UN “PICCOLO” SPAZIO AI PIGMEI!

Pubblicato in Missione Oggi

P. Stefano Camerlengo, Superiore Generale IMC

 

Carissimi, in questi giorni ho avuto la gioia di poter visitare i nostri missionari a Bayenga nel nord del Congo, dove da diversi anni in forma discreta alcuni nostri missionari lavorano nella foresta con il popolo dei pigmei. I pigmei sono il cosiddetto popolo della foresta, piccoli di taglia ma grandi nel cuore.

I pigmei sono molto probabilmente la popolazione più antica che abbia abitato le foreste equatoriali e tropicali africane.
Sui monumenti egiziani del secondo millennio a.C. compaiono notizie scritte nelle quali i Pigmei sono chiamati "Danzatori degli Dei" per la loro grande abilità nella danza.
I Pigmei hanno sempre ben accolto le popolazioni Bantu giunte nell'area tropico-equatoriale verso l'anno 1000 d.C., stabilendo con loro rapporti di scambio per baratto dei prodotti della caccia con i prodotti dell'agricoltura, praticata dai Bantu. Con il passare del tempo questo rapporto su base di parità si deteriorò a svantaggio dei Pigmei, perché i Bantu, profittando della loro superiorità tecnologica (arte metallurgica ignota ai Pigmei, nonché la tecnica agricola, poco nota e per nulla praticata dai Pigmei) ridussero in servaggio e spesso in schiavitù i Pigmei.
Soltanto in questi ultimi decenni, grazie all'intervento di missionari e antropologi, i Pigmei cominciano a godere di nuovo, ma a poco a poco, dei loro diritti umani, pur tra gravi violazioni ancora attuali di tanti loro diritti.

Condivido qui una loro storia, raccolta da un antropologo che ci aiuta a pensare e a sentirci più vicini sia a loro e sia ai nostri missionari che ne condividono la storia.

“ Prendi un’ascia, prendi la corda di liana. Segui il profumo che scende dall’albero. Con l’ascia scavi dei gradini nel tronco e cominci a salire. Quando sei in cima all’albero infili il braccio nell’alveare, cerchi con la mano, uno dopo l’altro stacchi pezzi di favo e li metti nella tua cesta di rami intrecciati. Questo lo fai dopo aver affumicato la bocca dell’alveare, ma prima che la notte ti cada addosso. Cercando di non perdere l’equilibrio. Strizzando gli occhi quando gli sbuffi di fumo e di api ti vengono in faccia, lassù sulle spalle della foresta a quaranta metri da terra.

Il miele lo dai a tuo suocero, mi spiega Abaì.

È quello che vuole il vecchio, dice, almeno per oggi. Quello che un ragazzo pigmeo deve fare per sposarsi, per avere in cambio la sua donna. Perché il padre della ragazza gliela lasci portare via, insomma. Ma non è solo una questione di miele.

Il vecchio ti chiede di fare una cosa, tu la fai. Abaì si ricorda bene di quel periodo.

Mi dice: per cominciare vai a vivere nel suo accampamento. Gli porti la scimmia catturata con la balestra, le uova di coccodrillo, le termiti, poi corri a cercare il tabacco lungo la pista, dai popoli bantu, perché lui ha voglia di fumare. Passano i mesi, arriva la stagione secca. Un giorno il vecchio vuole la capanna nuova, un altro giorno vuole un po’ d’acqua fresca e pulita direttamente dalla sorgente. Devi farlo contento.”

Si chiama mokokope, nella lingua dei pigmei Baka, ed è il lavoro che ognuno va a svolgere per la famiglia della ragazza che prenderà con sé. Lungo e faticoso finché si vuole, ma comunque volontario, e soprattutto temporaneo. Forse l’unica forma di lavoro che i pigmei abbiano mai inventato, nella loro lunga storia di popoli della foresta. Per il resto il lavoro, inteso come attività regolare alle dipendenze di qualcun altro (o di se stessi), è un concetto molto lontano dalla loro cultura. Una cosa senza senso per un popolo di cacciatori-raccoglitori, di certo contraria a qualsiasi idea di indipendenza, di autonomia, di vita libera da veri uomini della foresta.

Abaì mi porta nella capanna senza pareti dove gli uomini si ritrovano per conversare e fumare insieme il tabacco. Se la questione del cibo è risolta, se stamattina hai riempito una cesta di bruchi o di ignami selvatici o magari hai trovato una piccola antilope blu nella trappola, allora il resto della giornata puoi fare quello che ti pare. Puoi suonare l’arpa arcuata, farti un bagno al torrente. Puoi andare a trovare un amico al villaggio vicino o magari sederti con i tuoi figli accanto al fuoco, e ascoltare gli antichi racconti degli anziani, le storie di quando il dio Komba viveva nella foresta e gli animali erano persone. Puoi giocare. Puoi persino non fare niente.

