IL SERVIZIO DELL’AUTORITÀ IN GIUSEPPE ALLAMANO

Pubblicato in Missione Oggi

P. Francesco Pavese, IMC

Introduzione. Si può fare questo studio in tre parti: la prima può essere uno sguardo alla sua persona: come lui viveva la responsabilità di “superiore” e come esercitava questo servizio. La seconda può contenere la sua dottrina sui “superiori”. La terza può contenere la sua cura per quanti lui poneva ad esercitare il servizio dell’autorità nell’Istituto.

 

N.B.: bisogna premettere una spiegazione sui termini. Figlio della cultura del suo tempo, anche l’Allamano si esprimeva con termini meno usati oggi, quali: “superiori - sudditi”, “comandi - esecuzioni”, ecc. Basta intendersi, senza rifiutare, per semplici motivi di terminologia, la sostanza del suo insegnamento, che ha ancora molta della sua validità. Anzi, qui io preferisco mantenere certe parole (anche se onestamente oggi non piacciono tanto), proprio per poter esprimere più fedelmente il suo pensiero, senza troppi giri di parole.

 

 

 

PRIMA PARTE

LA SUA PERSONALITÀ DI “SUPERIORE”

 

Il Fondatore è un modello per i “superiori” e le “superiore” dei nostri Istituti.

 

 

1. IL SUO SERVIZIO DI “SUPERIORE” VISSUTO COME “PATERNITÀ”. Per inquadrare bene la personalità del Fondatore come “uomo di autorità” (lo ha ammesso lui stesso che ha sempre comandato), è necessario sottolineare un suo atteggiamento di fondo. Più che “superiore” si sentiva “padre”. Forse è meglio dire: “era una padre responsabile, che non rinunciava ad esercitare la sua autorità, per il bene dei “figli” e “figlie” (non dei “sudditi” e “suddite”).

 

a. Coscienza della propria paternità spirituale. Il Fondatore, proprio perché era convinto dell’origine soprannaturale dell’Istituto, si è assunto tutta la responsabilità, non solo di fondarlo, ma anche di accompagnarlo nella crescita. In questa risposta coerente alla propria vocazione si colloca la sua coscienza di essere “padre” di due famiglie missionarie. Lo ha espresso con semplicità e convinzione in diverse occasioni. Sia sufficiente rileggere quanto, nel 1904, ha scritto al gruppo dei missionari in Kenya mettendoli al corrente delle feste centenarie del santuario, per assicurarli di averli ricordati: «Lasciai in certo modo da parte le altre mie attribuzioni per non ricordare che la mia qualità di padre di questa nuova Famiglia».[1]

 

b. Un padre che ama teneramente. Come padre, l’Allamano ha manifestato un tenero affetto per i figli e le figlie. Viveva per loro, come ha confidato scrivendo al p. Filippo Perlo nei primi anni della missione in Kenya: «Tante e tante cose a tutti i miei cari missionari, pei quali soli ormai vivo su questa terra. La mia paterna benedizione mattino e sera su tutti […]».[2] Ha pure pronunciato parole così intense che ci impressionano ancora oggi: «Il Signore avrebbe potuto scegliere un altro a fondare questo Istituto, uno più capace, con maggiori doti, con più salute, ma uno che vi amasse più di me…non credo»[3].

 

c. Un padre che propone il massimo. Proprio perché voleva un mondo di bene ai suoi figli e figlie, l’Allamano non si è accontentato di proporre loro l’impegno missionario, già arduo in se stesso, ma l’ha proposto nella “santità della vita”, chiedendo loro di essere tutti di “prima qualità”. E la ragione della sua continua richiesta di santità era soprattutto di carattere apostolico: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre […]; no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà»[4]. Il “prima santi e poi missionari” si inserisce in questo tipo di ragionamenti.

 

d. Un padre che corregge. E neppure si è tirato indietro quando è stato necessario richiamare, direttamente o tramite i suoi collaboratori, ad un impegno superiore. Per esempio, ecco le parole scritte alle suore appena dopo un anno dal loro arrivo in Kenya: «Mentre come padre so compatire l’umana fragilità, non posso, né intendo che si vada avanti con questo spirito. […] Perdonatemi questo sfogo paterno, che stimai necessario per rimettere tutte in carreggiata.[…]. Vi benedico di gran cuore».[5]

 

La responsabilità del Fondatore, come superiore dei due Istituti, si esprimeva prima di tutto nella paternità. Diventa un modello per un atteggiamento di fondo per quanti esercitano questo servizio

 

 

 

2. “COMANDAVA” IN SPIRITO DI OBBEDIENZA. Un secondo aspetto che caratterizza la personalità dell’Allamano come “superiore” era questo: non ha cercato cariche, ma le ha “sempre” accettate ed esercitate per obbedienza. Non era un “carrierista”, ma “ha fatto carriera per obbedienza”. La coscienza di obbedire ai superiori, nei suoi vari servizi, lo rendeva sicuro e coraggioso. Aveva la coscienza di essere a posto e, così, aveva la forza di superare le difficoltà connesse con le sue cariche. Lamentarsi delle fatiche dell’autorità gli sarebbe parso un lamentarsi di Dio, che si era espresso tramite i suoi superiori. Come lui stesso ha detto, questa coscienza lo rendeva sereno anche nella previsione di “trovarsi davanti al tribunale di Dio”.

 

L’Allamano ha saputo armonizzare la sua responsabilità personale, alla quale non ha mai rinunciato, con la totale obbedienza alla Volontà di Dio, conosciuta attraverso la mediazione dell’autorità. Conosciamo le sue espressioni circa la sua coscienza di avere sempre compiuto la volontà di Dio, manifestata attraverso l’obbedienza ai superiori. Su questo punto il Fondatore è stato preciso. Non qualsiasi manifestazione della volontà di Dio, ma la manifestazione tramite l’obbedienza. Si faccia attenzione a questo particolare: l’Allamano ha collegato all’obbedienza la riuscita delle sue opere. Significa anche che era convinto che un “superiore” non è un “autonomo”, ma uno collegato con tanti altri, per così dire sia in alto che in basso.

