MISSIONE COME GIUSTIZIA, PACE E CURA DEL CREATO; ALCUNE CONSIDERAZIONI.

Pubblicato in Missione Oggi

Giustizia e pace e i popoli indigeni. Sensibilità che mi proviene dall’esperienza

 

Per rispondere alla richiesta di dare una visione personale riguardo al rapporto tra missione e giustizia e pace, parto da un “fare memoria” nel mio impegno missionario.

Risalgo agli anni 1967-1970 in cui a contatto diretto con la realtà indigena di Puerto Leguizamo mi sono fatto un’opinione che, attraverso un graduale e progressivo cambiamento di sensibilità, che col tempo è diventata convinzione.

 

Ciò avvenne  sotto l’influsso del Vaticano II, l’incontro Missionario promosso dal Demis-Celam di Melgar 1968, (anteriore a Medellin), le nuove prospettive nel campo missionario ad gentes di America Latina e l’influenza di Monsignor Cuniberti.

Da questo periodo e questo contesto la mia opzione di giustizia e pace l’ho relazionata e rapportata ai gruppi indigeni del Caqueta’ e del Putumayo.

Infatti dopo un’esperienza pastorale tra i colonos delle colonizzazioni della riforma agraria (INCORA) nel settore al piè de monte andino del Caqueta’ a Puerto Leguizamo, con P. Silvio Vettori, mi sono trovato quasi paracadutato tra indios Uitotos del Rio Caqueta’ e Putumayo, inganos e Secoya peruviani del rio Putumayo.

Due aspetti furono determinanti. Il primo l’uso del termine “racionales” utilizzato dagli indios Uitoto, Bora, Coreguaje, termine che proveniva dall’incontro/scontro con i “ caucheros” con cui gli indios indicavano gli appartenenti della società maggioritaria e dominante, i civilizzati, in opposizione agli indios “selvaggi”. Residuo della triste esperienza delle popolazioni indigene amazzoniche delle “caucherias” (estrazione del caucciù) del secolo passato.

 

Posteriormente, verso il secondo semestre del 1971, Mons. Cuniberti mi incaricò di avviare il Centro Indigenista del Caqueta’ con l’obbiettivo di offrire un’attenzione alle necessità di salute, istruzione, difesa e promozione dei gruppi etnici del Vicariato. In altre parole fare sì che “l’indigeno fosse l’artefice del proprio futuro”.

La mia parrocchia divenne tutto il territorio del Vicariato Apostolico de Florencia e i miei fedeli gli indigeni dispersi in questo vasto territorio e con cui avrei camminato.

 

Per delineare un programma personale e di lavoro mi misi all’ascolto chiedendo loro quali fossero i desiderata e che cosa volessero queste popolazioni, quali fossero le loro urgenze primarie. In questo rapporto mi sono trovato da un lato di fronte alla resistenza dei “colonos” del Caqueta’ per i quali gli indios erano un disturbo che impedicano la colonizzazione dell’amazzonia, gente retrograda che bisognava civilizzare e quindi far scomparire. La stessa idea era profondamente diffusa nell’amministrazione pubblica del Caqueta’ e del Putumayo. In aggiunta dall’altro lato scoprì anche tra gli stessi indigeni (Coreguaje, Uitoto, Ingano), era diffusa e radicata l’idea che “indio no es capaz”. Un giudizio negativo sulle proprie capacità.

 

Questi due fatti mi convinsero che l’opzione per le popolazioni amerindie era una opzione di giustizia e pace.

Giustizia perché la società maggioritaria (compresa la Chiesa istituzione) aveva un debito storico di giustizia con i popoli amerindi considerati minori di età, “pobres indiecitos”, e quindi incapaci di esercitare diritti e a cui era stata negata la possibilità di esercitare i loro diritti umani più comuni. Quindi ogni azione che favorisse la promozione umana, istruzione, riconoscimento del territorio in favore degli indios era un dovere storico di giustizia.

