E’ TEMPO DI PENSARE TUTTO DI NUOVO

Pubblicato in Missione Oggi

Gabriele Ferrari

 

Non ètempo di conservazione e di documenti e neppure tempo di cure palliative, ma di un ritorno all'essenziale della missione che deve essere ripresa, libera dalle nostre precomprensioni. Abbiamo bisogno di uno scattoe di un nuovo fervore. Una riflessione di p. Gabriele Ferrari.

Il prossimo XVI Capitolo generale dei saveriani è ormai alle porte ed è necessario chiederci se sarà un capitolo costruttivo o se sarà un capitolo, come altri, che non hanno lasciato una traccia significativa nel nostro Istituto. Sarebbe davvero un peccato in tutti i sensi e sotto tutti i punti di vista! In questi ultimi quarant'anni abbiamo celebrato sette capitoli e scritto molti documenti, eppure oggi ci troviamo a segnare il passo e quasi in un impasse, a un punto morto, che non ci lascia tranquilli. Che cosa è mancato? Che cosa ci manca? Non intendo lanciare pietre contro nessuno, perché l'Istituto è anche mio... ma proprio questo legittima la mia domanda.

Di certo non ci mancano i documenti e, guarda caso, il prossimo Capitolo dovrà esaminarne e approvarne un altro, di grande importanza, la Ratio formationis. Sull'onda del 50° del concilio, viene spontaneo un parallelo con la Chiesa e il concilio. Mai come oggi la Chiesa ha avuto tanti documenti e tanto magistero, diceva nel 1984 Giuseppe Dossetti, con la lucidità e la schiettezza che lo caratterizzavano: «Al concilio si sta sostituendo una pleiade di documenti che non sono nemmeno letti dai vescovi, tanto meno dagli altri».  Il quale non ne contestava la legittimità e neppure l'utilità. Sono ricchi e suggestivi nei loro approcci e, continuava don Dossetti, «bisogna averli nella propria biblioteca, ma nessuno li legge». Perciò è come non ci fossero, perché non vengono messi in pratica. Siamo, secondo Dossetti, all'anomia, non perché manchino le norme, ma perché, paradossalmente, sono troppe e non dicono più nulla. In realtà, volendo dire tutto di tutto, si perde il punto focale, cioè il cuore dei problemi. In un mondo frammentato che conduce alla dispersione, non servono nuovi stimoli, ma una prospettiva e un orizzonte unificante. Per questo motivo Lazzati, in dialogo con Dossetti, suggeriva di ritornare alle ispirazioni del Concilio, di leggerne e approfondire con pazienza e intelligenza spirituale i testi, alla ricerca dell'essenziale e puntare alla formazione delle persone.

Il rischio di girare attorno agli stessi problemi

Questo vale anche per noi Missionari Saveriani alla vigilia del XVI Capitolo Generale. La Direzione ha preparato l'agenda del Capitolo. Si tratta di problemi veri e urgenti, ma... sono sempre quelli! Che cosa diremo di nuovo? Ciò di cui abbiamo bisogno è uno scatto, una spinta verso l'essenziale, verso quel centro unificatore della vita e della missione che ci permette di ritrovarne la bellezza, quella che parla al mondo di oggi. Bisogna rimetterci in ascolto dello Spirito. Si dirà: non è forse ciò che abbiamo fatto sempre nei capitoli generali e locali e nelle assemblee a livello generale e regionale? Sì, eppure ciò che abbiamo fatto non basta, almeno a giudicare dai risultati e dalla situazione di stanchezza che si sente tra noi.

Forse non tutti saranno d'accordo, ma io temo che questo XVI Capitolo si concluderà ancora una volta con un altro documento che finirà nell'archivio, ma non nel vissuto, che se la prenderà ancora con l'individualismo, esalterà le potenzialità della multiculturalità, sognerà una nuova vita comunitaria, lamenterà le incomprensioni della chiesa locale, esorterà tutti a una puntuale gestione del denaro, ricorderà la difficile pastorale vocazionale nel mondo occidentale nonché i limiti e le insufficienze delle teologie internazionali e via dicendo. Ma questo non cambierà nulla e tutto continuerà poi come prima col rischio di aggravare la frustrazione e la stanchezza di chi lavora nella formazione e nell'animazione vocazionale, oltre che la sofferenza inespressa dei confratelli. Ci sarà magari un rinnovato ringraziamento per la canonizzazione del Fondatore, anche se, passata la stagione celebrativa, essa non si rivela in grado di incidere nella vita dell'Istituto.