Come per tutti i cacciatori-raccoglitori, anche per i pigmei la quantità di tempo libero a disposizione è infinitamente maggiore di quella degli altri popoli della terra, soggiogati dal lavoro nei campi da migliaia di anni o, più recentemente, da ripetitive e alienanti occupazioni dentro fabbriche e uffici.

Sono stati i popoli di coltivatori bantu, e poi i bianchi, a rompere la magia di un’esistenza libera da impegni e da padroni, e ad introdurre questa bella novità del lavoro nelle piantagioni, nelle segherie della foresta, nei bordelli. Oggi alcuni gruppi vivono ancora in parte di caccia e raccolta, ma i bantu di quelle stesse aree, quei giganti neri che si proclamano padroni dei pigmei, li hanno ormai trasformati quasi tutti in manodopera sottopagata.

D’altronde i pigmei sono come animali, dicono i bantu, se non li batti come animali non riuscirai mai a farli lavorare.

Insensibili al delirio del progresso, della crescita economica, dell’espansione materiale e culturale che caratterizzano da sempre la nostra esistenza, i popoli pigmei non hanno più un futuro su questo pianeta. Senza capi né denaro né guerre, le loro società sono fin troppo egualitarie, le loro istituzioni fin troppo aperte. Tutti in Africa vogliono che i pigmei abbandonino la loro vita in foresta e diventino qualcosa che non sono mai stati, lo vogliono i bantu, i governi, le compagnie del legno…

Eppure i popoli che vivono di caccia e raccolta costituiscono la forma umana di adattamento all’ambiente più efficace che sia mai esistita, l’unica in grado di resistere sul lungo periodo. E non solo per lo sfruttamento sostenibile delle risorse, ma ancor più per la qualità dei loro rapporti umani e della vita, per il rapporto equilibrato e profondo con l’ambiente naturale e con gli altri esseri viventi.

Un tempo il lavoro di un ragazzo come Abaì terminava con il premio della donna che amava, e con la nascita di una nuova famiglia.

Oggi quel ragazzo lo trovi lungo una pista, la schiena dolente per le bastonate dei suoi padroni, i piedi che si trascinano sulla terra rossa. Ha già bevuto vino di palma fino a vomitarlo, tutto quello che i bantu gli hanno dato come pagamento anticipato per il suo lavoro. Gli stessi bantu che ora lo aspettano alla piantagione, sicuri che lavorerà come si deve. Se ne ha abbastanza delle bastonate, se vuole ancora alcol e, puoi star certo che ne vuole ancora, non ci sono dubbi: il ragazzo lavorerà.

Con queste ed altre sfide e difficoltà i missionari devono confrontarsi e lottare per aiutare un popolo a recuperare la propria dignità, per inserire delle persone nell’ottica sociale e per condividere un cammino con gente “diversa” che comunque merita rispetto e che possono essere anche, per molteplici aspetti, maestri di vita nella convivialità delle differenze.

"Il primo bene comune è proprio la terra”

"Il primo bene comune è proprio la terra, il nostro pianeta, condizione per tutti gli altri beni. Appartiene all'universo, a sé stessa ed all'insieme degli ecosistemi che la compongono. Gli esseri umani non sono i suoi padroni, ma i suoi ospiti: per essere generatrice di vita ha la dignità ed il diritto di essere curata e protetta. La biosfera è un patrimonio che l'umanità deve tutelare. Questo vale per tutte le risorse naturali: l'aria, l'acqua, la fauna, la flora, i microorganismi ed anche per il mantenimento del clima. Per questo i cambiamenti climatici si devono affrontare globalmente, come una responsabilità condivisa..... gli altri beni pubblici che fanno parte di questo patrimonio comune al servizio della vita del pianeta sono il cibo, le sementi, l'elettricità, le comunicazioni, le conoscenze accumulate dai popoli e dalla ricerca scientifica, le culture, le arti, la musica, le religioni, la salute, l'educazione e la sicurezza.

Il secondo bene comune è l'umanità, con i suoi valori intrinseci come portatrice di dignità, coscienza, intelligenza, sensibilità, compassione, amore ed apertura verso il tutto. L'umanità appare come un progetto infinito e perciò sempre incompiuto. Il fecondo concetto di bene comune vieta, per esempio, che si brevettino le risorse genetiche fondamentali per l'alimentazione e l'agricoltura, mentre le scoperte tecniche brevettate devono sempre tener di conto di una destinazione sociale.

Appartiene al bene comune dell'umanità e della madre terra la convinzione che una energia benevola sia alla base di tutto l'universo, che sostenga ognuno degli esseri e che possa essere invocata, accolta e venerata". (Leonardo Boff)

 Follia....avarizia!

“Il mare conosce i suoi confini ,la notte non oltrepassa i limiti assegnati una volta per tutte; ma l’avaro non rispetta il tempo, non accetta il limite, non considera la possibilità di un’alternanza che sarebbe del tutto naturale, ma piuttosto preferisce imitare il fuoco che tutto afferra e tutto divora con voracità. Come i fiumiciattoli prodotti da una sorgente che via via crescono con l’aggiungersi di altri affluenti e si ingrossano enormemente trascinando con sé tutto quanto li intralcia o li raffrena, così anche i ricchi che hanno conquistato un gran potere si servono di coloro che hanno già oppresso per provocare ad altri danni ancora maggiori “.