 

Non fu facile da parte della società maggioritaria del Caqueta’, del Putumayo e della Chiesa istituzione il cambiamento di mentalità di considerare gli “indios” “altri” e uguali.

 

Alcune azioni promosse in questo senso.

La prima azione fu la ricuperazione della maloca che era caduta in disuso.

Un secondo aspetto furono le azioni orientate al ricupero o al riconoscimento delle terre e del territorio. E’ sempre stata mia opinione che l’amazzonia è terra degli indios.

Un terzo aspetto, il più impegnativo, fu nel campo dell’ istruzione con l’obbiettivo di offrire alle comunità il diritto di avere i propri maestri indigeni.

Iniziai il mio impegno nel Centro Indigenista con 4 scuolette e conchiusi lasciando 24 scuole indigene. Preparai i primi maestri coreguaje e uitoto e mi battei per la professionalizzazione degli studenti coreguaje e uitoto del centro di capacitazione “Mama bwue’ rejoache’”.

 

Che cosa significò’ tutto questo? Significò una conversione di mentalità, maniera di pensare e di considerare la realtà indigena.

Inoltre significò saper accettare gli sbagli e gli errori e di saper imparare dagli errori. Infine affinché i gruppi indigeni fossero gli artefici del proprio futuro dovevo ammettere che incontrassero il loro cammino e non il mio. E ciò lo costatai nei nove anni che lavorai nella Conferenza Episcopale Colombiana.

Questo lavoro non fu facile non solo per le resistenze ma anche per la presenza del M19 prima e delle FARC posteriormente.

 

Sono convinto che la sfida missionaria o “missione ad/inter/intra/versus gentes” per l’America Latina è rappresentata dalla popolazione amerindia e afro discendente.

  1. Riguarda l’aspetto dei diritti umani nel loro insieme: ma soprattutto riconoscere i diritti di diversità culturale e di proprietà del territorio (amazzonico e, per Colombia, Costa pacifica)
  2. Nell’aspetto evangelizzatore ed ecclesiale il sorgere di una chiesa con “volto amerindio” amazzonico e andino, e un “volto afro discendente”.

Qui si potrebbero spendere pagine in ciò che penso sia un “volto amerindio e afrodiscendente”

 

Missione come giustizia e pace.

Nell’ impegno missionario “ad/inter/infra/versus gentes” concreto, nel lavoro di campo, si stabilisce una stretta relazione tra missione e giustizia.

Per questa ragione sostengo che una missione “ad/inter/infra/versus gentes”  specifica, non unica, in America Latina sia la presenza missionaria tra le popolazioni amerindie siano esse dell’amazzonia o della cordigliera delle Ande.

 

“Missione ad gentes” e “Giustizia e pace” si concretizzano nella vivenza in un contesto reale e puntuale. In caso contrario “missione ad gentes” e “giustizia e pace” terminano in elucubrazioni accademiche la maggior parte delle volte non applicabili.

La missione come giustizia e pace non si inventa, esiste nella realtà quotidiana, in un contesto storico economico, culturale, sociale, politico e religioso e non in astratto.

 

Mi sembra che il termine “giustizia e pace” utilizzato largamente nel passato nel campo religioso si sia sgonfiato, inflazionato. C’è stata un’ inflazione di riflessioni teoriche e di letteratura con un impegno piuttosto light nel campo pratico e specifico.

 

La stessa riflessione si estende pure al termine “missione” molto sviscerato e riflettuto che attualmente si incontra come in una nebulosa. Tutto è diventato missione nel generico e poco o niente nello specifico. Si è caduti in un puro nominalismo. E’ sufficiente dare una semplice occhiata alla profusa terminologia con speculazione annessa con cui e’ considerata la “missione ad gentes”: “missione inter gentes”, “missione intra gentes” e infine “missione versus gentes”. Ci possiamo chiedere, allora in che cosa consiste la “missione ad gentes”?.