 

Riporto solo una sua espressione invitando a fare attenzione al suo modo di ragionare. Rispondendo agli auguri per il compleanno, il 19 gennaio 1913, dice: «Domani compirò 62 anni; ed in questi giorni il mio pensiero è rivolto a considerare tutta la catena di grazie di cui il Signore mi fu generoso donatore, sia nell’ordine naturale come nel soprannaturale. – Una cosa mi consola quando penso alla mia poca corrispondenza a tante grazie; e si è di avere sempre coll’aiuto di Dio seguito la via che Dio mi aveva fissata da tutta l’eternità». Dopo aver ricordato i momenti salienti della sua vita, prosegue: «Vedete quindi com’io ora dando uno sguardo al passato possa con santa compiacenza rallegrarmi di avere ubbidito alla volontà di Dio manifestatami dai Superiori; ed ora godo della certezza di aver sempre camminato per la via da Dio assegnatami. Perciò usai delle grazie sparse nel cammino a mio ed altrui bene.  – Mi consola pure che avendo così fatta la volontà di Dio, Egli avrà anche aggiustato le mie deficienze e perdonato alle mie mancanze per me e per gli altri».[6]

 

Ci sono anche varie testimonianze che dimostrano come l’Allamano, uomo dinamico e responsabile in prima persona delle sue iniziative apostoliche, abbia sempre obbedito ai suoi superiori. Questo era il suo modo concreto di aderire alla Volontà di Dio. Sentiamo quella del Can. N. Baravalle, il quale ha inquadrato questo aspetto parlando della virtù della prudenza: «La prudenza era la virtù che tutti ammiravamo nel Servo di Dio, e per questo tanti venivano a consultarlo. Per ogni impresa voleva il consiglio e l’approvazione dei suoi Superiori, come avvenne per l’apertura del Convitto […]. Quale fondatore dell’Istituto Missionario, si rimise al consiglio di Roma e del Card. Richelmy […]. Nei grandi lavori di restauro, volle l’approvazione di S. Em. Il Card. Arcivescovo».[7]

 

 

 

3. ERA ABILE A SOLLECITARE COLLABORAZIONE. L’Allamano esercitava l’autorità non da solo. Aveva la coscienza di non essere in grado di potervi riuscire. Per questo motivo, fin dall’inizio, ha suscitato collaboratori e si è sempre circondato di collaboratori, che ascoltava, senza però diventare un esecutore dei loro suggerimenti.

 

a. Abile collaboratore con il Camisassa. Il suo dinamismo va condiviso con a partire dal Camisassa. L’Allamano ha avuto l’abilità di scegliersi un collaboratore che lo completasse. Ne aveva potuto conoscere le qualità, durante il periodo del seminario, trovandolo adatto e affine. Probabilmente nel settembre del 1880, gli scrive per invitarlo alla Consolata. Dopo avergli detto che l’Arcivescovo gli ha permesso di scegliersi un «Sacerdote che mi piacesse», lo prega di non fermarsi sul nome di economo, che dovrà essere nobilitato, né di addurre scuse di «personali incapacità», perché Dio supplirà, gli spiega così lo spirito della collaborazione: «Veda, mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene, eserciteremo la carità coi vecchi Sacerdoti là ricoverati e procureremo di onorare col S. Culto la cara nostra madre Maria Consolatrice. […] Io sono certo che V.S. vorrà imitare il suo antico Direttore nella ubbidienza agli Ordini del Superiore ed avrò la fortuna di dividere con una persona, che tanto amo e di cui ho sempre tanto ricevuto prove d’amore, i tanti nuovi travagli che mi aspettano».[8] Come si nota, ci sono ragioni umane e soprannaturali che l’Allamano adduce per convincere il Camisassa e l’obiettivo appare chiaro. Lavorare («fare un po’ di bene») d’accordo insieme. Se esaminiamo quanto l’Allamano ha detto dopo la morte del Camisassa, si vede che queste previsioni si sono avverate. Per esempio: «Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me»; «Con la sua morte ho perso tutte due le braccia»; «Erano 42 anni che eravamo insieme, eravamo una cosa sola; «Tutte le sere passavamo in questo mio studio lunghe ore…»; «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto».[9]

 

Il rapporto con il Camisassa, più che una semplice collaborazione, può essere definito un lavoro eseguito a due, in perfetta complementarietà.

 

b. Abile collaboratore con i sacerdoti alla consolata. La cerchia dei collaboratori dell’Allamano, però, era molto vasta, sia alla Consolata che nell’Istituto. Nell’ambito del santuario e del Convitto meritano di essere evidenziati due personaggi: il Can. G. Cappella e il Can. N. Baravalle. Più che portare avvenimenti, mi piace evidenziare lo spirito di intesa che si era creato tra l’Allamano e questi suoi due principali collaboratori. Questo spirito emerge bene dalle deposizioni che essi hanno fatto al processo canonico diocesano. Sono due deposizioni lunghe, dettagliate, magnifiche, direi entusiaste. Si vede che conoscevano bene l’Allamano, lo apprezzavano e gli volevano bene.[10] Avevano lavorato bene con lui. Ci sono altri dettagli che indicano questo rapporto. Si legga il commovente indirizzo che il Cappella gli rivolge, al termine del pranzo, il 29 gennaio 1910, decimo anniversario della miracolosa guarigione. Ci sono parole quasi di venerazione, che dimostrano chi era l’Allamano per quel gruppo di collaboratori.[11] Senza contare, poi, come l’Allamano abbia tenuto conto di questi collaboratori, in modo quasi privilegiato, nel suo testamento.[12]

 

Sul metodo della collaborazione, ecco una magnifica testimonianza: «Non era fossilizzato nelle sue idee, ma apriva il cuore ad ogni buona iniziativa; accettava, specialmente all’ora della mensa quando ci trovavamo tutti insieme, le nostre proposte, le esaminava benevolmente, e talvolta cambiava radicalmente o modificava le proprie deliberazioni, dimostrando il contatto diretto che teneva con i suoi collaboratori, e la stima che aveva di loro, e dei loro suggerimenti».[13]

 

c. Abile collaboratore con i membri dei due Istituti. Per quanto riguarda la collaborazione con i membri dei suoi due Istituti, a parte le vicende degli ultimi anni riguardanti il rapporto con Mons. F. Perlo, si deve riconoscere che è stata piena e abbondante. Non riporto nessun esempio, ma rimando agli articoli che sono apparsi sulla rivista “Giuseppe Allamano, dalla Consolata al mondo”, che ha una rubrica intitolata appunto “Collaboratori”. Oltre che del rapporto con il Camisassa, si è parlato della collaborazione con P. G. Barlassina, con Sr. Margherita Demaria, con il Fr. Benedetto Falda.[14] Ci sarebbe da aggiungere la collaborazione con p. G. Gallea, quale economo; con p. U. Costa, quale prefetto; con p. T. Gays richiamato per essere superiore in casa madre.

 

Un esempio dalle conferenze alle missionarie per quanto riguarda le destinazioni agli impieghi nella comunità: «Prima di mettervi un impiego ci raduniamo, viene anche il Sig. Vice Rettore e combiniamo: questa perla cucina, quella per il laboratorio, quell’altra per la calzoleria…; ed è come se lo dicesse il Signore. Naturalmente studiamo anche sempre le possibilità».[15]

 

 

 

4. ERA PRESENTE, INFORMATO E VIGILAVA PERSONALMENTE. Questa era una caratteristica dell’Allamano, che lui stesso ha ammesso. Lo si constata quando era assistente e direttore spirituale nel seminario, soprattutto quando poi è stato rettore del santuario e del Convitto Ecclesiastico.

