…ANCORA SUL L'INTERCULTURALITA' GRANDE OPPORTUNITA' PER LA CHIESA E PER L'ISTITUTO!

Pubblicato in Missione Oggi

Padre Stefano Camerlengo, IMC

 

Missionari carissimi, visitando le comunità ed incontrando i missionari spesso riecheggia questo ritornello: e che ne è stato dell'interculturalità? Abbiamo dedicato due anni, un Biennio prima del Capitolo e poi,…che?

Confesso che questa affermazione mi fa soffrire perché rivela una difficoltà autentica che abbiamo di riflettere e condividere su questo tema. Tuttavia siamo tutti d'accordo che su questo tema ci “giochiamo” il futuro delle nostre comunità. L'Istituto è sempre più espressione della Chiesa pluriculturale ed è nella costruzione di autentiche relazioni, valorizzando la ricchezza di ogni cultura e persona, che costruiremo comunità credibili e testimoni.

Con questa riflessione vorrei “riaprire” il dialogo e la condivisione affinché nello scambio fraterno costruiamo l'interculturalità. In questo cammino non siamo soli, la Chiesa del Papa Francesco sta lavorando per il rinnovamento ecclesiale tenendo conto della diversità e del contributo culturale di tutti i popoli. Anche noi mettiamoci in cammino e siamo solidali con i tanti che costruiscono il Regno.

 

Riconoscere e confrontarsi con le nuove sfide della Chiesa

Il Concilio Vaticano II ha assunto la prospettiva della "Chiesa-comunione" aperta al mondo, per cui l'inculturazione ha affermato la neutralità del Vangelo davanti a ogni cultura, ma, al contempo, l'esigenza di incarnarsi in ognuna senza supremazie. La comunione ecclesiale si farà visibile nella "unità nella diversità", come riflesso del mistero trinitario, nello sviluppo delle Chiese locali in ordine a una maturazione della fede e della sua interrelazione con la pluralità culturale. Però la collegialità, il rafforzamento degli spazi di comunione, lo sviluppo della teologia della Chiesa locale, l'apertura al dialogo ecumenico e macroecumenico sono solo all'inizio. I condizionamenti della struttura istituzionale della Chiesa sono evidenti. Non è stato avviato ancora un modello ecclesiale coerente con la natura di Chiesa-comunione aperta e in dialogo col mondo. L'interculturalità, come invito a promuovere una relazione equa, bussa alla porta della Chiesa e la impegna a rendere possibile un modello maggiormente comunionale, liberandosi da relazioni diseguali tra i diversi settori e vocazioni cristiane. La Chiesa, a partire dalla luce e dalla grazia del Vangelo, deve andare oltre una semplice democrazia, per vivere senza paura la fraternità, che valorizza e stimola capacità e contributi di tutti per il bene comune.

 

Il dialogo nella vita della Chiesa

Il dialogo interculturale conduce all'accettazione reciproca e all'interscambio di punti di vista al fine di impostare l'interrelazione di modi di vita, così che ogni interlocutore possa riconoscere il bene e la verità degli altri ed esserne toccato.

In questa prospettiva diventa necessario in primo luogo promuovere le Chiese locali e le comunità locali di consacrati. Esse sono le autentiche storicizzazioni della Chiesa di Cristo. Ogni Chiesa locale è il soggetto primario dell'inculturazione, che deve maturare nella vita e nel cammino della fede, nella celebrazione, nei ministeri, nella spiritualità, nell'impegno per la carità e la giustizia. La relazione dialogica tra le Chiese locali può rendere visibile l'unità nella diversità e una Chiesa di Cristo che vive nella molteplicità culturale. Ciò richiederà una riflessione teologica più approfondita e una normativa canonica di libertà e creatività nello spirito di comunione della Chiesa universale. L'interrelazione delle Chiese locali richiama uno sviluppo della collegialità, che equilibri l'esercizio dell'autorità.

In secondo luogo si tratta di superare i binomi che screditano la comunione. L'ecclesiologia conciliare ha riscattato il sacerdozio comune dei fedeli.  Perciò la teologia ha parlato dei binomi chierici-laici, religiosi-laici, gerarchia-religiosi e laici, come riflesso di relazioni lontane dalla fraternità. Se la Chiesa vuole testimoniare di fronte al mondo la comunione interna, deve superare le differenze "classiste" tra le diverse forme di vivere la vocazione, recuperare effettivamente la condizione di Popolo di Dio, facilitare il protagonismo laicale e superare il clericalismo, instaurare un vero dialogo tra gerarchia a popolo, oltre ad assumere con coraggio il contributo della donna.

