ABBRACCIARE LA CROCE PER VIVERE LA PASQUA

Pubblicato in Missione Oggi

P. Barreda Jesus Angel, op

 

1. Introduzione 

            Non è questo un titolo pubblicitario per vendere meglio il nostro tema di riflessione. E’, piuttosto, il desiderio di penetrare un mistero tanto grande da restare muti, in contemplazione. Dire “Pasqua”, evocando la memoria che di essa aveva il Popolo d’Israele, è troppo forte. Dire croce, associata al Messia, inimmaginabile. Come sarà, quindi la  Pasqua del Figlio di Dio della quale la pasqua ebraica era soltanto una figura? Infatti, è l’ora del trionfo, della vittoria del Messia ma attraverso la Croce e la morte. Invece, quanto silenzio intorno!

            In alcune nazioni parliamo di “pasqua” in riferimento al Natale e diciamo, per esempio, “Pascua de Navidad”; certamente, questa pasqua sembra più bella e festosa. Perché lì, nel silenzio della notte accade un terremoto: il Verbo di Dio nasce uomo, e non può meno di far gioire di festa il cielo e la terra insieme: Giuseppe e Maria, che non capiscono nulla, ma è il loro figlio, gli angeli in viaggio di turismo religioso a Betlemme, i pastori disposti a rinunciare al sonno per godersi la luce di quella notte che è diventata giorno di gloria. Gli animali, sebbene qualcuno dica che non erano presenti, che imitano e partecipano alla festa; insomma, inutile tentar di fare silenzio; troppi secoli di silenzio hanno preceduto questo momento, anni di lunga attesa. “Non si deve dormire la notte santa”. Davanti a un giorno buio e oscuro Cervantes scrive: “Sbocciò il giorno, se si può chiamare giorno quello che non porta con se nessuna luce”. Qui è tutto al contrario; tutto è meraviglioso: la notte è piena di luce, cioè, di senso, di vita.

            I poeti parlano del silenzio di quella notte di Natale; tuttavia, mai i cieli e la terra hanno goduto tanto insieme come quella sera nella quale non si trovò una degna dimora per la nascita di un bambino così bello. No, quel giorno il silenzio non trova posto fra noi!

            Tuttavia, la sua incarnazione è il primo passo verso la crocifissione. “La grotta di Betlemme è anche l’immagine del sepolcro. Vi è tutto un parallelo fra la vigilia di Natale e la Settimana santa”, scrive Costantin Andronikof[1]. Quella nascita è solo l’inizio di una storia di amore e di sofferenza, di vita e di morte, che si conclude con il Trionfo del progetto di Dio nella Risurrezione del Figlio. Il Dio-Uomo si umilia, si abbassa, è l’immagine stessa della spoliazione e della povertà. La società, non solo non l’accoglie, ma lo perseguita. Le autorità finiranno per ucciderlo. La maggior parte di quelli che l’avranno seguito, l’abbandoneranno. Cosa strana, nemmeno coloro che sono stati dei suoi aspettavano più niente. Sì, è vero, c’è ancora qualche ricordo nostalgico: “noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele” (Lc 24,21); “alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; […] son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo” (Lc 24,22-23). Bastano appena due giorni, e l’attesa di 20 secoli svanisce nel nulla, nella sconfitta, nel timore (“mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei” Gv 20,19), nella fuga verso Emmaus. Che silenzio immenso nel cuore di tutti gli amici! Perché si tratta di un silenzio vuoto, anzi, pieno di sconfitte, di rammarico (come a dire: perché ci siamo fidati di lui?); silenzio davanti a un futuro incerto. Questo è il silenzio dei morti; infatti, verso Emmaus camminano due solitudini, non una; ognuno dei discepoli con la propria sconfitta.

            Tuttavia, due giorni dopo, arriva il trionfo, il Signore è vivo! E’ apparso a Pietro e ad altri, alle donne, a quei due. Ma dove sta la gioia, dove la festa simile a quella del Natale, dove sono gli angeli con il “Gloria a Dio nel alto dei cieli”? Forse che la Sua nascita era cosa da bambini, come tante volte oggi ci sembra il Natale, e la Pasqua è propria di uomini grandi, adulti, seri, i quali non ridono e non ballano? La Pasqua è stata vissuta così, nel silenzio di una fede che, finalmente, cominciava a camminare, perché prima della Pasqua i discepoli non hanno saputo che cosa fosse la fede. Toccavano Cristo col corpo, con le mani, non col cuore.

            Noi stiamo camminando verso la Pasqua e conosciamo la fine di questa storia. Infatti, non ci sarà per il Signore altro orto degli Ulivi, altro bacio dell’amico Giuda; bacio dato tanto da lontano da chiamare Gesù “Maestro”, titolo che unicamente Gli davano i dottori della Legge, mentre gli amici lo dicevano sempre “Signore”; non ci saranno più i chiodi e gli sputi per il “più bel figlio d’Uomo”; né berrà più l’aceto amaro del tradimento. Non soffrirà più. Nonostante, siamo sinceri, noi crediamo che la storia si ripete in continuazione. Tutti i protagonisti del “passio” sono ancora vivi, sono dei nostri e lo siamo anche noi. L’attore principale, colui che porta la croce si è moltiplicato; oggi, il Cristo sono tanti; chi tradisce ha anche un nome plurale e chi riceve il bacio del tradimento è dei nostri cari. Perciò, la memoria di quel “passio” non è un semplice ricordo che si racconta; è un memoriale di presenza attiva, nel quale si partecipa. E in questa memoria non tutti siamo il buon ladrone, specialista scassinatore del paradiso; siamo anche Giuda e Pietro, attanagliato dalla paura, siamo i fuggitivi, che lasciano l’amico in mano ad altri che, avranno la loro responsabilità sicuramente, ma non superano il peccato del nostro tradimento.