Questa situazione di disagio e di povertà che stiamo vivendo è certamente dolorosa, ma può essere una vera grazia che ci toglie dall'autosufficienza e dall'autocelebrazione e ci fa capire che è un inutile e pericoloso accanimento terapeutico far sopravvivere ciò che è arrivato a conclusione, che ci costringe invece a individuare un nuovo orizzonte per la vita saveriana secondo l'attuale momento storico e il carisma dell'Istituto. Non è tempo di conservazione e di documenti e neppure tempo di cure palliative, ma di un ritorno all'essenziale della missione che deve essere ripresa, libera dalle nostre precomprensioni, con nuovo fervore. È ora di pensare tutto di nuovo.

La missione del passato è ormai finita

Infatti, la missione che abbiamo conosciuta è finita. Se non lo vediamo noi, ce lo dicono i preti locali che considerano noi missionari come i rappresentanti di un mondo irrimediabilmente passato. La missione ad gentes oggi segna il passo e non incide più, non ha più quella carica... sovversiva, in grado di "sconvolgere" la cultura (diceva Paolo VI, EN 19). Essa procede ancora per inerzia, ma si sta estinguendo. Ce lo mostra anche l'incapacità della Santa Sede di trovare un cammino nuovo e coerente per l'evangelizzazione: perché il papa ha dovuto creare un nuovo dicastero per la nuova evangelizzazione quando ne esistono già due, Propaganda Fide e il Consiglio del dialogo interreligioso, che potrebbero assumerla? Siamo - è bene affermarlo senza ambiguità - a un impasse della missione, perché la missione, come noi la conosciamo e la pratichiamo, ha fatto il suo tempo, è arrivata al capolinea e ora deve essere impostata diversamente: nuovi destinatari, nuovi metodi, nuove finalità. E qui viene quello che io ritengo sia l'essenziale.

La missione non ha più come obiettivo di allargare le frontiere della Chiesa o di accrescere il numero di chi di si fa battezzare. Se questo fosse, sarebbe un conto fallimentare... se vogliamo essere onesti. La Chiesa cresce di numero in assoluto, ma cala in proporzione della popolazione mondiale. La missione della Chiesa deve invece ritrovare la forza degli inizi, il suo nucleo genuino, il kerygma e la predicazione del Regno, il dono della vita, la divinizzazione dell'umano. "Annunciare il Vangelo è la natura profonda della Chiesa" (EN 14). Il resto è di contorno e di... disturbo. Le comunità cristiane si costruiranno da sole grazie all'attività pastorale delle chiese locali (ce ne sono già quasi tremila!). Coloro che hanno ricevuto il carisma e il ministero dell'evangelizzazione devono ritornare al Vangelo vissuto e mostrato, senza propaganda ma nella testimonianza ("meno militanza e più testimonianza" scrive il Card. Scola, persona al di sopra d'ogni sospetto!). È ora che noi lasciamo le nostre case religiose e ritorniamo in mezzo ai "lontani" (poveri, non-cristiani, emarginati, coloro che attendono attenzione dal mondo che non gliela dà!) senza pretese di aver delle strutture nostre, senza protagonismi e senza volontà di potenza, ma vivendo umilmente il Vangelo del Regno, il servizio all'uomo come Gesù ce l'ha insegnato. Non sarebbe ora che vivessimo finalmente quegli ideali che tutti i Capitoli ci hanno sempre fatto brillare (anche l'ultimo... "l'oggi della missione") senza riuscire a realizzarli? E che li vivessimo soprattutto in povertà. Sono convinto che solo quando saremo semplicemente poveri, potremo parlare di nuovo di Dio e del Regno al mondo in modo credibile. Questo è l'essenziale che mi piacerebbe vedere emergere nel prossimo Capitolo. Solo così sarà un Capitolo costruttivo che rilancerà la missione. Il resto è importante ma... solo di contorno. Questo invito al radicalismo evangelico, mi pare di cogliere nella parola di Gesù all'uomo ricco che cercava una scorciatoia per la vita eterna: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai, dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi" (Me 10,21). Un invito a mettersi alla scuola di Gesù e a prendere sul serio le sue proposte.