 

a. Al santuario della Consolata. Per il santuario, basta ricordare quanto lui stesso diceva, ad esempio, per la pulizia. Ecco un cenno nella conferenza del 24 settembre 1916: «Nella Messa il Sacerdote al Lavabo dice: Domine, dilexi decorem domus tuae et locum habitationis gloriae tuae. Ma bisogna che dica la verità, che il Signore non debba poi dirgli: Non è vero: non hai niente di cura per la pulizia della chiesa, dell'altare, delle paramenta, insomma delle cose della chiesa. Quando recito quel Salmo tutte le volte io faccio un po' di esame di coscienza, e vedo se proprio ho cura del Santuario; e quando c'è qualche cosa che non va, chiamo i sacrestani e li sgrido bene, perché se ne ricordino bene, se l'attacchino bene all'orecchio...».[16]

 

C’è una bella testimonianza del suo domestico Sig. C. Scovero riguardo alla sua presenza al santuario: «Voleva che il Santuario fosse sempre lindo e pulito, e a me, egli stesso insegnò ad adoperare bene la scopa per fare bene pulizia nel modo che egli la desiderava. Dispose perché non mancassero mai i confessori, onde i fedeli potessero fruire del loro ministero. Ed egli stesso, ogni mattina passava lunghe ore in confessionale, tanto che io dovevo servirgli la colazione, rimanevo stizzito perché tante volte alle 9,30 egli ancora era in confessionale. Anche nel pomeriggio era assediato in camera da molti visitatori, sia ecclesiastici che laici, i quali venivano da lui, o per confessioni, o per consigli. Ricordo che una volta un signore uscendo dalla sua camera tutto lieto, mi disse: ”Sono venuto con dei quintali sullo stomaco e ne esco completamente sollevato e contento”».[17]

 

Per il Convitto stava attento all’ordine degli ambienti, come lascia capire, per esempio, nella conferenza del 30 marzo 1913: «In Convitto, alle volte, quando giro,vedo i gas accesi… qualche cosa fuori posto… tocca a tutti…».[18] Si preoccupava personalmente che anche chi vi doveva lavorare fosse idoneo. Per esempio, ha scelto con cura il direttore spirituale nel teol. Luigi Boccardo; non ha accettato le suore suggerite dal Cardinale, perché visitandole non ha avuto buona impressione.[19] Ma soprattutto seguiva i sacerdoti convittori. Anche se qualcuno ha lasciato detto che, quando era molto occupato per l’Istituto, trascurava il Convitto, c’è una quantità di testimonianze di convittori che dicono il contrario. Risulta che i convittori avevano l’impressione che l’Allamano fosse informato su tutto e che li conoscesse e seguisse personalmente. Anche con i convittori l’Allamano, se necessario, non risparmiava richiami. Ecco la sua confidenza del 15 giugno 1913: «Pei Convittori alla fine dell'anno vanno via, e mi sento sollevato, prego per loro, ma non sono più responsabile; invece durante l'anno, una parola di qui, un'altra di là... incumbit necessitas! Farebbe più piacere pensare a se stesso; invece no. Li c'era uno che lavorava i capelli. Il Direttore [L. Boccardo] gli ha detto che non andava bene, ma non ne fu nulla. Allora l'ho chiamato e: "O che ti tagli i capelli di quest'oggi o parti". Qui non si fa questo... Ma si è subito tagliato i capelli. Qualche volta è necessario».[20] C’è, però, anche questa confidenza del 25 gennaio 1920: «I malati si devono amare. […]. Giorni fa in Convitto c’era un ammalato, ed io mi sono riservato la cura… ho fatto un po’ da medico; e dicevo: D. Cafasso avrebbe fatto così».[21]

 

E si interessava, controllando personalmente, di come i giovani sacerdoti celebravano la S. Messa per poterli aiutare ad eseguire correttamente le cerimonie.

 

 

c. Al Santuario di S. Ignazio. Anche per la presenza del Fondatore in questa casa di esercizi spirituali, c’è ancora una bella testimonianza del domestico: «Teneva personalmente la direzione dei Corsi dei SS. Esercizi: prima che incominciassero si assicurava che nulla mancasse nelle camere e pei servizi generali; riceveva i singoli sacerdoti con fare paterno; destinava loro le camere; per tutto il periodo degli esercizi seguiva l’orario e le funzioni, vigilando anche sui singoli esercitandi».[22] È molto interessante pure la deposizione del can. Nicola Baravalle, suo collaboratore diretto: «Alla domenica sera si trovava personalmente sulla piazza della Chiesa per ricevere gli esercitandi. Colla berretta in mano si complimentava con loro, faceva loro servire il caffè, e se erano sudati, li accompagnava subito in camera. Durante gli esercizi poi, era tutto a tutti; era presente ad ogni funzione, e ad ogni predica. Così pure a tavola disponeva che tutto fosse in perfetto ordine, e se vedeva qualcuno che non mangiasse, si interessava subito della sua salute. Era poi generoso in ordine alla retta che gli esercitandi dovevano versare».[23]

 

Questo atteggiamento lo rendeva idoneo ad esercitare la sua autorità in modo realistico. Per quelli che erano in missione, purtroppo, doveva regolarsi sulla base di informazione, che non si sono sempre dimostrate esatte. Ma lui, come metodo, voleva guidare le sue comunità e opere con conoscenza di fatto, senza lasciarsi impressionare da qualsiasi informazione.

 

 

 

5. “PENSAVA MALE”. Questo atteggiamento del Fondatore, che lui stesso ammetteva, anzi insegnava ai superiori ha creato qualche perplessità di interpretazione. Il suo “pensare male” certo va compreso. Il contesto in cui ha pronunciato simili parole, però, ci fan capire che per lui era importante che chi esercitava l’autorità non fosse “troppo semplice”, illudendosi che tutto andasse bene.

 

A non correre il rischio di equivocare, ci può aiutare questo semplice aneddoto. Così diceva alle suore nella conferenza del 25 febbraio 1917 sulla “Importanza delle piccole cose”: «Non obbligare i superiori a fare le osservazioni due o tre volte, perché infine i superiori non osano più dir niente... eh: non ne fa nessun profitto! Io temo, e con fondamento, che tra voi ci siano di quelle che non sono generose, sono lì... mosie [fiacche], sempre al medesimo punto... guardate io penso sempre male. (Non pensi così, esclama una suora) E’ meglio ch'io pensi male e che mi sbagli sempre...».[24] In definitiva, per il Fondatore “pensare male” era un modo di dire che coincideva con un sano realismo.