In terzo luogo bisogna scommettere su un autentico pluralismo intraecclesiale, che si traduce in attenta valorizzazione delle differenze, in una comunione che assume e valorizza la partecipazione e il contributo di ciascuno. Oggi è necessario un mutamento che avvicini la Chiesa all'immagine di "Chiesa di Chiese", di Chiese locali in comunione.  Il pluralismo esige un rinnovamento delle strutture. L'interculturalità è un processo dialogico di costruzione della comunione nella pluralità. Non delegittima il ministero gerarchico, ma lo chiama a una conversione nell'esercizio dell'autorità.

Infine si tratta di affermare e valorizzare il diritto dei soggetti culturali. Individui, collettività e popoli rivendicano oggi il diritto a partecipare alla costruzione delle società. L'istituzione ecclesiastica deve assumere con gioia l'essere e l'attività dei laici, recuperare la ricchezza plurale delle comunità cristiane di base e aprire lo porta al contributo delle culture e dei popoli. La Chiesa deve testimoniare che il Vangelo passa necessariamente per la cultura e la dignità dell'essere umano porta a riconoscere il bene e la verità della sua identità culturale e la necessaria reciprocità con la fede. Perciò deve far sì che ogni collettività/comunità/popolo si senta a casa propria, nel proprio "ambiente culturale". La Chiesa deve essere la "casa grande" in cui tutti condividano i propri doni e realizzazioni senza sentirsi stranieri o tentati di mantenere un dualismo tra la loro cultura e la fede.

 

La missione a partire dall'interculturalità

La molteplicità delle culture e il pluralismo religioso impongono di ridefinire la missione. La Chiesa riconosce che esistono diverse culture e religioni come manifestazioni ontologiche degli esseri umani riuniti in società. È più cosciente della necessità di coinvolgersi nel dialogo, nell'urgenza della missione. Sa che non è l'esclusiva espressione di fede nel mistero divino e i semi del Verbo danno anche frutti fuori dall'istituzione ecclesiastica.  Ugualmente le culture, coi loro valori e realizzazioni, sono espressioni collettive dell'umanesimo, che nascono al di là dell'attività della Chiesa e la sfidano a riconoscervi il dono di Dio. La missione diventa incontro per una sintesi tra Vangelo e culture e una riespressione della fede all'interno di matrici culturali diverse; diventa dialogo tra soggetti, nella promozione della dignità e dei diritti delle culture con la luce e l'annuncio del Vangelo, accompagnandole criticamente per la loro liberazione integrale. Non si rinuncia a proclamare l'offerta di Gesù, ma senza violentare i processi endogeni delle culture dei popoli. La missione è, alla fine, una presenza rispettosa, aperta e recettiva ai valori culturali. In alcune situazioni ci si servirà dell'interculturalità come strumento relazionale, in altre si manterrà il proposito dell'inculturazione. Nel primo caso la missione sarà incontro, evitando di travasare un modello in un'altra cultura, la plantatio Ecclesiae come di solito intesa. La relazione dovrà consistere, da parte cristiana, nell'accogliere altre voci dello Spirito, in una compagnia dei processi endogeni della stessa cultura, autonoma, da cui la Chiesa sarebbe arricchita. Nel secondo si proporrà l'incarnazione della fede in queste culture per far nascere nuove forme di Chiesa, autoctona.  Assumere l'interculturalità implica promuovere il dialogo, che chiede uguaglianza, simmetria, apertura, sincerità, interscambio, empatia. La Chiesa deve prendere coscienza che lo Spirito agisce prima che il missionario proclami la Buona Notizia, accettare che la salvezza, come grazia di Dio, può arrivare non esclusivamente dalla Chiesa e dal cristianesimo, ammettere che tutte le esperienze e relazioni culturali e religiose apportano verità alla Grande Verità di Dio e dell'essere umano. Di conseguenza il messaggero cristiano è un testimone, che ascolta e facilita "gli altri", poiché proclama Cristo, ma riconosce l'opera di Dio in altri spazi, popoli e culture.

