LA LITURGIA DELLA VITA: Rom 12,1-2

Pubblicato in Missione Oggi

Sr M. Regina Cesarato, pddm

 

1Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

Dopo aver spiegato nella prima parte della lettera ai Romani la situazione nuova della vita cristiana, San Paolo conclude invitando i credenti, in nome di tutta la misericordia sperimentata, a presentare a Dio l’offerta della propria persona.

Questa spinta oblativa, vissuta nei particolari concreti della vita quotidiana, è la liturgia della vita. Qui risiede il segreto dell’avventura spirituale di san Paolo e di ogni vita cristiana. L'esperienza singolarissima di Gesù, conosciuto personalmente da Saulo come suo Signore, fin dal primo momento (Cf At 9; 22; 26), gli rende più facile la conclusione che tutta la divina Presenza (la Shekhinah) può essere ormai contemplata e conosciuta nel volto di Gesù Cristo risorto: «E Dio, che disse: “rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge nel volto di Cristo» (2Cor 4,6). La vita dei cristiani è dunque presentata dall’Apostolo come culto vivente, santo e gradito a Dio.

Testo e contesto

Nella lettera ai Romani l’intera sezione 12,1-15,13 è di tipo esortativo. Come la grande parte dottrinale dell’epistola incominciava con una tesi generale (denominata propositio: Rm 1,16-17) così anche la sezione esortativa incomincia con due versetti che svolgono il ruolo fondamentale di anticipare in forma abbreviata e significativa, quanto vuole sviluppare in seguito. L’orizzonte teologico nel quale Paolo colloca la dimensione esortativa è il medesimo di quello della parte dottrinale, infatti compare per tre volte il richiamo a Dio, alla sua misericordia e volontà. Questa caratteristica relazionale imprime alla proposta etica di Paolo una dimensione profondamente dinamica, in quanto tutta la persona e tutti gli aspetti della vita del credente sono visti come un continuo cammino di discernimento che abilita a operare scelte secondo la volontà di Dio.

Esortazione e consolazione

Il collegamento con tutta la precedente parte della lettera è attestato dal «dunque» collocato dopo il verbo e, proprio per sottolineare la dimensione relazionale nella quale Paolo colloca l’esortazione che sarà sviluppata, egli introduce l’appellativo «fratelli» così come ha già fatto in Rm 1,13; 7,1.4; 8,12; 10,1; 11,25.

Parakaleîn: (usato 54 volte nell’epistolario paolino) - verbo «esortare», in greco. Esprime il coinvolgimento dell’Apostolo che mira a confortare i fratelli di fede perché essi si sentano animati nel vivere la novità del vangelo nella sua interezza, consapevoli di essere oggetto della misericordia di Dio, in Gesù Cristo.

Proprio a questa «misericordia» Paolo fa riferimento utilizzando un termine greco (al plurale) che traduce l’ebraico rahamim «viscere materne» di Dio. La misericordia di Dio è pertanto la ragione ultima che muove l’agire del cristiano. Questa «esortazione», dunque, che è anche una «consolazione», pone insieme l’accento su ciò che il cristiano deve vivere in coerenza con il vangelo, ma anche su ciò che Dio ha compiuto e continua a compiere: “Sia benedetto Dio, Padre

 

del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio (2Cor 1,3-4; cf Rm 15,5).

Il verbo parakaleîn, mostra anche l’origine divina dell’esortazione/consolazione, tema che sarà esplicitato nella teologia giovannea con l’utilizzo del titolo paraklétos sia in riferimento allo Spirito Santo (Gv 14,16.26) sia in riferimento a Gesù (1 Gv 2, 1).

Il termine sóma non esprime solo la corporeità, bensì tutto il vissuto della persona nella sua interezza e nella sua possibilità di entrare in relazione con gli altri e con il mondo. L’esortazione/consolazione ha come scopo la pienezza della vita cristiana, che viene espressa nella seconda parte del v. 1 attraverso un vocabolario cultuale. Già in Rm 6,13 Paolo aveva invitato i Romani a offrire se stessi «a Dio come vivi tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio».

Certamente questa dimensione di offerta totale di sé, attraverso il dono totale di Cristo, ci apre anche uno squarcio sulla dimensione «pasquale» e insieme «eucaristica» della vita dei cristiani.