 

E lo ha spiegato bene lui stesso, nella conferenza alle suore del 29 agosto 1915 sull’obbedienza: «Potessi sperare che voi tutte la praticate bene ... ! Lasciate che dubiti un poco, per emularvi di più!... Vi raccomando molta, molta umiltà e spirito di fede, altrimenti non si riconosce l'autorità. Che le cose ci vengano dette in modo dolce o no, è sempre Dio che comanda».[25] E ancora nella conferenza del 12 settembre 1920 sui doveri dei superiori: «Mons. Gastaldi quando mi ha fatto Rettore, mi disse: Ricordati: Bisogna pregare e poi non dormire, ma vigilare; il Signore ti ha data una vista buona. Vigilare, sempre pensar male; non perché si voglia il male, ma perché non si vuole».[26]

 

 

 

6. LA FINEZZA NELLA DIREZIONE. Oltre a quanto detto nel punto della autorità espressa come paternità, si deve aggiungere un altro aspetto per comprendere appieno la personalità del fondatore quale modello nell’esercizio dell’autorità: era una persona fine, che sapeva accostare finemente le persone, in ogni situazione. Chi doveva obbedire a lui si sentiva a suo agio. Lo spiego per punti. Quanto dico può servire anche per comprendere la sua arte di educatore, ma vale ugualmente per far capire come deve comportarsi con le persone chi esercita il servizio dell’autorità.

 

a. La capacità di accogliere le persone. Non era un superiore che si aveva paura di avvicinare. Accoglieva sempre bene. Le testimonianze sono infinite. Ne riporto qualcuna. P. Panelatti così ricorda le visite del Fondatore alla Consolatina: «A me dava l’impressione ch’Egli avesse giammai niente da fare. Da noi occupava molto bene il suo tempo […]; mai che mostrasse avere impegni o urgenze, e più tardi soltanto seppimo che dirigeva mezza Diocesi ed era occupatissimo»[27].

Inoltre pensiamo a: come accoglieva i singoli allievi in casa madre, ogni volta che lo desideravano, al punto che di fronte alla sua camera c’era la fila; come accoglieva, volentieri, con gioia e senza anticamera, al Santuario della Consolata, quando andavano a trovarlo; come accoglieva gli allievi in occasioni speciali (professioni, ordinazioni, partenze, ritorni, ecc.); come accolse, con speciale attenzione, gli allievi reduci della guerra. Sta di fatto che ognuno si è sentito a suo agio con lui, accolto come figlio, sicuro di non dargli fastidio con la sua presenza.

 

b. L’attenzione a situazioni particolari. Non trattava tutti e sempre allo stesso modo. Conoscendo personalmente i suoi, aveva l’avvertenza di intervenire in modo “appropriato” nei momenti speciali della vita di ognuno. Ogni persona era considerata nella sua peculiarità e nel suo momento esistenziale. L’Allamano non massificava, né standardizzava i suoi contatti. Su questo punto era molto attento e fine.

 

Anche al riguardo le testimonianze sono innumerevoli. Basti pensare come trattava il fr. B. Falda[28]. C’è la testimonianza, molto originale, di P. A. Bellani che, essendo il primo non piemontese, trovava difficoltà per il fatto che i suoi compagni parlavano abitualmente in dialetto: «Mi decisi per questo di rivolgermi al venerato fondatore che mi aveva sempre concesso tanta paterna confidenza. Monsignore, gli dissi, ad una sua domanda se mi trovavo bene in comunità […]. Benissimo, ma quel dialetto che si parla da tutti non solo mi è incomprensibile, ma mi dà noia. “Provvederò, caro Don Bellani, e subito”. La sera stessa la sua conferenza fu tutta sulla necessità che in casa e anche nelle ricreazioni si parlasse italiano per maggior educazione e rispetto a quanti, che potevano poi entrare nell’Istituto non piemontesi»[29].

 

c. Capacità di incoraggiare anche riprendendo. L’Allamano era un uomo positivo, che non lasciava mai un cuore prostrato, tanto meno in tumulto. Faceva notare con chiarezza i lati difettosi, ma poi incoraggiava sempre e infondeva speranza. Lo attesta P. L. Sales, che lo ha conosciuto bene e da vicino: «E com’era portentosa quella mano posata sulla spalla e quel “va avanti!”, quel “fa coraggio!” che diceva nell’impartire la paterna benedizione».

 

Circa questo aspetto vorrei sottolineare quanto il Fondatore abbia valorizzato il salmo 76,11: “Nunc coepi”, che letteralmente traduceva: “Adesso incomincio”[30].

 

d. Libertà e maturità nelle persone. L’Allamano, pur nella sua presenza massiccia, non soverchiava nessuno. Non imponeva la confidenza, ma la guadagnava. Ammetteva, anzi desiderava, che gli allievi maturassero ed imparassero a “camminare da soli”.

 

Anche su questo aspetto abbiamo testimonianze significative. Riporto solo un brano di conferenza alle suore del 13 febbraio 1916, perché il Fondatore tratta l’argomento in modo generale e, quindi, propone un criterio di vita: «In una comunità ci sono di quelli che non hanno bisogno di niente, né di andare dalla superiora né da me; mettono in pratica quello che sentono, cercano di osservare le regole e sono tranquille… Per quelle lì, Deo gratias! Vadano avanti tutto l’anno così; non han bisogno di nessuno: a loro basta il confessore e nostro Signore. Deo gratias! Fossero tutte così in Africa andrebbe poi bene. Quelle vanno da loro…»; e più avanti conclude:«Sapete quel che dovete fare, sapete già come farlo meglio, non bisogna sprecare tempo e fiato per cose da nulla»[31].

 

 

 

 

SECONDA PARTE

IL SUO INSEGNAMENTO SULL’AUTORITÀ

 

L’insegnamento del Fondatore sul tema del servizio di autorità lo si può spiegare a due livelli. Il primo consta degli atteggiamenti che deve avere i superiori, cioè come devono essere. Il secondo consta dei doveri dei superiori. Questo secondo livello lo possiamo trovare nuovamente in due fonti. La prima fonte è costituita dalle sue conferenze, quando spiega i “doveri dei superiori”. La seconda fonte è costituita dai consigli che dà ai responsabili nei due Istituti.

 

Per comprendere l’insegnamento del Fondatore su come svolgere il servizio di autorità, merita leggere una sua lettera al suddiacono Luigi Boccardo, quando è stato nominato “prefetto” in seminario. Si tenga presente che il Boccardo era spiritualmente guidato dall’Allamano. La lettera è del 15 luglio 1983 e contiene “in nuce” quanto vedremo realizzare e insegnare da lui in seguito.