 

Nuovi atteggiamenti nella pratica missionaria

La relazione interculturale esige dalla Chiesa canali, criteri di spiritualità e pratica dialogica. Decisiva è la testimonianza cristiana di amore, misericordia e solidarietà, nata dalla convinzione del bene del Vangelo di Cristo, a partire da un atteggiamento kenotico. Nel dialogo interculturale si chiede prima di tutto la convinzione del valore della propria cultura senza complessi di superiorità o centralità. L'interlocutore cristiano condividerà l'esperienza del Vangelo, di Dio nella persona di Cristo, aprendosi senza pregiudizio al pensiero altrui, per favorire un ambiente di reciproco coinvolgimento, riconoscendo il "passaggio di Dio" nella vita dei soggetti. La convinzione della verità e della dignità “degli altri" per l'intercomunicazione e l'interazione non obbliga a diluire le differenze. Non si pretende la conversione degli altri, in quanto rifiuto di ciò che è loro proprio, ma la convinzione di "dono" e bene di quanto è cristiano. È necessario un cammino di avvicinamento agli altri, nelle loro gioie e speranze, nei loro codici, valori, lingua e spiritualità, affinché la presenza cristiana sia una facilitazione e un rafforzamento delle diverse culture. Si deve avere coscienza che una relazione interculturale porterà con sé mutamenti significativi per la Chiesa, perché tocca tutti i partecipanti. Il dialogo non è un mero condividere e comunicare pensieri, ma essere disponibili al cambiamento e scoprire nuovi spazi di realizzazione. Essi ci fanno riconoscere che anche la Chiesa è discepola e recettrice di altre voci dello Spirito.

 

L'Istituto, le comunità, ogni missionario

Noi come Missionari della Consolata, siamo espressione di un Istituto interculturale e anche di una missione interculturale, per questo siamo invitati ad entrare in questo processo e cammino affinché l’interculturalità diventi davvero il nostro nuovo orizzonte missionario. Propongo qui alcune riflessioni e proposte presentate nella Magna Charta durante il Biennio sull'interculturalità e che possono aiutare i cammino!

Alcuni principi concreti

L’XI Capitolo generale ci invita ad essere uomini di comunione nella diversità. Lo scopo del nostro vivere insieme è la missione. Lavoriamo col metodo della comunione, “tutti per uno e uno per tutti”, “in comunione di intenti” e con “spirito di corpo” (cf. XCG 19).

Per realizzare la comunione nella fraternità interculturale, vogliamo sottolineare alcuni principi concreti che possono aiutare la nostra vita comune e lavorare in unità di intenti:

l ricordare che, nello spirito del vangelo, il conflitto di idee non diviene mai conflitto di persone;

l richiamare che la pluralità di prospettive favorisce l'approfondimento delle questioni;

l favorire la comunicazione, così che il libero scambio di idee chiarisca le posizioni e faccia emergere il contributo positivo di ciascuno;

l aiutare a liberarsi dall'egocentrismo e dall'etnocentrismo, che tendono a riversare sugli altri le cause dei mali, per arrivare ad una mutua comprensione;

l rendere consapevoli che l'ideale non è quello di avere una comunità senza conflitti, ma una comunità che accetta di affrontare le proprie tensioni per risolverle positivamente, cercando soluzioni che non ignorino nessuno dei valori a cui è necessario fare riferimento.

Imparare l’arte del dialogo
usando “chiarezza, mitezza, fiducia, prudenza”

I nostri rapporti comunitari devono sapere attingere alcune caratteristiche che affondano nel Vangelo la loro ragion d’essere. Ce le suggerisce ancora Paolo VI nell’Ecclesiam suam (EV II, 196):

l La chiarezza:  essa rifugge da ogni ambiguità e doppiezza. Il dialogo vero si deve esprimere sempre nella verità e in un linguaggio diretto e comprensibile.

l La mitezza: è un atteggiamento di vitale importanza. Essa rigetta ogni imposizione e violenza, rispetta l’altro, accoglie in ogni momento, cerca sempre di costruire ponti. Nasce anche dalla consapevolezza che Dio lavora nel cuore di ogni persona e pertanto uno non può aspettarsi più di quanto l’altra persona può dare. Cristo Gesù ce ne ha dato l’esempio, lui che ha detto: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29). La mitezza insegna allora che il dialogo non può mai essere orgoglioso, pungente, offensivo. L’autorità di una persona risiede nella verità che espone, nella carità che diffonde e nell’esempio che propone.