"Il va sans le dire" (va da sé) che questa ricerca dell'essenziale ci tocca personalmente, perché non potremo mostrare e testimoniare il Vangelo ai lontani, se non saremo noi stessi dei testimoni convinti e gioiosi, credibili. La testimonianza della nostra consacrazione è il primo contenuto della missione. A costo di scandalizzare, vorrei suggerire di mettere per un po' da parte la ricerca della specificità saveriana e anche il ritorno al Fondatore che ha caratterizzato questi ultimi anni, per ritrovare e assodare il fondamento della vita cristiana. Scrive p. Marko Ivan Rupnik: «Invece di sforzarci anzitutto di introdurre i giovani nella tradizione dell'ordine o della congregazione, nell'acquisire determinati atteggiamenti o abitudini, forse sarebbe meglio preoccuparci per prima cosa dell'autenticità del loro incontro con Dio e della maturità della loro fede. Chi non ha esperienza che è amato da Dio non può annunciare l'amore di Dio. L'uomo che non ha esperienza dell'amore di Dio sarà capace di utilizzare anche la sua vita religiosa per affermarsi, per dimostrare la giustezza delle sue idee, delle sue azioni, per attirare il riconoscimento degli altri. Invece di offrire loro tante esperienze e letture senza una vera pedagogia spirituale, che sono una sorta di girovagare tra i contenuti dell'esperienza religiosa, sarebbe forse più opportuno iniziarli in modo esperienziale e razionale alle dimensioni fondamentali della fede».

Comunità nuove con persone rinnovate

Una seconda affermazione altrettanto ovvia: questo ritorno al Vangelo ha bisogno di comunità convinte, di superiori che le animino e di un chiaro progetto comunitario di vita. So che il discorso sul rinnovamento delle strutture ci trova, in generale, piuttosto allergici o scettici, ma finché il primato del Vangelo non si traduce in forme istituzionali, per quanto minime ed essenziali, e in comunità concrete che lo vivano coerentemente, esso rischia di rimanere per aria, soggetto ad opposte e contrastanti interpretazioni. Per questo ci vogliono delle comunità nuove. Qui il discorso si fa complesso e articolato e un articolo come questo rischierebbe di diventare... un libro. Mi limiterò a qualche accenno.

Se vogliamo delle comunità nuove, ci vogliono delle persone rinnovate, umanamente e spiritualmente mature, capaci di stare sulle proprie gambe, aperte e disponibili per questo nuovo tipo di presenza, disposte a far tutto questo insieme con gli altri, persone che continuino la loro formazione fino alla fine. Non basta avere delle persone che pregano molto né persone titolate; ci vogliono persone capaci di discernimento, in grado di trasformare la preghiera (la ricerca di Dio) in scelte e impegno per il Regno. I responsabili della comunità, con senso di carità e verità, devono invitare certe persone a farsi da parte se non se la sentono di rinnovarsi in un programma di formazione permanente, perché non è giusto fare di una comunità apostolica una comunità terapeutica! Ogni realtà ha un suo fine e, senza condannare nessuno, certe persone che non hanno possibilità di entrare nel "nuovo", devono essere coraggiosamente tenute fuori.