 

Dopo avere premesso che « pochissimi adempiono bene tale uffizio», continua: «Per riuscire buoni Prefetti […] è necessario a mio avviso: 1. Farsi esemplari ai Chierici in tutto, massimamente nell’osservanza del Regolamento; 2. Aver quattro occhi per osservare tutto ciò che si fa, si dice ect. Dai soggetti, e questo farlo in modo semplice, che non se ne accorgano; quindi non in tono da superiore, ma da compagno ed amico e sovente impedire e correggere solo con qualche cenno di pena, che mostriamo di provare per questa o quella mancanza fatta o che si vuol fare, sicché sentano i giovani che si vuole loro bene e per questo solo e pel dovere che incombe si opera; 3. Certe cosette, che non hanno conseguenze, possono aggiustarsi dai Prefetti senza subito dirle ai Superiori; ai quali si diranno poi forse col tempo, quando tutto sarà già aggiustato, se si avrà a render conto; Questo modo […] fa sì che i giovani amino il Prefetto, in cui non vedono un censore studioso di incolparli presso i Superiori, ma un amico che li ama e vuol loro molto bene, onde sono spronati ad emendarsi. 4. Del resto tenga il suo posto senza affettar pretensioni fuori di ciò che è necessario in forza dell’uffizio; ed allora con semplicità; non si faccia vedere bramoso di avere la confidenza dei sudditi, basterebbe questo per allontanarla; faccia nulla contro lo spirito del Seminario, sebbene non espressamente comandato dalle regole, per compiacere altrui, no!, e la condotta del Prefetto dev’essere per ogni modo irreprensibile e d’esempio anche nelle cose di supererogazione e non deve dir parola o far atto anche piccolo di chi vuol farsi vedere spregiudicato».[32]

 

 

1. ATTEGGIAMENTI DEI SUPERIORI. Qui non c’è che da attingere alle sue conferenze. Anche se quelle citate sono prese in preferenza dai volumi delle suore, la dottrina proposta è valida allo stesso modo anche per i missionari. Notiamo che il Fondatore non parlava a “superiori” radunati in convegni speciali, ma istruiva i giovani, perché imparassero a rapportarsi bene con l’autorità. Così ha espresso una buona dottrina sugli atteggiamenti dei responsabili di comunità.

 

a. Premessa. Mi piace premettere una convinzione che il Fondatore esprime traendola dalla sua esperienza personale. «Quando sarete ben assodati nell’obbedienza sarete capaci di fare i superiori. Non sa comandare chi non sa obbedire. Bisogna che colui che comanda torni di nuovo ad obbedire, per poi meglio comandare. Si quis prudens (non dotto) regat».[33]

 

b. Avere fede nel proprio ruolo. Il Fondatore insegnava ad avere fede nel proprio servizio. Non lo insegnava direttamente ai superiori, ma lo faceva parlando dell’obbedienza. Il discorso è comunque chiaro. Se chi esercita l’autorità lo fa a nome di Dio (e qui entra tutta la spiritualità dell’obbedienza), prima degli altri l’interessato deve credere che agisce non a nome proprio. Il Fondatore lo ha affermato diverse volte, come per esempio, nella conferenza del 29 agosto sull’obbedienza: «Che il superiore sia uno dotto o no, un santo o no, non fa niente; è proprio per la sedia che occupa che ha quel diritto di comandare. Il Sommo Pontefice, quando parla "ex cathedra " è infallibile; ora « ex cathedra» vuol dire: parla in nome di Dio».[34] Commentando 1Cor 4,3, il Fondatore arriva a dire che il superiore deve pensare di compiere la funzione di “ministro di Dio”.[35] Inoltre, devono essere convinti di avere la “grazia di stato”.[36]

 

c. Consci, ma non perdersi d’animo o rifiutare la responsabilità. Spesso il Fondatore sottolineava che i superiori devono rendere conto a Dio. Per esempio, nella conferenza del 12 settembre 1920: «La S. Scrittura dice che sarà fatto giudizio strettissimo a coloro che son superiori, che presiedono, che sono a capo di qualcuno. Dovrebbero scappare quelle che vogliono far le superiore... Il Signore domanderà conto del suo Sangue che ha messo nelle mani dello speculatore (Speculatore è quello che è destinato a vigilare).

Quando S. Bernardo era superiore dei suoi frati era così atterrito dalla responsabilità, che lacrimando andava dicendo: « Io ho in deposito il Sangue di N. Signore. Il Signore ha versato il Sangue per santificare questi miei frati, ed io ho questo Sangue in mano e guai a me se ne trascurerò un poco! ». Sentiva tutto il peso della responsabilità, della direzione dei suoi frati.

Questo tutto per parlare di quelli che sono a capo. Dico di quelli che sono a capo, ma intendo in generale; ognuna nel suo genere».[37]

 

d. Non agire autonomamente. Ogni superiore è inserito in un organismo che ha diversi livelli di autorità. Se da una parte guida, dall’altra lui stesso è guidato e deve comportarsi secondo disposizioni superiori. Il Fondatore lo ha spiegato con semplici parole, portando l’esempio di Don Bosco, nella conferenza del 2 dicembre 1917: «Seppi io stesso che D. Bosco pianse perché un superiore non si atteneva al suo ordine riguardo alla S. Povertà».[38]

 

e. Essere liberi e testimoni.Anche se chi obbedisce non deve guardare alle dotidi chi dirige, tuttavia il Fondatore insisteva sulla necessità che i superiori non fossero attaccati alla propria carica e fossero autentici, cioè i primi a vivere coerentemente (non per posa, ma spontaneamente). Così il 2 dicembre 1917, parlando della decadenza degli Istituti religiosi, spiegava che una causa era: « La trascuratezza dei superiori. Ah, questo è un motivo! Certe volte i superiori non sono formati loro stessi. Chi non ha fuoco e spirito, come può darlo? E poi certe volte possono infiltrarsi certe cose per riuscire superiori… Voi non lo sapete ancora. Ah, in quelle elezioni! Davanti al SS. Sacramento si fa l’esame, e in comunità si cacciano dei gruppi… e poi cosa restano quelle superiore? Una superiora mi diceva: « Vorrei rinunziare qui e là... ». Invece... cul cadreghin [quella carica]!... Insomma, dicono che non lo vogliono, ma non lo dimetterebbero così facilmente. I superiori non osservanti essi medesimi, non possono far osservare. Arriva poi così, che tutti gonfiano il superiore, e tutti dicono: Tanto bene, tanto bene. Invece è perché, se cade il Superiore cadono anche loro... Ah, il cadreghin 'il cadreghin!... Ricordatevene! Quei superiori che fan vedere che han bisogno di questo o di quello, o che per malattia non possono osservare, non possono fare osservanti gli altri».[39] Insisto che questo pensiero il Fondatore lo ha espresso letteralmente così. Le due redazioni (delle quattro sorelle e di sr. Emilia Tempo) coincidono.[40]

 

f. Avere coraggio nella guida. Il Fondatore insisteva nel dire che il superiore non deve sentirsi condizionato da chi deve ubbidire, altrimenti si fa un danno. Per esempio: «La seconda qualità dell’obbedienza è che sia pronta. La superiora non deve dire: Bisogna che vada adagio ché quella lì è capace di dire di no».[41] «Correggere. Ma a dire qualche cosa si offende… Allora ancora più presto. Oh, non bisogna studiare il momento buono…».[42]