            Cari fratelli, questo mio linguaggio vi può sembrare un po’ poetico e forse fuori posto, non è accademico. Tuttavia non si fa poesia col dolore dei crocefissi (cf. Crocifisso africano dei Musei Vaticani); al massimo, ci viene di fare una confessione: “Questi era veramente figlio di Dio!”. La via crucis degli uomini la conoscete meglio di me, perché la vostra visione del mondo è molto più larga; avete partecipato, senza dubbio, in tanti “passio”. E ci sono stati risparmiati tanti “passio”! Voi sapete di tutta questa storia. Ma, voi e io, dove ci troviamo? Uno si può meravigliare della persona di un innocente condannato a morte ingiustamente (ho l’impressione che nemmeno gli avverbi dicono tutto: ingiustamente, innocentemente,…). Ma questo non è sufficiente; nel santuario del nostro segreto anche noi abbiamo pianto.

            Allora, noi sappiamo il finale, ma dobbiamo prepararlo e viverlo ancora; Cristo ci invita a vegliare sempre, a restare con Lui, a non abbandonarlo nell’ora della prova, quando ci chiede di aiutarlo a bere il calice, perché anche per Lui è diventato troppo forte e amaro; e noi, saremmo capaci di dormire? Pensare che poco prima della sbandata dei discepoli li avesse ringraziati con queste parole: “voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove” (Lc 22,28). Quale ironia! Lì, nell’orto[2], è rimasto solo. Immaginate l’espressione di Cristo quando vede che tutti e tre dormono? “Perché dormite?” (Lc 22,46); “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?” (Mc 14,37). E’ una delle domande più tragiche di tutto il Vangelo, a mio modo di vedere; non si addormentarono sul monte Tabor, nel momento della gloria regalata, vissuta senza sforzo. Qui, dove l’amico, “in preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra” (Lc 22, 44), esclama: “alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione” (Lc 22,46)  e “li trovò che dormivano” (22,45).

            Noi, oggi, stiamo percorrendo la strada verso Gerusalemme. Ricordiamolo, è l’ultima salita. Come la stiamo realizzando? Una volta, vicino già alla città santa, Cristo guarì un cieco il quale, buttando via il mantello, lo seguì a Gerusalemme (cf. Lc 18, 35-43). Io, che cosa ho buttato? Sono ancora coperto dal mantello delle mie miserie, che sono diventate un abito e senza le quali non mi riconosco? Naturalmente, in questo periodo, sento parlare di conversione, di accettazione del sacrificio, di penitenza e anche di digiuno; strana questa parola in un mondo di sazietà! Digiuno!

2.- La croce nel cammino della Pasqua

            Collochiamoci davanti alla croce, non per ragionare, né per giustificare, ma per guardare, per contemplare, per amare. La croce non si capisce, si ama! Perché ci invada il mistero di quei due pali incrociati che sostengono l’umanità e la divinità, l’Universo e Dio. Lasciamo che ci parli della bellezza della gratuità e del perdono, dell’amore di un Dio che è stato cucito all’umanità e dell’umanità avvolta in un mistero che non comprende.  Lasciamoci attirare dalle parole di perdono, di accoglienza, di donazione; parole gridate a Dio da Dio stesso. Lo abbiamo innalzato, lo abbiamo restituito al Padre, ma senza sangue, esanime, senza bellezza nel volto. Egli, per contro, ci perdona e ci apre le porte del suo Regno, oggi stesso.

            Guardiamo il crocefisso. “Gesù è il Cristo rigettato nel soffrire (Mt 8, 31-38). L’essere rigettato toglie ogni dignità e onore al soffrire. Deve essere un soffrire infame. Soffrire ed essere riprovato sono le espressioni che riassumono la croce di Gesù. La morte in croce significa soffrire e morire da rigettato, da esiliato, da escluso. Gesù deve soffrire ed essere rigettato in forza di una necessità divina. Ogni tentativo di negare questa necessità è satanico. Anche quando, o proprio perché, esso arriva dalla cerchia dei discepoli; infatti, questo tentativo vuole che Cristo non sia Cristo. Il fatto che sia Pietro, la pietra della Chiesa, chi si rende colpevole immediatamente dopo la sua confessione a Cristo e la sua elezione da parte di Gesù (Mt 16,22s), indica che la Chiesa, fin dagli inizi, si scandalizza del Cristo sofferente. Non vuole un simile Signore e, quale Chiesa di Cristo, non vuole farsi imporre la legge del soffrire dal suo Signore. La protesta di Pietro rappresenta la sua non-volontà di piegarsi alla sofferenza. Con ciò Satana è introdotto nella Chiesa. Egli la vuole strappare alla croce del suo Signore. Così, a Gesù si presenta la necessità di riferire ai suoi discepoli, in modo chiaro e inequivocabile, la necessità della sofferenza. Come Cristo è Cristo solo in quanto sofferente e rigettato, così il discepolo è il discepolo solo in quanto sofferente e rigettato, in quanto crocifisso con lui (Rm 6,6). La sequela come vincolo alla persona di Gesù Cristo pone i seguaci sotto la legge di Cristo, vale a dire sotto la croce”[3].