I tre aggettivi che seguono esprimono che questo sacrificio deve essere «vivente, santo, gradito a Dio» così come deve essere la vittima sacrificale nelle prescrizioni di Levitico 10 e 22. Un olocausto consumato con il fuoco, conforme al Signore e al suo volere. Questa è la liturgia della vita che Paolo chiama logikén latréian, cioè «culto razionale». (Cf 1Pt 2,2: «Come bambini appena nati bramate il puro latte logikón»). E’ un dinamismo che unifica la vita e le dona senso.

Dopo aver spiegato nella prima parte della lettera ai Romani la situazione nuova della vita cristiana, Paolo invita i credenti, in nome di tutta la misericordia sperimentata, a presentare a Dio la loro vita, cioè i propri corpi (somata) nella concretezza relazionale della persona, in riferimento al tempo e allo spazio. La realtà battesimale pone il cristiano in una situazione completamente nuova che permette all’apostolo di trasferisce tutti i termini propri del culto nel Tempio di Gerusalemme alla vita cristiana.

Questa offerta dovrà essere irreversibile, come la vittima sacrificale che veniva uccisa nel Tempio, ma nello stesso tempo essere una vittima che vive, come l’Agnello immolato e risorto dell’Apocalisse. Nel caso dei cristiani la radicalità dell’offerta costituisce, secondo Paolo, un culto vero e proprio (latreian) che dà senso alla vita. Questa spinta oblativa, vissuta nei particolari concreti della vita quotidiana, è una liturgia, secondo l’insegnamento dell’apostolo.

Spostamento della terminologia cultuale

Attingendo dalla sua prolungata esperienza nel Tempio, l’apostolo, divenuto cristiano, opera un radicale cambiamento di prospettiva. Egli usa, per esempio, la terminologia propria al rituale dell’agnello sacrificato per l’espiazione dei peccati (Cf Lv 4,24; Is 53,10) e indica Cristo come “oblazione e sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). La fragranza delle vittime sacrificali significava l’accoglienza da parte di Dio. Cristo è la “nostra pasqua” cioè “l’agnello pasquale” che offre una novità di vita per quanti sono chiamati a “celebrare” la pasqua con “azzimi nuovi” e non con “lievito vecchio” (Cf 1Cor 5,7-8; Gal 5,9). Tutto ciò che è salvifico per il popolo, nella prima alleanza, si compie ora, nella persona di Gesù. Egli ci introduce nella pienezza del tempo: il kairòs di Dio che entra nel krònos; la quantità del tempo (kronos) riceve il senso dalla qualità della salvezza proposta dal Padre in Cristo Gesù, Verbo incarnato. Anche se Paolo scrive le sue lettere quando il 3° tempio di Gerusalemme non era ancora stato distrutto (70 dC) egli definisce il corpo dei cristiani come “tempio di Dio” (Cf 1 Cor3, 16-17; 6, 18-20; 2Cor 6,16; Ef 2,21). Il processo di personalizzazione del Tempio si verifica, da una prospettiva cristologia, anche nella teologia giovannea (Gv 2,19-21).

Per Paolo la liturgia diventa il quadro “naturale” in cui si svolge la vita cristiana in tutta la sua sacralità. Egli applica questa prospettiva anzitutto a se stesso e descrive il suo apostolato con un linguaggio cultuale. A volte il verbo “servire” (douleuin) , in determinati contesti sembra richiamare il servizio liturgico (1Tes 1,9-10; Gal 4,8-11). Nell’evangelizzazione Paolo è “liturgo di Cristo” (Cf Rom 15,16) che rende culto a Dio con la propria esistenza (Rom 1,9-10; 2Tim 1,3). Anche se né

 

Gesù Cristo, né Paolo hanno personalmente compiuto dei sacrifici nel tempio di Gerusalemme, la loro stessa esistenza viene descritta, nell’epistolario paolino, con linguaggio cultuale. L’apostolo ha caricato di senso liturgico la vita cristiana, senza far distinzione tra azioni ministeriali e comuni, paragona la stessa conclusione della propria vita alla libagione sacrificale: il suo sangue “sta per esser offerto in libagione” (Cf Fil 2,17; 2 Tim 4,6). Il suo ministero apostolico è un culto (latreuo) che egli presta “a Dio nello Spirito” (Rom 1,9). Egli si qualifica “protagonista di un’attività liturgica” (leitourgon: Rom 15,16) nel suo ministero tra i gentili. La sua dedizione piena nei riguardi degli abitanti di Filippi, è un sacrificio che si realizza in lui (spendomai) a vantaggio della vita di fede dei Filippesi che è denominata “offerta sacrificale e attività liturgica (thysia kai liturgia: Fil 2,17). La raccolta di fondi praticata nelle comunità greche a favore della chiesa di Gerusalemme è chiamata “attività liturgica” (leitourgia: 2Cor 9,12) ed Epafrodito, inviato dai Filippesi per assistere Paolo nei disagi della prigionia, prestandogli quegli umili servizi di cui l’apostolo in carcere aveva bisogno, viene designato come “protagonista di un’azione liturgica” (leitourgon: Fil 2,25).