 

g. Mantenersi in un sano realismo. Dal punto di vista della fede, chi esercita l’autorità, per il fondatore, ha una speciale rappresentanza della volontà di Dio. Ma dal punto di vista umano, l’interessato o interessata non deve ritenersi superiore agli altri. Per il fondatore tutti possono esercitare questo servizio. Ecco un discorso molto interessante alle missionarie, nella conferenza del 22 aprile 1923 su “Una sola classe di suore”: «Il nostro sistema è quello di essere tutte uguali. Se una non è capace a qualche cosa ci pensano i superiori. Una volta son venuti a dirmi che in una comunità avevano bisogno di una superiora, ma che tra loro (ed erano 60) non ne trovavano una per questa carica e perciò chiedevano a Roma di tenere ancora la superiora di prima. Io ho detto: la tolgano, la tolgano... son tutte capaci a far la superiora. - Esse, poverette, pensavano: o teniamo questa, o venga un'altra da un altro monastero a preferenza di avere una delle nostre compagne. - Guardate com'è brutto! Io non voglio che avvengano queste cose tra voi altre; voglio che diciate: tutte le mie compagne sono capaci a far la superiora, eccetto io. - Mi sento dire che nessuna, su 60, era capace a far la superiora!... ma gliene ho mostrate io che erano capaci a farla. Quando c'è per regola di stare solo sei anni, basta; non bisogna chiedere di più. Non c'è nessuno necessario in questo mondo.

Voi, essendo tutte uguali, potete tutte divenire superiore: non per missione, ma per virtù. Ricordatevi del fatto che vi ho già contato altre volte, di quelle suore che si sono alzate dai sepolcri per ossequiare la nuova superiora che non volevano in quel monastero».[43]

 

 

 

2. DOVERI DEI SUPERIORI

 

Il Fondatore parlava esplicitamente dei doveri dei superiori, assieme ai doveri dei sudditi. La conferenza per eccellenza su questo tema è quella del 12 settembre 1920, sia ai missionari che alle missionarie, sullo stesso manoscritto.[44]. Basta ricorrere ai testi citati, per vedere più esattamente le particolarità che il Fondatore ha sottolineato alle due comunità.

 

a. Pregare. «Il primo dovere di un padre e di un superiore, e quindi il primo dovere mio e di tutti gli altri superiori è quello di pregare per i sudditi, per tutti et — pro singulis — come faceva Giobbe, perché devo temere che si facciano dei peccati e, per noi che siamo religiosi, che non si avanzi nella perfezione.

 

Quindi io prego sempre per tutta la Comunità e per ognuno di voi in particolare. E chi prego? Vi faccio proprio le mie confidenze perché anche voialtri abbiate confidenza con me. Prego specialmente lo Spirito Santo e gli Angeli Custodi.

 

Lo Spirito Santo […] Lo prego perché vi dia i suoi sette doni, specialmente: la fortezza; che siate costanti e fermi nel mettere in pratica i proponimenti. […]. Io non posso sempre essere qui in mezzo a voi, e quando ho qualche cosa da dire a qualcuno di voi, me la intendo cogli Angeli Custodi; chiamo il suo Angelo Custode, e gli do la commissione.[…].[45]

 

Alle suore: «Mai un Superiore pregherà abbastanza per la comunità. C’è da intenderci prima col Signore e collo Spirito Santo e dire: Ciò che non posso fare io per la tale, fatelo Voi».[46]

 

b. Vigilare. «Il secondo dovere di un superiore è quello di vigilare bene su tutti. Il Superiore deve sempre avere l'occhio aperto sulla condotta dei sudditi: non star lì a spiare se può prenderne uno in fallo, ma per aiutarlo a far bene. Noi siamo fatti così: è vero che dovrebbe bastare di essere alla presenza di Dio; ma il pensiero che Dio mi vede non basta... se non c'è l'occhio del superiore siamo più facilmente tentati di mancare a qualche regola...

 

Questo è un dovere di tutti i superiori […]. Dunque il secondo dovere di un superiore è quello della vigilanza. A questo riguardo mi ricordo quello che mi diceva Mons. Gastaldi di santa memoria 45 anni fa quando mi ha messo Direttore del Seminario: “Sei tu, diceva, che adesso hai la responsabilità dei Seminaristi e perciò anzitutto devi pregare, perché quello che devi fare non sei tu che lo fai ma il Signore con te, tu col Signore. In secondo luogo devi invigilare sulla loro condotta, devi sempre esser loro dietro, sempre essere dappertutto, in modo che non si trovino mai al sicuro dal tuo occhio in nessun angolo...”. Guai al Superiore che non ha sempre gli occhi aperti !...».[47]

 

e. Correggere. «Poi continuava a dire Mons. Gastaldi, il terzo dovere del superiore è quello di correggere. È una cosa che costa, ma è un dovere, e piaccia o non piaccia, bisogna farlo. Non bisogna stancarsi mai: si stancherà prima l'altro: “ma me lo ha già detto tre volte!” — “Ebbene! te lo dico ancor una quarta, e una quinta se non ti emendi!”. Bisogna correggere colle buone se si può, e anche severamente, se c'è bisogno. Immaginiamoci che nel giorno del giudizio il tale darà poi la colpa a noi: “Se mi avesse avvertito ancora una terza volta, se mi avesse avvertito più severamente, forse mi sarei emendato!”.

Ah! guai al superiore che non ha il coraggio di correggere, di sgridare! Quante volte la perdita dello spirito nelle comunità viene da questo, da questi superiori deboli.

Il Superiore deve render conto a Dio di tutti i suoi sudditi... Vedete un po' quanta responsabilità! È per questo che i santi avevano tanta difficoltà ad accettare di essere superiori...».[48]

 

Questo terzo dovere dei superiori per il Fondatore era importante (forse perché anche a lui costava eseguirlo?). Ne ha parlato anche prima con parole incisive. In occasione della festa dell’Ascensione, il 17 maggio 1917, ricorda i tre atti che Gesù fece prima di salire al cielo: un rimprovero, una missione e un ordine. Circa il rimprovero riporta le parole di Mc 16,14: «li rimproverò per la loro incredulità» e poi aggiunge questo commento: «Pare che Gesù non dovesse nella partenza amareggiare i suoi diletti con un rimprovero, ma passarci sopra. No, l'eterna sapienza e prudenza non fa così. Ciò è a consolazione dei superiori, i quali per dovere devono ammonire i loro sudditi quando è necessario, anche con addolorarli. Il superiore deve farsi violenza quando il dovere lo esige: incumbit necessitas. E lo capissero i sudditi il sacrificio che fa il superiore in tali casi!...».[49]

 

Nella conferenza del 17 settembre 1920, si introduce così su questo terzo dovere: «Certuni son tanto buoni, tanto buoni che non hanno la forza di dare delle riprensioni, di lavar la zucca; quelli lì hanno lo spirito di debolezza, non di dolcezza…».[50]

 

È importante, per il Fondatore, che il superiore insista sulle cose: «I superiori devono sempre battere, replicare…anche essere noiosi, se necessario».[51] Se questo criterio vale per la formazione, vale anche per la conduzione di una comunità.