Oggi è tempo di essenzialità, di ricerca di Dio, di ascolto dello Spirito e di ascolto reciproco, di confronto e di discernimento spirituale in vista della missione. È tempo di formazione, perché impegnarsi in forme diverse da quelle tradizionali richiede una riqualificazione delle persone. L'impressione è che il nostro Istituto ha investito molto nella ristrutturazione delle cose, ma le persone sono state lasciate andare per la loro strada. È ora che l'Istituto si rimetta a fare qualche cosa per i confratelli per dare loro un orientamento chiaro in vista di investire fruttuosamente quel bagaglio di grazia che è la vocazione. La formazione permanente in un tempo di rinnovamento è cruciale. Bisogna aiutare i confratelli a quell'autoformazione di cui si parlava qualche anno fa e che in seguito è stata, giustamente, messa da parte per gli equivoci ideologici che il termine conteneva. Oggi è ora di rivisitarla non come una presuntuosa autorealizzazione, ma come l'umile riconoscimento del bisogno che tutti abbiamo di un discepolato permanente di cui siamo tutti e ciascuno responsabili. Questo ci permetterà di ritrovare il vero senso della vita consacrata per la missione.  (p. Gabriele Ferrari sx, in Testimoni, 5/52013)

 

I Comboniani riflettono sulla missione oggi

NUOVI CONFINI DA ATTRAVERSARE

Se il ruolo degli Istituti missionari si è finora giocato in un'azione di animazione in vista di una missione altrove, ora esso va reinterpretato come "presenza evangelizzatrice". È infatti il regno di Dio a essere posto al centro della missione al di là di ogni confine e di ogni barriera.

Alcuni membri della famiglia comboniana, rientrando in Europa per compiti di animazione missionaria, hanno avvertito l'urgenza di dar vita a una riflessione più sistematica sulla missione e sul ruolo degli Istituti missionari soprattutto nel nostro occidente. Con l'apporto di specialisti provenienti anche da altre istituzioni ecclesiali e laiche i primi risultati del lavoro decennale di questo gruppo di ricerca, contenuti nel volume dal titolo Essere missione oggi (Ed. Emi, 2012), rimarcano il dato che la globalizzazione ha ridisegnato i confini della missione, non solo quelli geografici, ma anche quelli antropologici, culturali, sociali, economici, etici e religiosi, fino a trasformarla in quella che possiamo oggi definire la "missione globale" (worldwide mission).

Non si tratta dunque solo di superare il modello gerarchico-piramidale della classica missione sorta per impiantare la Chiesa(plantatio ecclesiae), ma di elaborare una nuova teologia dell'evangelizzazione, permeata dello spirito del Vaticano II, chiamata a declinare e accogliere diversi prismi di lettura, promuovendo una convergenza nell'obiettivo della missione e un parallelismo nell'approccio locale e culturale. Una nuova elaborazione necessaria ai consacrati per superare il disagio di fronte alla fluidità del mondo contemporaneo e per essere sostenuti nella fatica del discernimento e della costante qualificazione.

Un nuovo immaginario missionario

Si tratta anche di aprire spazi di condivisione con tutte le forze missionarie per immaginare un nuovo paradigma fondato su tre pilastri principali: la riflessione sui segni dei tempi, l'approfondimento della parola e della prassi del Gesù storico, la lettura contestuale della propria eredità carismatica.

Tra i segni dei tempi che soprattutto sfidano gli istituti missionari, il loro stile di vita e la loro presenza nelle Chiese locali se ne sottolineano tre: la mobilità umana in tutte le direzioni del globo e all'interno stesso di molti paesi, fatto che sollecita al complesso dialogo interreligioso e interculturale; la legge del mercato che ha aumentato la forbice tra ricchi e poveri, ha generato la corsa all'accaparramento dei beni comuni di suolo e sottosuolo, finendo per privilegiare la speculazione finanziaria piuttosto che l'economia reale; la questione socio-ambientale che in pochi decenni ha dilapidato le risorse del pianeta, creando cambiamenti climatici e accelerando disastri ecologici.

Di fronte a questo scenario la missione diventa invito a cambiare stile di presenza e di fede, a cogliere e condividere le sofferenze di vecchi e nuovi poveri, a evangelizzare il sistema economico. La visione profetico-sapienziale della complessità stimola i missionari a non riproporre approcci di lettura e di interpretazione stereotipati, bensì a favorire la pluralità di vedute e di interpretazioni, creando spazi a nuove prospettive come quella interculturale, laicale e al femminile.