       Anthony Bloom si sofferma su queste parole: “Egli morì in croce” . “Queste poche parole, scrive, sono le più tragiche della storia: egli, che è il Figlio di Dio, poiché ha accettato una solidarietà con gli uomini totale, definitiva, senza riserva e senza limiti, in tutte le loro situazioni, senza partecipare al male, ma accettato tutte le conseguenze, egli, inchiodato sulla croce manda il grido dell’umanità infelice: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» […] Quando Cristo disse: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato», stava pronunciando, gridando le parole di una umanità che aveva perso Dio, e prendeva parte proprio a ciò che costituisce l’unica tragedia dell’umanità. Tutto il resto ne è conseguenza. La perdita di Dio è morte, è infelicità, è fame, è divisione. Tutta la tragedia dell’uomo si riassume in una frase: «Mancanza di Dio». Ed egli partecipa alla nostra mancanza di Dio non nel senso in cui rifiutiamo Dio e non lo conosciamo, ma in modo più tragico nel senso in cui uno può perdere ciò che ha di più caro, di più santo, di più prezioso, di più essenziale per la sua vita e la sua anima”[4]. “L'inferno dell'Antico Testamento è qualcosa d’infi­nitamente orribile; è il luogo dove non c'è Dio. È il luogo dell'abbandono finale. È il luogo dove uno con­tinua a vivere e di vita non ne è rimasta”. Cristo scende nel luogo dove Dio non c’è, nel luogo dell'abbandono definitivo. E laggiù, come dice l'antico inno, le porte dell'inferno si aprono per ricevere lui che, mai vinto sulla terra, è ora conqui­stato, è un prigioniero. Così l'inferno è distrutto: non sussiste un luogo, dove Dio non c'è. L'antico canto profetico è avverato: “Dove fuggirò dal tuo volto? Il cielo è il tuo trono, anche nell'inferno (secondo l'ebraico: il luogo dove tu non sei) ci sei”. Questa è la misura della solidarietà di Cristo con noi, della sua disponibilità a identificarsi non solo con la nostra miseria, ma anche con la nostra mancanza di Dio. Allora non c’è nulla che sia umano, compresa la perdita di Dio, compresa la morte a seguito della perdita di Dio, compresa tutta l'angoscia del Getsemani, nulla che sia l'attesa di questo orrore degli orrori, che sia estraneo a Cristo e fuori dal mistero di Cristo.

            “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso”. Riguardo a noi dobbiamo ripetere ciò che Pietro disse nel rinnegare Gesù: “non conosco questo ’’uomo” (Mt 26,47). Non conosco più me stesso ma Cristo. L’auto-rinnegamento non è una auto-tortura narcisistica o fatta di esercizi ascetici, nella quale io divento il protagonista; non è questione di capricci dell’uomo. Auto-rinnegamento significa conoscere solo Cristo e non più se stessi; significa vedere solo Lui che ci precede e non più la strada che per noi è troppo difficile. “Noi predichiamo Cristo crocefisso” (1Cor 1,23). “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2).

            “… prenda la sua croce”. “Se abbiamo davvero dimenticato tutto e non conosciamo più noi stessi, solo allora possiamo essere pronti a portare la croce per causa sua. Se conosciamo lui solo, allora non conosciamo nemmeno più i dolori della nostra croce e vediamo lui solo. Se Gesù non ci avesse amorevolmente preparati a questa parola, allora non saremmo in grado di reggerla. Ma, così, egli ci ha messo in condizione di percepire come grazia anche questa dura parola. Essa ci trova nella gioia della sequela e in questa ci rafforza”.

            Sicuramente abbiamo assunto la croce come strumento inseparabile della vita di Gesù; ma non abbiamo capito bene il suo significato più profondo, particolarmente riguardo al Figlio di Dio. E’ morto in croce per noi, per amore. La croce non è solo la conclusione di una vita di scontro crescente contro i poteri del mondo e le autorità ebraiche; non è un fatto occasionale nella vita di Cristo; non è un incidente. Bisogna vederla dalla divinità stessa in relazione con gli uomini. La croce non è il fallimento della vita di Gesù, come l’hanno letta i due di Emmaus; è, piuttosto, il compimento e la pienezza della vita di Dio incarnato. Il sacrificio del Figlio segna la auto-comunicazione totale della Trinità all’uomo.

            “La croce non è una pena e un avverso destino, ma è la sofferenza che ci viene soltanto dal vincolo a Gesù Cristo. La croce non è una sofferenza casuale, ma necessaria. La croce non è la sofferenza legata all’esistenza naturale, ma quella legata all’essere cristiani. Soprattutto, la croce, nella sua essenza, non è solo soffrire, ma soffrire ed essere rigettati ed anche qui, a rigore, essere respinti per amore di Gesù Cristo e non di qualunque altro comportamento o un’altra fede”.[5] Un cristiano che non sa distinguere fra esistenza naturale e cristiana, “interpreterebbe la croce come la pena quotidiana, come la miseria e l’angoscia della nostra vita naturale. Ci si sarebbe dimenticati che la croce significa sempre, al contempo, essere rigettati, che alla croce appartiene l’onta del soffrire. Essere esiliati nel dolore, disprezzati e abbandonati dagli uomini, com’è nel lamento del salmista (Sal 69,8s); questa è la caratteristica essenziale della sofferenza della croce che una cristianità che non sa distinguere tra esistenza civile e esistenza cristiana, non è più in grado di comprendere. La croce è com-patire insieme con Cristo, è la sofferenza di Cristo. Solo il vincolo a Cristo, che ha luogo nella sequela, sta seriamente sotto la croce”[6].  “La croce non è la fine terribile di una vita pia e felice, ma sta al principio della comunione con Gesù Cristo. Ogni chiamata di Cristo conduce alla morte” (Ib. 25).

            Come accade in ogni donazione estrema dell’amore (=martirio), la croce non va cercata; Gesù ha avuto paura e ha voluto allontanarla da sé; ma ha scelto di fare fino in fondo la volontà del Padre. La responsabilità della sua croce non risparmia nessuno di coloro che l’hanno collocata sulle sue spalle; non risparmia nessun uomo di nessuna epoca.