 

 

 

 

TERZA PARTE

L’ALLAMANO E I “SUPERIORI” NELL’ISTITUTO

 

L’Allamano ha curato quanti ha incaricato a svolgere un servizio di autorità nell’Istituto. Questo lo si deduce da più fatti. Il primo è la valorizzazione dei superiori per essere lui aiutato a guidare l’Istituto. Il secondo è la cura che lui stesso ha avuto per preparare e accompagnare i superiori.

 

 

1. VALORIZZAZIONE DEI SUPERIORI.L’Allamano chiedeva ai superiori dell’Istituto da lui incaricati, non solo di eseguire le sue direttive e accompagnare la comunità, ma di collaborare perché lui fosse sempre meglio unito alle comunità. E ciò si doveva conseguire in due modi.

 

a. Tenerlo unito con l’informazione. È sempre stato il suo ritornello di dirgli tutto. Siamo nel discorso della sincerità e della confidenza che inculcava come formatore, ma che metteva alla base della collaborazione tra i responsabili. Lui voleva conoscere, anche per essere meglio preparato a risolvere problemi con conoscenza di fatto.

 

Porto come esempio alcuni interventi del Camisassa, a nome del Fondatore, verso il nipote p. Luigi Perlo e poi verso sr. Margherita de Maria (di cui dirò dopo), in Kenya. A p. Luigi: «Sincerità col Sig. Rettore nel riferirgli le cose complete e tali quali sono oggettivamente, e tutte senza restrizioni, senza sotterfugi per nascondergli la verità: massime quando ti succedesse di fare sbagli e cose comunque contrarie alle vedute del Superiore».[52]

 

A sr.. Margherita de Maria: «Le stesse tue ultime lettere han fatto al Rett. ed a me l’impressione che eri sofferente nello scrivere. E tu in tutto questo tempo neppure un accenno di tutto ciò!! eccetto quella parola d’un bubu la notte prima di dar quel battesimo; ma poi più niente. Ti par che vada questo? Crederai sia virtù soffrire e tacere, ma ti assicuriamo che è maggior virtù dir tutto con noi (Dico con noi, ché fa lo stesso sia lo scrivi al Rett. che a me)».[53]

 

«Ultima cosa che ti dico a nome del Sig. Rett. e mio s’è da continuar a scriverci a lungo e minutamente sullo stato morale e fisico di tutte costì: è per noi uno studio… ed una rivelazione, e fu appunto in base a queste relazioni, che non accettammo o congedammo qui alcuni soggetti».[54]

 

b. Tenerlo unito rendendolo presente nella comunità. Questo si realizza in tanti modi: nelle direttive inviate ai superiori perché le comunicassero a tutti, a suo nome; nelle Lettere Circolari, indirizzate a tutti, nelle quali rende presente il superiore; nelle risposte comuni, ad un gruppo (esempio: dopo gli esercizi spirituali, o le così dette conferenze annuali) o alle risposte comuni, mandate a gruppi, ma sempre tramite i superiori.

 

L’arte del Fondatore di essere presente ai missionari emerge evidente nelle lettere che scrive al superiore locale, nella quali lo incarica di porgere saluti a tutti. Questi saluti sono intensi e trasmettono intensità di comunione. Porto due esempi, tra i tanti. Così scrive al teologo Filippo Perlo, superiore in Kenya al posto di p. T. Gays, il 22 gennaio 1904: «Tante e tante cose a tutti i miei missionari, pei quali soli ormai vivo su questa terra».[55] E poco dopo, il 4 marzo, ancora: :«Dica tante cose a tutti, assicurandoli che prego per loro e vivo solo per loro».[56]

 

 

2. ACCOMPAGNAMENTO DEI “SUPERIORI”. Ecco alcune testimonianze, o brani di lettera, che dimostrano come il Fondatore accompagnava, con il consiglio e il sostegno morale, coloro che poneva come responsabili delle comunità.

 

a. Sr. Margherita de Maria. Quando era superiora le scriveva il 27 giugno 1914 in Kenya: «Abbiamo ricevuto la tua lunga lettera. In essa vedo un generale miglioramento delle Suore. Poco per volta con la grazia di Dio si metteranno a posto. Tu non scoraggiarti, e continua il comando dolce ma fermo; e non inquietarti quando ti scappa un po’ d’impazienza. Il Signore aggiusterà anche i tuoi difetti e sbagli…».[57] Il 4 novembre dello stesso anno: «Esigo dalle due suore […] che si finisca con il ritornello della gelosia; diglielo chiaramente a mio nome. Tu poi continua con il tuo metodo che trovo giusto; fai di non stancarti corporalmente né spiritualmente per loro; conservati per altre cose più importanti. […]. Coraggio a te in particolare che prego la SS. Consolata di sostenerti e consolarti».[58]

 

Il Fondatore forma questa sua figlia a vivere la sua responsabilità. Lei stessa raccoglie alcune espressioni che le ha scritto il Fondatore: «La verità tutta e sempre è la miglior consolazione per chi desidera il bene e così conosce le cose come sono. – Tu continua con carità e longanimità a sostenerle; non tralasciando di ammonirle e correggerle finché non si pongano all’altezza della loro missione. – Noi non dobbiamo badare al numero, ma allo spirito. – Coraggio! La SS. Consolata vi consolerà e vi formerà vere missionarie. – Le posizioni formano le persone se avranno la capacità e la volontà; tu guidale ed informati di tutto. Procura che ognuna sciolga tutta la propria capacità nelle mansioni fissate; così si vedrà la formazione per l’avvenire. – Per i singoli uffici bisogna avere in mira non l’anzianità, ma l’idoneità».[59]

 

b. Sr. Chiara Strapazzon. Già dal primo incontro essa vide nell’Allamano un uomo di Dio, ineguagliabile sia come fondatore che come superiore; forte e soave allo stesso tempo. «Nei miei riguardi – affermava - essendo poco istruita e non preparata a questo ufficio, ho potuto ammirare in modo speciale la sua pazienza e longanimità nell’indirizzarmi». Il Padre Fondatore si serviva di ogni opportunità ed occasione per formarla secondo il suo spirito e la rispettava nel suo ruolo davanti alla comunità e lasciandole svolgere con fiducia le sue iniziative come superiora. «Alle mie frequenti telefonate e domande sul come dovevo regolarmi - confidava Sr. Chiara - mi rispondeva sempre con tanta bontà dandomi tutte le istruzioni e spiegazioni necessarie. Guardava con occhio di fede la carica che si copriva e aveva tanta fiducia nella grazia di ufficio. In caso di difficoltà le abituali parole: “Coraggio, sta tranquilla, il Signore ti aiuterà”, riempivano l’animo di luce e di forza. Era una persona che s’interessava di tutto e di tutti».