Un tale rinnovamento prospettico spinge naturalmente ad approfondire anche il livello di identità di ogni missionaria/o. Si registra in questo senso una nuova ermeneutica delle quattro caratteristiche della missione: ad gentes, ad extra, ad vitam e ad pauperes. L'ad gentes è elemento messo in crisi dal crollo della distinzione tra paesi cristiani e paesi di missione, tra chi è inviato ad annunciare la Parola e chi deve accoglierla, e diventa di fatto l'atteggiamento di accoglienza di ogni persona. L'ad vitam va compreso anche come disponibilità a servire la vita in ogni tappa, dal concepimento alla morte, facendosi promotori della dignità e del valore di ogni persona. L'ad extra va reinterpretato oggi come esodo dai propri schemi culturali e apertura all'altro, senza preconcetti di razza, genere, religione e stato di vita. L'ad pauperes infine include l'opzione dei nuovi poveri (anche giovani), soprattutto quelli prodotti dalla legge del mercato globale.

Come si può vedere una nuova coscienza delle alterità trasforma i "confini" da attraversare: si passa da confini geografici a confini antropologici, nel senso di una uscita fuori da se stessi verso gli altri. Con un simile stile di "esodo" ogni missionaria/o assume il compito cruciale del "mediatore" che si muove sul territorio per promuovere l'integrazione del diverso e dell'emarginato che ormai si incontrano in ogni ambiente.

La prassi missionaria di Gesù

All'interno di questa immersione critica e partecipativa nella realtà post-moderna e post-cristiana il Vangelo stesso è riletto e riscoperto dal gruppo di ricerca in modo da poter riscrivere la missione di Dio nel mondo.

Per rinnovarsi è urgente ritornare proprio al parametro della prassi missionaria di Gesù storico, cogliendone alcune importanti condizioni: interpretare la Parola nelle varie versioni evangeliche, a partire dal luogo e dalle situazioni contestuali nelle quali sono state situate e narrate; cogliere la novità della prassi di Gesù, a partire dal suo dislocamento da Nazaret a Cafarnao, cioè dalla terra dei suoi "fratelli" (vicini ai farisei osservanti) verso la città cosmopolita, dove la legge mosaica non aveva tutto il peso che le si dava a Gerusalemme, e dove vengono superate la distinzione tra puro e impuro e la precettistica dei farisei; scegliere di vivere tra coloro che sono considerati peccatori, esclusi, impuri e emarginati e rivolgere loro la grande novità del Vangelo chiamando li "beati".

In questo modo è il regno di Dio a essere posto al centro della missione, come espressione della missione di Dio nel segno di Gesù. Con questa focalizzazione sul Regno, la missione stessa dunque viene riletta nell'ottica più vasta di Dio che irrompe nella storia e la trasforma dal di dentro. La missione allora si articola in relazione alla grande passione di Dio in Gesù Cristo per il mondo, perché tutti abbiano la vita in pienezza (Gv 10,10). La Buona Notizia di Gesù è che Dio è Abbà dall'amore incondizionato per tutti, a cominciare da chi l'amore lo sperimenta di meno. L'evangelizzazione si configura come partecipazione al movimento di Dio-Abbà verso la gente, al di là di ogni barriera, secondo la pratica di Gesù che con la sua commensalità aperta sconvolge le strutture socio-religiose di esclusione del tempo. E la relazione con l'Abbà arriva a rivelarsi nell'altra relazione tra fratelli/sorelle, così che l'esperienza religiosa viene proiettata oltre la separazione tra sacro e profano e trova posto non in spazi riservati, ma nel quotidiano. In questo senso si tratta di un'azione missionaria che si sviluppa soprattutto in luoghi secolari e dai contorni laicali.