            Quanto hanno discusso i nostri grandi teologi sulla convenienza e necessità della croce da parte di Dio. San Tommaso (III, q. 46) scrive che era conveniente che Cristo patisse per il genere umano per necessità di fine, benché Dio potesse liberare l’uomo in un altro modo. Ma la croce era il modo migliore per mostrare l’amore di Dio all’uomo, indicando all’uomo come doveva rispondere a tanto amore; infatti, “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Cristo, sulla croce, dà esempio di obbedienza: si fece “obbediente [al Padre] fino alla morte e alla morte di Croce» (Fil 2, 8);  di umiltà: sopportò le sofferenze senza evitarle e senza mitigarle, come un agnello mansueto (Ger 11, 19); di tutte le virtù;  ci invita a non peccare e ci ridona la dignità di figli di Dio sconfiggendo il maligno. La croce, dunque, non era una necessità giuridica dell’espiazione della colpa, come affermava Sant’Anselmo (Cur Deus homo?). E’ molto di più. La morte di Gesù è espressione dell’amore di Dio, non della sua ira. Dio non è legato ad alcuna necessità di fare dell’atto di un’esecuzione la condizione della salvezza. Non l’ira di Dio uccide Cristo, ma il peccato umano. Nella fede diventa evidente che l’ira di Dio  per il peccato non è stata l’ultima parola perché Dio ha risuscitato il Crocifisso.

            Da parte nostra, poi, è meglio non pensare perché si complicano troppo i motivi di quella condanna: violava le regole, creava turbamento e ribellione nel popolo; dicendo di essere il Messia, non rispondeva a ciò che si aspettavano dal Messia; si faceva uguale a Dio. Svelava la loro l’ignoranza riguardo a Dio; erano sepolcri imbiancati, ipocriti, era contro le autorità religiose, ecc.

            Accettare la croce come frutto dell’amore e della misericordia di Dio verso l’uomo ci consola. Ma se parliamo della croce a partire dalla giustizia di Dio ci risulta estraneo. Dunque, il peccato sarebbe capace di ostacolare l'onnipotente volontà di amore? Il Dio giusto non è tema frequente delle nostre prediche. Infatti, abbiamo idee poco chiare su questa giustizia di Dio, perché pensiamo alla vendetta, al “occhio per occhio”; invece Giustizia si trova al posto della Verità; la croce restituisce l’uomo alla via della verità e del bene; a quel modo di essere e di vivere che è stato distrutto dal peccato. Ci ridona la filiazione che è molto più della giustizia; finita la condanna ci apre alla santità. Il Giusto Gesù ci restituisce alla nostra verità. Così si capisce meglio la giustizia di Dio. Adesso possiamo comportarci come veri figli di Dio. “Sono stato crocefisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20): per ottenere l’identificazione con Cristo si deve abbracciare la Croce. In Rm 4,25 Paolo, accanto alle immagini cultuali ed immagini giuridiche, aggiunge un altro campo d’immagini della relazione personale, dell’amore, della pace e della riconciliazione. Da Rm 5 si passa dalla giustizia di Dio alla pace con Dio (5,1), alla riconciliazione e all’amore (5,11).

            In questa dinamica, il cristiano si fa portatore dei pesi, del peso del peccato dei fratelli (Gal 6,2). Come Cristo porta i nostri pesi, anche noi dobbiamo portare i pesi dei fratelli, la legge di Cristo che deve essere adempiuta è il portare la croce. Il peso del fratello, che ho da portare, non è solo il suo destino esteriore, il suo atteggiamento e la sua inclinazione, ma è, in senso stretto, il suo peccato. Io non posso portarlo diversamente se non perdonandolo, in forza della croce di Cristo, di cui sono divenuto partecipe. Così, la chiamata di Gesù a portare la croce pone ogni seguace nella comunione del perdono dei peccati (Lc 23,34). Il perdono dei peccati è l’opportuna passione di Cristo del discepolo. Esso è imposto a tutti i cristiani.

            “Come può però il discepolo sapere qual è la sua croce? La riceverà se entra nella sequela del Signore sofferente, riconoscerà la sua croce nella comunione con Gesù. Così, la sofferenza diventa il segno di riconoscimento del seguace di Cristo. Il discepolo non è da più del maestro (Mt 10,24)” .

3. Dimensione teologica della croce di Cristo

         Attorno alla croce del Signore, quante dottrine, idee e teorie ci hanno tolto il fervore dell’amore! Frequentemente, la croce, seguendo l’invito di Cristo a prendere la propria croce, è deviata verso le sofferenze e mortificazioni che la vita ci offre. Perfino la vita religiosa, mediante i tre voti, è vista come offerta volontaria di una croce molto dolorosa. Tutto il negativo della nostra vita è contemplato come un regalo del Signore per purificarci e salvare le nostre anime. Trattasi di una croce inviata direttamente dal Signore così come fu imposta la croce di Gesù, quale prezzo della nostra salvezza: “Egli fu obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8). E’ assolutamente necessaria perché portiamo in noi il germe di un male profondo e non sappiamo ove si trovano questi principi di morte. La qualità e quantità della croce colma l’abisso fra un religioso semplicemente regolare e un santo. Ricordiamo l'energico rifiuto di René Girard di fronte ad un'interpretazione sacrificale del cristianesimo. Il successo della sua opera in numerosi ambienti cristiani è dovuto, in larga parte, al fatto che egli metteva il dito sulla piaga interna della loro fede, perché denunciava ciò che essi avevano ritenuto del loro catechismo, l'immagine di un Dio vendicativo e crudele che, per soddisfare la sua "giustizia", ha voluto ottenere un compenso al peccato degli uomini e se l'è offerto condannando il proprio Figlio a morte. 