l La fiducia: il dialogo inizia quando l’individuo non soltanto si basa sulle proprie convinzioni personali, ma dà piena fiducia alla controparte. Tale fiducia permette di utilizzare piena franchezza, senza venire meno alla legge dell’amore. Gli interlocutori infatti non guardano a se stessi, ma ricercano il bene superiore.

l La prudenza: è una grande sfida per chi desidera intavolare un dialogo serio e costruttivo. Essa fa riferimento al discernimento che è sempre un cammino laborioso e lento verso verità. La prudenza ci rimanda inoltre alla ricerca del ritmo più adatto a chi ci ascolta, con rispetto ed empatia verso qualsiasi interlocutore.

 

Artefici di riconciliazione e di pace

Gesù Cristo è pienezza di vita,  unifica le etnie e i popoli, e riconciliandoli con il suo sangue fa di loro una sola famiglia. Il suo amore riversato nei nostri cuori è capace di riconciliarci gli uni con gli altri. Elemento quindi fondamentale per la spiritualità dell’interculturalità è il diventare artefici di riconciliazione e di pace, sempre capaci di perdono.

 Il termine riconciliazione non significa unicamente ristabilire la pace nei cuori: ciò che importa è ristabilire una relazione normale, la comunicazione interrotta, il superamento della disputa. In questa prospettiva, la riconciliazione ha un volto concreto ed è un linguaggio per apprendere a vivere con e nella pluralità, a gestire pacificamente i conflitti. E’ qui che acquista tutto il suo significato, per una pratica della riconciliazione, la forte affermazione di Benedetto XVI: “il sangue versato non grida vendetta, ma invoca rispetto della vita e pace!”

Il perdono sottolinea il travaglio interiore della persona per ritrovare la pace, per lenire la ferita. E’ nel perdono che si offre la possibilità di una vera purificazione della memoria e di una pace salda. La richiesta di perdono, e la concessione del perdono, sono elementi indispensabili della pace. La memoria ne resta purificata, il cuore rasserenato, e si fa limpido lo sguardo su ciò che la verità esige per sviluppare pensieri di pace. Ciò richiede, da parte della Chiesa, una pastorale dinamica per condurre i colpevoli a un processo di conversione e di riconoscimento dei propri errori o dei propri crimini, ma anche per aiutare le vittime ad accordare generosamente il proprio perdono.  Bisogna sapersi liberare e liberare dei rancori, seguendo l’esempio del Maestro che sulla croce dona in abbondanza il proprio perdono ai suoi aguzzini: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc. 23, 34).

Riconciliazione significa rimuovere il lutto causato da tante inimicizie. Dopo gli orribili drammi che il mondo sta vivendo, dovremo riscoprire il senso profondo della preghiera del Padre nostro: “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Il perdono in questa umanità dominata dalla violenza non è certo facile, tuttavia Dio chiede di perdonare. Egli non vuole che si dimentichi, ma che ci si riconcili con gli aguzzini. Solo la vittima può fare il primo passo, solo essa può perdonare. Il perdono è qualcosa di divino e forse è perdonando che la persona somiglia di più a Dio.

( dalla Magna Charta dell'interculturalità, Roma 2006)

 

Conclusione

L’interculturalità così pensata ed attuata c’invita ad una autentica conversione sulla scia dell’ultimo Capitolo Generale. In questo tempo che, è il nostro, siamo chiamati a vivere un nuovo tipo di missione fatta più d’incontro in umiltà che di prediche e costruzioni materiali. La debolezza della croce sarà il segno più forte e grande del nostro essere missionari consacrati per la consolazione dell’umanità. L’augurio è che sappiamo imparare l’arte dell’ascolto e del dialogo affinché la nostra multiculturalità si possa convertire in interculturalità, nuovo paradigma della nuova missione di oggi.

 

A tutti e ad ognuno: coraggio e avanti in Domino!

 

Padre Stefano Camerlengo

 

 

 

Roma 27.08.2013, memoria di Santa Monica!

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:35
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