 

«Quando mi recavo alla Consolata per parlargli, venuto il mio turno, mi accoglieva con tanta benevolenza e paterna bontà; mi faceva sedere vicina e mi ascoltava attentamente come se non avesse avuto altro da fare. Mi dava direttive minute per il buon andamento della Comunità e giungeva persino a farmi la traccia della corrispondenza per l’accettazioni delle aspiranti». «Egli sapeva rendermi facile ogni cosa».[60]

 

N.B.: questo studio può essere continuato con altri personaggi, come, per esempio, p. Costa, p. Gays, sr. Maria degli Angeli.

 

 

 

CONCLUSIONE. Il pensiero del Fondatore sul “servizio dell’autorità”, sia nella sua concezione, come nell’esercizio pratico, risulta molto articolato. Nel suo insieme è molto ricco. Si vede una persona spiritualmente ricca, sperimentata, responsabile, attenta anche ai particolari e realistica. Volendo valorizzare il suo pensiero per la formazione di quanti nei nostri Istituti collaborano nei settori di guida, è bene avere queste precauzioni:

 

- aggiornare il linguaggio;

- tenere conto del spirito e del metodo di governo del suo tempo;

- ampliare certi aspetti che in lui ci sono ma meno sviluppati (esempio: sentire, condividere i pareri altrui, prima di dare ordini, ecc…);

- moderare altri aspetti che in quel tempo erano molto accentuati (esempio: eseguire ciecamente, non obiettare, ecc…);

- non perdere i valori fondamentali, che sono la maggior parte di quanto lui ha vissuto e insegnato (esempio: volere bene alle persone; sentirsi integrati nella comunità, e non al di sopra; essere autentici e non solo apparenti; non mirare alla carriera, ma rimanere liberi e distaccati dal servizio di autorità; sentirsi responsabili di fronte a Dio; pregare per i fratelli e sorelle che serviamo; stare attenti ed essere ben inseriti nella vita della comunità; richiamare quando occorre chi sbaglia, senza esaurirsi per pochi casi; ecc.).



[1] Lett., IV, 276.

[2] Lett., IV, 23-24.

[3] Conf. IMC, I, 492.

[4] Conf. IMC, I, 249-250.

[5] Lett., VI. 683.

[6] Conf. IMC, I, 459 – 460.

[7] Processus Informativus, IV, 94.

[8] Lett., I, 124.

[9] Per le reazioni dell’Allamano cf. Lett:, IX/1, 448-449.

[10] Per la deposizione del Cappella cf. Processus Informativus, I, 160-307; per quella del Baravalle, cf. IV, 28-119.

[11] Cf. Lett., V, 334-339.

[12] Così depone il Can. Baravalle: «E fu con sorpresa che alla sua morte apprendemmo che la metà delle sue sostenze lasciata al Can. Cappella (l’altra metà all’Istituto), doveva dividersi per metà al Can. Cappella, e l’altra metà doveva suddividersi in tre parti: una destinata al Can. Cuninetti, l’altra a me, e la terza al Can. Brizio. […] Nel testamento ricordò i sacerdoti che erano i collaboratori suoi più diretti che da maggior tempo prestavano servizio al Santuario e vi erano addetti in modo stabile»: Processus Informativus, IV, 100-101.

[13] Processus Informativus, IV, 97.

[14] Cf. ‘Giuseppe Allamano, dalla Consolata al mondo’, n. 1, gennaio 2003, 14-18; n. 2, maggio 2003, 16-19; n. 1, gennaio 2004, 16-19; maggio 2004.

[15] Conf. MC, III, 318.

[16] Conf. IMC, II, 702.

[17] Processus Informativus, II, 672-673.

[18] Conf. IMC, I, 527.

[19] Cf. Conf. IMC, III, 414.

[20] Conf. IMC, I, 573.

[21] Conf. IMC, III, 391.

[22] Processus Informativus, II, 676.

[23] Processus Informativus, IV, 58-59.

[24] Conf. MC, II, 30.

[25] Conf. MC, I, 150.

[26] Conf. MC, III, 119.

[27] “Ricordi”, Sanfrè 1946, scritti dietro richiesta del Superiore Generale P. G. Barlassina.

[28]  Lett., IV, 287 – 288.

[29] “Testimonianza” del 1963.

[30]  L’edizione della Bibbia della CEI traduce: «Questo è il mio tormento: è mutata la destra dell’Altissimo».

[31] Conf. MC, I, 300 – 301.

[32] Lett., I, 156-157.

[33] Conf. IMC, I, 194.

[34] Conf. MC, I, 150; cfr. anche: Conf. MC, II, 307; III, 121.

[35] Conf. MC, II, 450.

[36] Conf. MC, III, 446.

[37] Conf. MC, III, 120.

[38] Conf. MC, II, 190.

[39] Conf. MC, II, 192.

[40] Cfr. Conf. MC, II, 194; cfr. il racconto al riguardo in: Conf. MC, II, 350. Inoltre: Conf. MC, II, 451.

[41] Conf. MC, II, 308.

[42] Conf. MC, III, 357.

[43] Conf. MC, III, 520.

[44] Conf. Conf. IMC, III, 444 – 449; Conf. MC, III, 115 – 125.

[45] Conf. IMC, III, 447.

[46] Conf. MC, III, 118.

[47] Conf. IMC, III, 448.

[48] Conf. IMC, III, 448 – 449. Su questo aspetto del correggere è molto bello il suo manoscritto alla p. 445.

[49] Conf. IMC, III, 100 – 101. È pure interessante una spiegazione alla missionarie: Conf. MC, II, 82.

[50] Conf. MC, III, 119.

[51] Conf. MC, II, 173, 175; per quanto riguarda l dovere di correggere er acquistare l’educazione, l’urbanità, cfr. Conf. MC, III, 60.

[52] Lettera (senza data) in Archivio IMC.

[53] Lettera del 14 febbraio 1914, in Archivio IMC.

[54] Lettera del 03 ottobre 1914, in Archivio IMC.

[55] Lett., IV, 23.

[56] Lett, IV, 67.

[57] GIUSEPPE ALLAMANO, Lettere ai Missionari e alle Missionarie della Consolata (p. I. Tubaldo, a cura), Grugliasco (TO), 2004, p. 187.

[58] GIUSEPPE ALLAMANO, Lettere…., pp. 198 – 199.

[59] Cfr. Giuseppe AllamanoDalla Consolata al mondo, n. 1, gennaio-aprile 2004, p. 17.

[60] Cfr. Guseppe Allamano – Dalla Consolata al mondo, n. 2, maggio-agosto 2005, pp. 16 – 19.

 

 

 

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:35
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