            Facciamo memoria dei nostri, per alcuni già troppo lontani, studi teologici. Sicuramente questa terminologia vi sarà familiare: castigo, giustizia, sostituzione, espiazione (cf. Rm 3, 25; Eb 1, 3; 1 Gv 2, 2; 4, 10), riparazione, compensazione, liberazione (1 Pt 1, 18), remissione (Col 1, 13-14), ecc. Tuttavia, i nostri sentimenti girano attorno a: amore, compassione, misericordia, perdono. Non è il momento di entrare in complicati ragionamenti biblico-teologici, ma a volte uno si scoraggia per questo motivo davanti alla croce.

            Brevemente, riassumo questo problema: l’umanità peccatrice deve essere punita (così ci troviamo davanti a un Dio che punisce); ma è un castigo giusto, ovviamente, altrimenti Dio sarebbe un tiranno, cosa impensabile. La giustizia richiede il castigo. Il castigo lo assume Cristo, colui che non ha peccato, al posto dell’umanità peccatrice. Cristo offre al Padre come compensazione ciò che l’umanità non può offrire. Questo schema comporta l'idea che ci deve essere una corrispondenza la più esatta possibile fra il male commesso e la sua riparazione. Questa corrispondenza si traduce con l'imposizione di un castigo ritenuto capace o di riparare il male commesso sopprimendolo (per esempio una restituzione), oppure, se la cosa non è possibile, di costituire una sofferenza di valore equivalente alla sofferenza causata alla vittima. Dio può placare la sua collera, quando il castigo sia riparato. Perché ciò accada chi paga per il castigo non può essere l’uomo finito, ma Cristo che si sostituisce agli uomini offrendo un’espiazione degna a Dio. In questo processo, dove è l’amore di Dio? Nella sostituzione escogitata per soddisfare la sua giustizia, la morte del Figlio.  Subire il castigo, sarà dunque espiare. Questa concezione suppone che i diritti della giustizia debbano essere vendicati. Invece, la Redenzione è opera dell'amore divino e nessun testo biblico può essere rettamente interpretato nel senso di una giustizia vendicativa o di una giustizia commutativa.

            Ma tutto indica che Dio non poteva perdonare all’uomo se prima non veniva resa soddisfazione alla sua giustizia. Allora, la giustizia di Dio è un limite al suo amore, e al suo perdono; anzi, a che serve parlare di perdono? Una volta che è “vendicato”, Dio può dare corso libero alla sua misericordia? Che conflitto fra la giustizia vendicativa di Dio e il suo amore di Padre verso di noi!

            E’ vero che ci sono testi biblici che fondano queste teorie: “il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45)[7]. A questo testo si può aggiungere tutta la lettera agli Ebrei. Ci si presenta un grosso problema. “Dio ha pagato la sua sete di vendetta su Gesù?” (Ch. Duquoc). E se noi ci meravigliamo ancora, che cosa non avranno sofferto per questo motivo, cioè, per capire la croce, gli apostoli? Forse loro hanno fatto ricorso alla loro mentalità, all’AT, dove c’è il concetto di “sacrificio”, che Gesù adopera per spiegare la sua morte. Ma tutti i sacrifici erano inefficaci, solo la morte di Gesù poteva portare a compimento ciò che quei sacrifici volevano significare. Si può dire, dunque, che la morte di Gesù, come dice il Vangelo è “sacrificale”. Ma tra questa morte e quei sacrifici esiste una differenza essenziale. Il culto antico cercava di sostituire ciò che è insostituibile, di mettere offerte di animali al posto dell’offerta dell’amore dell’uomo. Una simile sostituzione era perfettamente inutile. Gesù, invece, ha offerto se stesso: ha pronunciato a Dio il “sì” dell’obbedienza filiale. Così, il sangue versato è l’espressione concreta di un amore che va fino in fondo. Cristo ha dato tutto. Egli è l’uomo nella pienezza della sua perfezione.  Allora, Dio non ha potuto accettare il sangue di Cristo unicamente come soddisfazione della sua giustizia lesa dai peccati degli uomini.

      Forse la risposta a questo dilemma si trova in Gv 14,9: “chi vede me vede il Padre”. Quando Cristo in croce ispirava compassione e invitava alla partecipazione alle sue sofferenze (all’epoca della grande religiosità popolare centrata nel Venerdì santo), pensavamo alla croce in relazione con l’uomo, come se fosse una auto-redenzione; partecipando ai dolori di Gesù uno si sentiva quasi redento: la risposta erano gli esercizi di pietà, sacrifici e cilici. Non pensavamo a Dio, alla sua parte in questa croce. Mentre la croce di Gesù ci fa capire Dio in modo diverso. Infatti, ”noi conosciamo Dio soltanto attraverso Gesù. Ma conoscendo Gesù conosciamo veramente Dio, nella misura in cui ci è necessario conoscerlo per avere con lui un rapporto vero. Il problema fondamentale sta nel non ingannarsi su che cosa e chi è Dio”.