Il versetto 2 riprende, ampliandole, le prospettive già delineate nel primo versetto. Il credente non si conforma alla «logica» di «questo tempo», ma si apre all’eternità di Dio che santifica il tempo umano e conferisce il senso «ultimo» della vita e del rapporto con Dio. Su questa linea occorre uscire dagli «schemi» correnti (l’imperativo negativo mè suschematízesthe esprime proprio questa esigenza). Tale abbandono della mentalità mondana viene descritto come un processo graduale di trasformazione di sé, che passa attraverso il rinnovamento della mente, approda al discernimento ma si compie nel fare la volontà di Dio. C’è dunque un processo graduale e una trasformazione della vita che rende possibile l’offerta di sé da parte dei cristiani, posti sotto la dinamica dello Spirito, a partire dal battesimo e dalla vita di fede (come suggerisce proprio 2Cor 4,16)

In primo luogo, si deve osservare che il cammino di rinnovamento porta il cristiano alle soglie della scelta continua tra il bene e il male, con la possibilità, in Gesù Cristo, di scegliere il bene. Ritornano qui le tematiche affrontate nei cc. 7-8 della lettera ai Romani, là dove Paolo ha trattato l’avvilente risultato che consegue la volontà umana da sola (Rm 7,15-25), rispetto al dono di grazia che promana dalla redenzione operata da Cristo e che permette al cristiano, attraverso lo Spirito, di accedere alla vita piena (Rm 8,1-17) di figlio di Dio. Il cristiano è chiamato a ricevere questo discernimento come un dono che nella sua vita continuamente lo spinge a una perfetta corrispondenza al volere di Dio.

I tre aggettivi che concludono il v. 2 descrivono proprio questa volontà di Dio. Essi certamente richiamano i tre aggettivi che concludevano il v. 1 riferiti all’offerta «gradita» a Dio: ciò che è buono e porta al «perfetto» (to téleion - cf Fil 3,12-16)), cioè a una vita matura e piena, capace di obbedire a Dio, mettendo in pratica la sua Parola. La maturazione nella fede che si esprime attraverso un sempre più fedele discernimento della volontà di Dio giunge a quella «perfezione» che con 1 Cor 13,10 e Col 3,14 possiamo identificare con l’agápe, «vincolo di perfezione»: la carità come dono di sé (Rm 5,5-11; 8,28-39).

La vita battesimale

La realtà battesimale ci pone in una situazione completamente nuova rispetto alla liturgia del Tempio di Gerusalemme. Per san Paolo «il vivere è Cristo» (Fil 1,21) e la salvezza consiste nell’essere resi conformi alla sua immagine, morendo a noi stessi e risorgendo a vita nuova in Lui (2Cor 4,10; 13,4; Rm 6,3-11), sorretti dall’azione dello Spirito Santo.

Poiché l'ultima pagina delle Scritture include tutte le precedenti, il conseguimento dell'ultima tappa dell’Alleanza non fa sparire le tappe intermedie del disegno di Dio. Così Paolo scopre la Torah come un pedagogo che conduce l'uomo al Cristo. Cristo, quale «ultimo Adamo » (1Cor 15,45), è la forma definitiva della natura umana redenta (1Cor 15,21-22; Rm 5,12-21; Col 3,9-11; Ef 4,22-24). In Lui conosceremo la «potenza della sua risurrezione solo se partecipiamo alle sue sofferenze diventandogli conformi nella morte» (Fil 3,10).