“Hai una quantità enorme di ettari di terra arabile, altrettanta quantità di piantagioni. Hai monti, campi, valli, fiumi, prati di tua proprietà. Ma cosa ti resterà di tutto questo alla fine? Ti saranno sufficienti tre spanne di terra; e un piccolo mucchio di sassi sarà più che sufficiente a coprire il tuo povero corpo. Ma dimmi un po’: valeva proprio la pena affannarsi tanto? E poi, a quale scopo tanta cattiveria? Per ritrovarti con un pugno di nulla? Volesse il cielo che davvero tutto questo tuo affaccendarti fosse un nulla di fatto. La verità è invece tragicamente un’altra: ti sei procurato da solo la legna che ti brucerà in eterno. Dovunque volgerai i tuoi occhi scoprirai in quel giorno chiare e inconfutabili le motivazioni della tua condanna: qui lacrime di bambini, là gemiti di vedove, più in là volti di poveri da te malmenati, servi che hai ucciso, vicini che hai irritato. Ti accuseranno tutti e un coro minaccioso di gente vociante ti sbatterà in faccia le tue cattiverie…Come potrei dipingerti veramente al vivo tutte le orribili cose che ti toccheranno? Dunque se ascolti, se riesci a piegarti, ricordati di quel giorno in cui l’ira di Dio si rivelerà, ricordati del giorno tremendo del ritorno glorioso di Cristo…Queste cose ti creino dentro tristezza e non ti rattristerà  il  comandamento…Ma se neppure tutto questo ti smuove, allora il tuo cuore è veramente di pietra”. (Basilio di Cesarea)

Missione come promozione del povero nella sua cultura

L'evangelizzazione riguarda l'integrità della persona e della società, per cui la missione è un'opera di umanizzazione, “dignificazione” e accompagnamento nella liberazione degli esseri umani dalle diverse forme di schiavitù. L'alterità dà un elemento nuovo all'opzione per i poveri, cioè l'opzione per gli altri, perché i poveri materiali hanno identità culturale e si presentano al tavolo del dialogo interculturale con qualcosa da offrire. Liberazione e alterità sono intimamente intrecciate.

La missione deve pure proclamare "la cultura dei poveri" con le sue luci e le sue ombre. Indigeni e neri non sono solo impoveriti e vittime, ma anche portatori di valori e beni umanizzanti, a partire dalle loro culture. La Chiesa deve sostenerli nelle loro lotte di liberazione e rivendicazioni culturali, come popoli, disponibile a ricevere da loro la forza dello Spirito. Questi popoli non hanno bisogno di intermediari che parlino per loro, basta ascoltarli. La Chiesa deve passare da una posizione paternalista a una liberatrice, dall'idea che le altre culture siano bisognose a quella che possano offrire umanizzazione, da una religiosità indigena a religioni proprie. (Santo Domingo 1,4.4 138).

Nuovi atteggiamenti nella pratica missionaria

La relazione interculturale esige dalla Chiesa canali, criteri di spiritualità e pratica dialogica. Decisiva è la testimonianza cristiana di amore, misericordia e solidarietà, nata dalla convinzione del bene del Vangelo di Cristo, a partire da un atteggiamento kenotico. Nel dialogo interculturale si chiede prima di tutto la convinzione del valore della propria cultura senza complessi di superiorità o centralità. L'interlocutore cristiano condividerà l'esperienza del Vangelo, di Dio nella persona di Cristo, aprendosi senza pregiudizio al pensiero altrui, per favorire un ambiente di reciproco coinvolgimento, riconoscendo il "passaggio di Dio" nella vita dei soggetti. La convinzione della verità e della dignità de "gli altri" per l'intercomunicazione e l'interazione non obbliga a diluire le differenze. Non si pretende la conversione degli altri, in quanto rifiuto di ciò che è loro proprio, ma la convinzione di "dono" e bene di quanto è cristiano.

 È necessario un cammino di avvicinamento agli altri, nelle loro gioie e speranze, nei loro codici, valori, lingua e spiritualità, affinché la presenza cristiana sia una facilitazione e un rafforzamento delle diverse culture. Si deve avere coscienza che una relazione interculturale porterà con sé mutamenti significativi per la Chiesa, perché tocca tutti i partecipanti. Il dialogo non è un mero condividere e comunicare pensieri, ma essere disponibili al cambiamento e scoprire nuovi spazi di realizzazione. Essi ci fanno riconoscere che anche la Chiesa è discepola e recettrice di altre voci dello Spirito.

 

Coraggio e avanti in Domino!

 

Padre Stefano Camerlengo

 

Kinshasa 20.12.2013

 

 

 

 

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:35

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