            Tutto ciò che Gesù dice e fa rivela Dio. Ciò che esiste visibilmente in Gesù esiste invisibilmente, misteriosamente, in Dio. Ciò che costui opera, lo opera Iddio. Ciò che a lui contrasta, contrasta a Dio. Dio non può svincolarsi in nulla da questa vita. Ciò che presiede all'azione e all'esperienza di tale vita, il suo Io, è lui. Ciò che riguarda lui ci è lecito riferirlo a Dio, anzi dobbiamo riferirlo a Dio, perché è la sua rivelazione. Se l'incarnazione è un atto di umiltà, questo significa che Dio è un essere di umiltà. Se Gesù è povero, vuol dire che Dio è povero. Quando vedo Gesù, la sera del Giovedì santo, lavare con umiltà piedi di uomo, vedo Dio stesso eternamente servitore in umiltà nel più profondo della sua gloria[8]. L'umiltà di Cristo non è un intoppo eccezionale della gloria di Dio: essa manifesta nel tempo della storia umana che l'umiltà sta eternamente nel cuore della gloria. E non è quando Gesù muore sulla croce che io smetto di sentirlo dire: «Chi vede me vede il Padre». Anzi: è la morte di Gesù che mi rivela, mi fa vedere chi è Dio, qual è il suo essere, qual è la profondità dell'essere eterno di Dio”.

      Cristo «obbedi­sce» al Padre rivelandolo così come egli è, e non come gli uomini vorrebbero che fosse. Rivelare Dio così come egli è ha significato per Gesù accettare di morire. Se Gesù non avesse accettato di morire, non avrebbe rivelato Dio così come egli è. Paolo scrive che Dio “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; […] e umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,7-9). Questo vuol dire che l’essere di Dio è eternamente nell’atto di donarsi, di consegnarsi agli altri. Per non ricadere nel patripassianismo dobbiamo dire che chi soffre è il Figlio e la sofferenza non affetta direttamente il Padre. Ma nella sofferenza del Figlio si rivela la kenosi di Dio. Ci rivela l’essere di Dio come com-passione e amore fino alla fine.

      Tutto ciò ci porta a capire che “l’amore è morte a sé stessi, dono di sé”. In Dio la morte è nel cuore della vita. Dio è amore, e amare significa morire a se stessi e vivere solo per Dio e per gli altri[9]. Vivere da sé significa morire a sé. Vivere vuol dire amare, ma amare vuol dire morire, non essere, non esistere che per gli altri. Non è forse questa la nostra storia personale?

      Il crocifisso è la Parola ammutolita che rivela eloquentemente il Padre (Balthasar). La croce che uno contempla si converte in “Vangelo vivente”; il suo silenzio è un grido d’amore. Davanti alla croce, dove la Parola fa silenzio, si sente forte la voce d’amore del Padre per il Figlio e per l’umanità. Uno no può rimanere inchiodato e muto contemplando il mistero della sofferenza del Cristo; non gli resta altro che guardare se stesso e trovare un perché di tanto dolore e di tanto amore e si scopre che il motivo sono io.

      Per l’uomo, l’esperienza del paradiso ha significato l’immersione nella solitudine radicale, la perdita del Dio amico e perdita di se stesso. E’ il destino e la esperienza vissuta da Cristo. Il dolore del Cristo crocifisso è il turbamento dell’abisso del “no” a Dio (Balthasar). Egli diventa il maledetto da Dio e su di Lui si concretizza il giudizio escatologico dei Dio. Il Crocifisso si rende disponibile a lasciare sfogare su di sé la “furia” del peccato, in quanto la Croce è un sacrificio vissuto in modo sostitutivo.

 

4. Nella croce Dio-amore ricrea l’uomo

      I giudei si aspettavano una manifestazione trionfale di Dio. Ed ecco che, sul calvario, Dio non interviene, si nasconde e tace. Non è il Dio Sabaoth, cioè il Dio degli eserciti, è il Dio «disarmato»: il gioco di parole è classico[10]. Lo s’immaginava ricco e potente, e certo lo è, dal momento che egli è l'infinito; ma ora si vede che la sua ricchezza non consiste nel possedere, ma nel donare: è la ricchezza di una consegna totale di sé, senza riserva o secondi fini. Sospettare Dio di secondi fini e di riserve mentali significherebbe misconoscere l'amore. L'amore non offre qualcosa di sé riservandosi la parte più profonda; ma dona esattamente questa parte profonda. Conservare un pensiero o un'in­tenzione dentro di sé vorrebbe dire che si continua a essere proprietari di sé. E invece non esiste traccia di proprietà in Dio.

      Lungi dall'esigere il sacrificio del Figlio, per dare soddisfazione alla sua giustizia, il Padre, nel sacrificare il Figlio, sacrifica quanto ha di più caro. È come dire che sacrifica se stesso. Il Padre non si risparmia. Poiché l'essere del Padre non è che per il Figlio e in forza del Figlio, consegnandoci il Figlio consegna se stesso. Il suo essere, la sua «natura» è di essere «consegna di sé». Dio è il tutt'altro! Noi siamo ricchi quando possediamo; Dio, invece, è ricco spossessandosi. Noi siamo forti quando dominiamo; Dio invece è forte, facendosi servo.

      Quando Cristo rende l'ultimo respiro si priva della vita stessa, dunque di tutto; ed è in quel momento che egli è umanamente ciò che è Dio divinamente da tutta l'eternità. È in quel momento che Cristo diventa umanamente onnipotente, come Dio è divinamente onnipotente. È in quel momento che egli partecipa all'onnipotenza di Dio, che non è una potenza di dominazione né di esibizione di sé, ma di nascondimento, di annullamento di sé. Amare l'altro significa volere che egli sia e non passargli davanti perché egli sia di meno: questa è la potenza dell'amore!