Liberare il carisma

Un ultimo parametro è costituito dalla rivisitazione dei carismi di fondazione degli istituti missionari in un

contesto sociale, ecclesiale, antropologico profondamente mutato. Innanzitutto come forza che rende capaci di operare nell'oggi e, in secondo luogo, come una storia che va continuamente riletta e re-interpretata nella stessa prassi, a seconda del tempo e dei vari contesti sociali e culturali dove i missionari vivono e agiscono. La continuità tra l'evento carismatico del fondatore e l'evento del carisma della famiglia che ne è scaturita è infatti di ordine storico-salvifico: l'identità di un carisma di fondazione non è dunque determinabile semplicemente in base alla ricostruzione storica del suo momento originario, ma piuttosto come una reinvenzione da parte dello Spirito. Si può infatti sapere come quella storia è cominciata, ma non come si svilupperà!

I discepoli di Gesù come eredi di un fondatore carismatico particolare non sono chiamati a ripetere né a clonarne le parole e le scelte. Gesù e ogni persona carismatica, infatti, ci hanno lasciato un metodo di approccio alla realtà e alle sfide che si sono presentate nel loro tempo: esso è consistito essenzialmente nel creare discontinuità, specialmente in un momento di crisi e di capovolgimento epocale. È necessario pertanto leggere il carisma di un istituto in chiave storica e in prospettiva dinamica, per poter individuare quali spazi nuovi lo Spirito apra al carisma di fondazione e di quali nuovi significati l'arricchisca. La prassi storica è il luogo privilegiato per cogliere quelle nuove frontiere del carisma che magari a prima vista appaiono marginali agli schemi abituali della comunità o alle esperienze canonizzate dalla sua Regola di vita.

Con questa visione il gruppo di ricerca della Famiglia Comboniana, sulla scia della teologia espressa nel concilio Vaticano II, ribadisce che, se dal XVI secolo in poi la missione si è sviluppata come attività specifica di alcuni gruppi ecclesiali (società a carattere volontario in ambito protestante e istituti missionari in quello cattolico), ora si tratta di riportarla nel cuore stesso della Chiesa con le comunità cristiane come soggetti primari. Il nuovo immaginario missionario comporta una ecclesiologia di Chiese locali, nella quale il riferimento al regno di Dio rappresenta quell'elemento critico che la unisce alla prassi messianica di Gesù e le impedisce di ridursi a un puro fatto di strutturazione istituzionale.

Nati come espressione di una ecclesiologia di "Chiesa universale" e di una concezione espansionistica della missione, gli istituti missionari sono dunque chiamati ormai a un ri-posizionamento nelle Chiese locali, con un conseguente rinnovamento della loro visione teologico-spirituale, una ridefinizione del loro stesso carisma e una revisione di strutture e modalità di governo in una direzione più collegiale e partecipativa. In questo modo essi possono immettere nella comunione della Chiesa locale una triplice tensione positiva e creativa. In primo luogo con la loro presenza gli istituti indicano il diritto di tutti i credenti alla libertà cristiana nella testimonianza e nel servizio agli altri, sottolineando che al cuore della Chiesa c'è innanzi tutto una teologia della sequela e non l'articolazione della struttura sacra. In secondo luogo, gli istituti stessi diventano segno e provocazione perché le comunità non siano autoreferenziali ed escano dalla roccaforte protettiva per incontrare coloro che per vari motivi vivono nel territorio ai margini o fuori dell'istituzione ecclesiale. Infine, gli istituti ricoprono un ruolo simbolico in relazione alla comunione delle chiese nella missione, diventando parte attiva di una rete di scambio e di mutuo sostegno nel quadro della nuova missione "globale".

Se dunque il ruolo degli istituti missionari in Occidente si è finora giocato in un'azione di animazione in vista di una missione altrove, ora esso va reinterpretato in termini di una effettiva "presenza evangelizzatrice". Una presenza sperimentabile in . piccole comunità fraterne che facciano riaprire i cuori all'esperienza di Dio nell'incontro con la storia di Gesù, che mostrino il volto perverso dei nuovi idoli aprendo soprattutto le nuove generazioni a una cultura e a una spiritualità di compassione, solidarietà e ospitalità.  (Mario Chiaro, in Testimoni, 5/52013)

 

 

 

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:35

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