr. R. Guardini, La realtà della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1989, 21.

[12] «L’interpretazione teologica della dottrina conciliare deve tener presenti tutti i documenti in se stessi e nel loro rapporto stretto con gli altri, in modo che sia possibile comprendere ed esporre il significato integrale delle sentenze del concilio, spesso molto complesse. Si deve dedicare un’attenzione speciale alle quattro costituzioni maggiori del concilio, le quali sono la chiave interpretativa degli altri decreti e dichiarazioni», Synodus Episcoporum, Relatio finalis Ecclesia sub verbo Dei mysteria Christi celebrans pro saluti mundi, in Enchiridion Vaticanum 9, 1779-1818, qui 1785.

[13] Cfr. Congregazione per la dottrina della Fede, Communionis notio (28 maggio 1992), n. 1.

[14] È nota l’affermazione della Relatio finalis dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1985 secondo la quale: «ecclesiologia communionis idea centralis ac fundamentalis in documentiis concilii est», Synodus Episcoporum, Relatio..., 1800. A questo proposito cfr.: A. Denaux, L’église comme communion. Réflexions à propos du Rapport final du Synode extraordinaire de 1985, in «Nouvelle Revue Théologique» 110 (1988) 16-37.

[15] Cfr. A. Scola, Ecclesiologia in prospettiva ecumenica: qualche linea di metodo, in «Studi Ecumenici» 20 (2002) 377-402.

[16] H. U. von Balthasar, Gloria v. 1, Jaca Book, Milano 1975, 522.

[17] Id., Teodrammatica v. 3, 400.

[18] Si possono citare, ad esempio, le vicende storiche francesi legate alla comparsa del neologismo catholicisme. Il termine, apparso come sostantivo nel XVIII secolo, è diventato poi, agli inizi del XIXº, l’espressione di un’alternativa culturale all’aggettivo catholique applicato alla Chiesa. Ha finito per indicare un’appartenenza ecclesiale diafana, centrata più su un insieme di idee o, al massimo, di costumi e di linguaggio che, sulla concretezza della regula fidei dei sacramenti. Sul processo che ha condotto a concepire la Chiesa come contro-società cfr.: C. Hell, Catholicisme, in J.-Y. Lacoste (dir.), Dictionnaire critique de la théologie, PUF, Paris 1998, 211-213.

[19] In questa chiave salvifico-sacramentale è possibile cogliere il nucleo della missione ecclesiale identificata dal Vaticano II nella dimensione pastorale della Chiesa. Cfr. A. Scola, «Gaudium et spes»: dialogo e discernimento nella testimonianza della verità, in R. Fisichella (a cura di), Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 82-114, dove si può consultare bibliografia in proposito.

[20] Cfr. Mt 13, 53-57; Mc 6,16; Lc 4,14-30. Origene parlava in proposito di autobasileia.

[21] Cfr. Centesimus Annus, 31-34

[22] Su questi temi ho riflettuto analiticamente in: Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007; La vita buona, Messaggero S. Antonio, Padova 2009; Buone ragioni per la vita in comune, Mondadori, Milano 2010; Non dimentichiamoci di Dio, Rizzoli, Milano 2013.

[23] E. Corecco, Note sulla Chiesa particolare e sulle strutture della diocesi di Lugano, in Id., Ius et communio I, Piemme, Casale Monferrato 1997, 340-386, qui 351.

[24] Lumen gentium 23.

[25] Cipriano, Epistula 66, 8.

[26] Lumen gentium 12.

[27] Lumen gentium 10.

[28] Per inciso possiamo dire che in questa doppia origine sacramentale della rappresentanza si trova la radice della distinzione giuridica, nelle diverse forme di sinodalità della vita della Chiesa, tra voto deliberativo (ad esempio nel caso del Concilio Ecumenico) e voto consultivo (ad esempio nei Consigli Diocesani, sia quello presbiterale che quello pastorale).

[29] E. Corecco, Sinodalità e partecipazione nell’esercizio della ‘potestas sacra’, in Id., Ius et communio II, Piemme, Casale Monferrato 1997, 109-129, qui 123.

[30] Cfr. Regolamento del Sinodo Diocesano di Verona art. 2: Composizione dell’Assemblea Sinodale

[31] GS 4: «Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto»; GS 11: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio».

[32] Si potrebbe rileggere la categoria dei segni dei tempi alla luce della dimensione sacramentale della rivelazione cristiana e, soprattutto, del settenario sacramentale, cfr: M. Gelabert Ballester, Revelación, signos de los tiempos y magisterio de la Iglesia, in «Teología Espiritual» 34 (1990) 231-255, in particolare 234.

[33] Questo approfondimento fa risaltare quanto alcuni studiosi tra i più avvertiti hanno segnalato circa il posto dell’umana libertà nel discorso sui segni dei tempi. A tale proposito, ad esempio, Valadier afferma: «Ne chercherons-nous pas des signes de Dieu dans l’histoire, mais tenterons-nous de discerner dans les événements de notre actualité à quoi la liberté divine sollicite notre propre liberté (…) C’est pourquoi nous dirons que ces signes des temps ne sont signes de Dieu que parce que, à travers eux, la liberté divine sollicite nos libertés humaines (…) ici, et comme toujours, “l’action” de Dieu consiste à susciter la liberté de l’homme et à l’inviter à vouloir être créatrice», P. Valadier, Signes des temps, signes de Dieu?, in «Études» 335 (1971) 276-277. Inoltre cfr: X. Quinzá Lleo, Leer los signos de los tiempos en la postmodernidad, in «Revista Española de Teología» 51 (1991) 454-455.

[34] Giovanni Paolo II, Omelia a Lugano, 12 giugno 1984.

[35] Agostino, Sermo 267, 4, 4.

 

 

 

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:35

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