      II perdono non è l'indulgenza ma una ricreazione. E’ la ri­creazione della libertà di chi ha lasciato languire la sua libertà a causa del peccato. È necessaria a Dio più potenza per perdonare che per creare. Ricreare, infatti, è più che creare. La potenza di ri­creazione è al cuore della potenza creatrice, come una super­potenza. L'atto creatore in Dio è, abbiamo visto, un atto di umiltà e di rinuncia: il Dio che è tutto rinuncia a essere tutto. Quando si è amore, infatti, non si sopporta di essere tutto; non si può essere amore ed essere tutto. Egli apre allora uno spazio alla libertà e, come dice il poeta tedesco Hólderlin, «Dio fa l'uomo come il mare fa i continenti: ritirandosi».

       È nella morte, dunque, che Cristo partecipa alla potenza suprema, ricreatrice, perdonante di Dio. Un uomo, nato dalla vergine Maria, appartenente quindi alla nostra razza, ha, in forza della sua morte, la potenza divina di perdonare. Un Dio che ci concedesse dall'alto il perdono non potrebbe che essere sospetto. Non c'è nulla di più sospetto di un certo modo paternalista di dire: io ti perdono. Ma un Dio fatto uomo che perdona morendo, la cui morte è simultaneamente perdono, e perdono universale, come potrebbe essere sospetto?

       È vera allora l'affermazione che noi siamo salvati in forza del sangue di Cristo versato per noi. È quanto è espresso dalla frase della consacrazione eucaristica: questo è il sangue versato in remissione dei peccati. Queste parole non vogliono dire che il sangue è una compensazione offerta alla giustizia di Dio, che pretenderebbe lo spargimento del sangue di Cristo. Il sangue versato è il segno di un amore che si spinge fino in fondo (cf. Gv 13,1). Fino alla fine del dono, cioè al perdono o dono perfetto. È la morte di Cristo che rivela in pienezza la gloria di Dio, gloria che è allo stesso tempo amore come potenza di annullamento di sé.

       Il teologo brasiliano C. A. Libanio Christo si domanda: “può una madre capire che suo figlio è glorificato proprio mentre il suo corpo è inchiodato a una croce, tra due ladroni, e destinato a una fossa comune se non ci fosse stata la buona volontà di Giuseppe di Arimatea? Gesù ebbe paura. «Ora l’anima mia è turbata. E che devo dire: Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono venuto a questa ora. Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,27-28). E il Padre, quasi volesse infondere nuove forze al suo figlio, rompe il silenzio: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora». Nella croce Dio ha rivelato il suo segreto più intimo: la sua solidarietà con gli oppressi. Uno dei ladroni stabilisce con Cristo il dialogo più incredibile che la storia umana conosca, e sulla croce riconosce l’innocenza di Gesù e chiede: «Ricordati di me quanto entrerai nel tuo Regno». Non chiede di stare nel Regno, e neppure di essere salvato, vuole solo che qualcuno si ricordi di lui. «Oggi sarai con me in Paradiso», risponde Gesù. Il primo santo della Chiesa è un ladrone, condannato a morte accanto a Gesù”[11].

       In Gesù crocefisso, è reso manifesto il puro «per te» o «per voi» dell'assoluto vivente che è Trinità. È un uomo sfigurato, sanguinante, coperto di sputi, paragonato da Isaia all'agnello condotto al macello che di-svela l'essere eterno senza sembianze. L'esistenza umana ha senso soltanto in lui e in forza di lui: questa è l'affermazione centrale della nostra fede.

      Come capisco la commozione di Paolo quando ci dice (Fil 3,18) che ha «le lacrime agli occhi» pensando a quegli uomini «che si comportano da nemici della croce di Cristo»! Bisognerebbe assolu­tamente rimanere o diventare capaci di piangere anche noi cosi”[12]. Ci sono momenti significativi della passione di Cristo che, da soli, giudicano il nostro attaccamento a Lui e alla nostra fede. Dove ci porta l’espressione pubblica e spettacolare di Pilato mostrando il Re dei Giudei al popolo con quelle parole: “Ecce homo!”; “guardate che uomo!”. In quest’uomo, scrive Bonhoeffer, “guardate il Dio che si è fatto uomo” e “guardate l’uomo giudicato da Dio!”. E’ un ritratto indescrivibile! Come a dire: “Guardate di che cosa è capace l’amore di Dio!”. Infatti, “il mondo infuria contro il corpo di Gesù Cristo, ma il martirizzato perdona al mondo il suo peccato. Così avviene la riconciliazione. Ecce homo.

 

Conclusione: invito al silenzio per capire la croce.

 

             Abbiamo iniziato il nostro incontro ricordando il silenzio nella Pasqua, nell’ora del trionfo. In mezzo c’è anche il silenzio della Croce: “qui siamo posti di fronte alla «Parola della croce» (1Cor 1,18), ricorda Benedetto XVI. Il Verbo ammutolisce, diviene silenzio mortale, poiché si è «detto» fino a tacere, non trattenendo nulla di ciò che ci doveva comunicare. Suggestivamente i Padri della Chiesa, contemplando questo mistero, mettono sulle labbra della Madre di Dio questa espressione: «È senza parola la Parola del Padre, che ha fatto ogni creatura che parla; senza vita sono gli occhi spenti di colui alla cui parola e al cui cenno si muove tutto ciò che ha vita»[13]. Qui ci è davvero comunicato l’amore «più grande», quello che dà la vita per i propri amici (cfr Gv 15,13)” (VD 12).