Il rapporto vivo e dinamico con la persona del Figlio di Dio inaugura la liturgia della vita. Non si
tratta più soltanto di una relazione cultuale, come nel Tempio di Gerusalemme, ma è relazione

 

esistenziale che trasforma tutti i momenti della quotidianità. Si capovolge lo schema della sacralità tipica del Tempio. Paolo si è sentito afferrato da Cristo Gesù (Fil 3,12) e la sua scala di valori, anche nell’ambito religioso si è capovolta. «Le cose che per me erano vantaggi personali, le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi tutto, ormai, io reputo una perdita di fronte alla sublimità della relazione con Cristo Gesù mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo ... » (Fil 3,7-8). La carità di Cristo sperimentata lo sospinge a dare la vita per il Vangelo.

Nuova ed eterna Alleanza

Attingendo alla sua prolungata esperienza nel Tempio, l’apostolo, divenuto discepolo di Gesù, opera un radicale cambiamento di prospettiva. Per Paolo la liturgia esistenziale diventa il quadro “naturale” in cui si svolge la vita cristiana in tutta la sua sacralità.

Quello che ha priorità è la libera offerta di se stessi a Dio, la liturgia del cuore e dell’ascolto della sua Parola che genera l’obbedienza. Seguendo Cristo viviamo conformi a Lui. Noi ci troviamo nella Nuova alleanza che non è iniziata con Cristo ma che nella sua Persona trova compimento. Della nuova Alleanza se parla nel VI secolo AC, con il Profeta Geremia e poi Ezechiele (Ez 37), nel contesto dell’esilio in Babilonia. Naturalmente questo suppone una conoscenza della situazione storica in cui i profeti a un certo punto hanno parlato di alleanza nuova. In un momento tragico della storia di Israele con la morte, a Meghiddo, del buon re Giosia (Siracide 49; 2Cronache 35) e poi con l’esilio a Babilonia e la distruzione di Gerusalemme e del Tempio. La nuova alleanza nasce proprio da questo fatto: da una distruzione totale, da cui nascono delle piante nuove, cioè da un evento pasquale di morte e risurrezione. Non avendo più tempio, né esercizio sacerdotale, né offerte, né primizie, Dio ha educato Israele, in esilio, a una religiosità interiore, basata sull’ascolto della sua Parola e sull’offerta del proprio cuore. La spiritualità dell’esilio viene poi espressa con le tre pratiche giudaiche: preghiera, digiuno, elemosina. Così è nata la nuova alleanza che Cristo ha iniziato a compiere anzitutto offrendo se stesso al Padre per la salvezza di tutti: “Non hai gradito sacrificio e offerte. Un corpo mi hai preparato. Allora ho detto: ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà” (cf Sal 40; Eb 5). Noi viviamo in questo kairòs e siamo apostole della nuova alleanza, nella complessità del tempo che viviamo.

Il sacrificio di Cristo è il primo compimento della “nuova ed eterna alleanza”, di cui noi aspettiamo il compimento finale con la seconda venuta del Signore.

Siamo invitate a vivere nella nuova alleanza. Per fare questo è necessario convertirci a Gesù Cristo e vivere come Lui, come Maria, Giuseppe, i pastori, Anna, Simeone, la liturgia della vita. Cercare di capire di più che cos’è questa nuova alleanza e come si passa nella nuova alleanza. La prima questione potrebbe essere: nasciamo o siamo battezzati automaticamente nella nuova alleanza? La nuova alleanza è qualcosa di già fatto in cui entriamo o è una conversione progressiva del nostro essere e poi del nostro ministero? Dio gradisce le nostre opere per il suo Regno o piuttosto la nostre persone che poi faranno anche le opere del Regno? Ciascuna di noi, in qualche modo, sta scrivendo una storia, con le sue azioni, intenzioni, parole. In questa nostra piccola storia, Dio fa la sua storia di salvezza. Chiede però la nostra libera adesione al suo progetto. Questo è il mistero della libertà e della grazia. Dal fondo di ogni catastrofe, anche dei nostri giorni ecco la profezia di Geremia (31,31-34) che si compirà pienamente nel Nuovo Testamento:

“Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali renderò feconda la casa di Israele e la casa di Giuda (addirittura con la casa di Israele, cioè con il regno del nord che è già morto e sepolto da un secolo e mezzo!) io concluderò un’alleanza nuova. L’unico versetto della Bibbia dove si parla di alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, un’alleanza che essi hanno violato benché fossi il loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo:

 

Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”.

 

 

 

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:35
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