            “La croce di Cristo non mostra solo il silenzio di Gesù come sua ultima parola al Padre, ma rivela anche che Dio parla per mezzo del silenzio: «Il silenzio di Dio, l’esperienza della lontananza dell’Onnipotente e Padre è tappa decisiva nel cammino terreno del Figlio di Dio, Parola incarnata. Appeso al legno della croce, ha lamentato il dolore causatogli da tale silenzio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mc 15,34; Mt 27,46). Procedendo nell’obbedienza fino all’estremo alito di vita, nell’oscurità della morte, Gesù ha invocato il Padre. A Lui si è affidato nel momento del passaggio, attraverso la morte, alla vita eterna: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46)» (VD 21). L'esperienza di Gesù sulla croce è profondamente rivelatrice della situazione dell’uomo che prega e del culmine dell'orazione: dopo aver ascoltato e riconosciuto la Parola di Dio, dobbiamo misurarci anche con il silenzio di Dio, espressione importante della stessa Parola divina”[14]. Nel silenzio della Croce parla l’eloquenza dell’amore di Dio vissuto sino al dono supremo. Dopo la morte di Cristo, la terra rimane in silenzio e nel Sabato Santo, quando “il Re dorme e il Dio fatto carne sveglia coloro che dormono da secoli” (cf. Ufficio delle Letture del Sabato Santo), risuona la voce di Dio piena d’amore per l’umanità[15].  Il criterio sicuro dell’autenticità spirituale è la Croce. “Tutto ciò che porta alla croce è seriamente cristiano. Tutto ciò che elimina la croce, appartiene all’ordine dello «pseudo»”. La croce crocifigge il concetto che abbiamo di Dio. Un Dio sulla croce, che soffre e che muore, è il contrario dell’immagine di Dio che di solito ci facciamo.

Dov’è Dio il Sabato santo? Forse è in collera, disgustato dell’umanità, molto di più di quello che era nel paradiso nei confronti di Adamo ed Eva. Perché qui l’oltraggio è molto più grande; abbiamo crocefisso, non un comando, ma il Figlio Prediletto. Non c’è proporzione! Dov’è Dio? Interrogativo che si rivolta contro di noi: dove siamo noi? Chi siamo noi per fare ciò che abbiamo fatto: una croce per l’Amore?

 



[1] Il senso delle feste, Roma 1973, 102

[2] Quando erano a Gerusalemme, l’orto degli Ulivi era il luogo abituale per la preghiera del Signore; infatti Luca scrive che “uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo” (Lc 22, 39-40); sul “luogo” sta a dirci che era un posto abituale, conosciuto, per la preghiera della notte.

[3] D. Bonhoeffer, Lo straordinario si fa evento. Croce e Risurrezione, Queriniana, Brescia 1997, 20-21.

[4] Anthony Bloom, Dio e l’uomo, Brescia 1986, 57-59.

[5]  D. Bonhoeffer, Sequela, Brescia 1971, 69.

[6] François Varillon, Gioia di credere, gioia di vivere, EDB, Bologna 1984, 23.

[7] “Riscatto?”. E’ una parola che non si capisce bene. Ma prima di Mc, Paolo aveva scritto: “Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù” (Rm 3, 25-26). “E camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 6,2).

[8] Umiltà non va dal basso in alto, ma dall'alto in basso. Non significa che il più piccolo riconosca il più grande, ma che questi s'inchini con riverenza davanti al più piccolo. E' un grande mistero. Si può capire che il grande si abbassi graziosamente al livello del piccolo, lo stimi al suo giusto valore, senta la pietà che debolezza ispira, e faccia scudo di sé al suo carattere indifeso - umiltà è però solo quando il grande s'inchina con riverenza dinanzi al piccolo. Quando Francesco d'Assisi s'inginocchia davanti al trono del Papa, non è umiltà, ma, credendo egli alla dignità del Papa, è soltanto verità; umiltà è la sua quando s'inchina davanti al povero, umiliandosi al suo livello non soltanto come benefattore o come animo nobile che onora in lui l'uomo, ma col cuore illuminato da Dio, che davanti alla sua indigenza si getta ai piedi come davanti a una misteriosa maestà. Chi non vede questo, deve vedere in Francesco un esaltato. In realtà egli non ha fatto altro che attuare in sé il mistero di Gesù. All'ultima cena si è inginocchiato davanti ai suoi apostoli e ha lavato loro i piedi non per rinnegare se stesso, ma per rivelare loro il divino mistero dell'umiltà (Gv 13, 4 ss.).

 

 

[9] Sulla croce ci viene dunque svelato Dio stesso come amore. Nell’economia della salvezza, Dio non rivela “qualcosa” ma rivela se stesso (DV 2). L’amore di Dio rivelatosi sulla croce rende visibile Dio stesso come amore. Sulla croce egli si rivela come colui la cui essenza è amore. Dio è l’amore.

[10] Anche noi siamo passati dalla croce “scandalo” alla croce come trionfo; infatti,  con la svolta costantiniana e il famoso presagio “In questo segno vincerai”, la croce non è più vista come scandalo. Comincia a predominare il motivo della croce vittoriosa, vessillo di trionfo. Già in Gregorio di Nazianzo troviamo l’espressione: “il segno invincibile della croce” (Oratio 45,21). Ancora a questa connotazione vittoriosa s’ispira l’arte romanica, nel modo ad esempio in cui rappresenta la croce e la posiziona all’interno della chiesa sull’arco trionfale, all’entrata del presbiterio.

 

[11] Dai sotterranei della storia, Milano 1971, 176-177.

[12] François Varillon, Gioia di credere, gioia di vivere. Il mistero di Cristo, rivelazione di Dio amore, proposta di vita nuova, EDB, Bologna1981, 71-80.

[13] Massimo il Confessore, La vita di Maria, n. 89: Testi mariani del primo millennio, 2, Roma 1989, 253.

[14] (Benedetto XVI, Udienza Generale, Mercoledì, 7 marzo 2012).

[15] Benedetto XVI, Messaggio per la XLVI giornata mondiale delle comunicazioni sociali, "Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione" , 20 maggio 2012.

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:39

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