 

Ci sono dei termini che hanno un contenuto molto specifico e che per la smania di teologizzare si sono svuotati del loro impegno spericolato e rischioso, come è il caso della “missione ad gentes”.

 

Allargare la missione “ad gentes e ad extra” Senza dubbio, le frontiere acquisteranno un significato non puramente geografico, ma anche sociale e culturale (cf RM, 37). Tuttavia, viviamo in un mondo globalizzato che ci sprona ad avere una visione mondiale delle sfide.

 

La partenza radicale dalla “terra”, dalla comunità, dagli affetti, dai riferimenti culturali, dai beni porta il discepolo a un autentico spogliamento di sé, per diventare ospite nella casa degli altri. C’è da domandarsi se non sia proprio questo tipo di esperienza che rivela la più profonda identità della vita religiosa missionaria “ad gentes”.

 

 

E’ pure similare il caso della scienza teologica che considera tutto in funzione a se stessa e conseguentemente è diventata una disciplina il cui linguaggio e i cui contenuti sono diventati inintelligibili per le persone comuni e mortali a cui dovrebbe rivolgersi per cui il linguaggio teologico finisce per essere un linguaggio compreso e utilizzato solo dagli iniziati come se il discorso su Dio fosse esclusivo di alcuni specialisti.

 

Il popolo della strada, delle messe domenicali non capisce e non comprende il linguaggio teologico e le questioni teologiche dibattute per incontrale fuori dell’orizzonte della sua vita, questioni che non l’interessano. Per non capire si allontana.

La teologia con il suo linguaggio, metodo e contenuti si allontana dal Vangelo, dal popolo e dalle persone. Per cui la Chiesa, in questo campo, sembra essersi rinchiusa in se stessa impossibilitando un dialogo chiaro, onesto, comprensibile e aperto con la realtà secolare. E’ urgente che la Chiesa parli con il cuore e parli al cuore, come affermava il cardinale Martini. Si ha l’impressione che gli interroganti e i contenuti che si formulano nel campo teologico non interessano all’uomo comune della strada, quell’“uomo” che dovrebbe essere la preoccupazione della pastorale, dell’avvicinamento e dell’ascolto.

 

Una volta si affermava che la filosofia era l’ancella della teologia, cioè al servizio della teologia.

Di fronte al panorama evangelizzatore attuale oserei affermare che ci dovrebbe essere un cambiamento di paradigma, cioè, che la teologia dovrebbe essere in funzione (ancilla) della pastorale e cambiare il metodo e il linguaggio utilizzato. Il Dio rivelato non è un Dio della speculazione ma un Dio dell’ esperienza.

 

Ritornando al tema “giustizia e pace” e “missione ad gentes” ho l’impressione che pure questi aspetti soffrano oggi di una specie di inflazione per la poca referenza “in re”. In altre parole molte riflessioni, troppo spesso ripetitive, staccate dalla realtà concreta dimenticando così il soggetto di questa preoccupazione pastorale. Si sono dette molte cose al riguardo si è teorizzato e speculato molto rimanendo però in una nebulosa di buoni propositi.

 

Si afferma che la missiologia latinoamericana non sia nata nei chiostri universitari ma sul campo missionario specifico “ad gentes”, dalla vita concreta degli evangelizzatori (Vescovi, Missionari/e, religiosi/e, laici e popolo) nell’ impegno concreto con popolazioni specifiche, soprattutto i popoli indigeni andini e amazzonici e gli afroamericani, nel loro contesto storico quotidiano di lotta per la vita: sopravvivenza fisica e culturale, salute, istruzione, territorio-terra e autonomia. Ambiti a cui dovrebbe ritornare la riflessione teologica e l’azione pastorale per una nuova evangelizzazione.

 

Mi sembra che, in questi momenti storici, la chiesa, e soprattutto noi missionari, dobbiamo ripensare la missione ad gentes. La pastorale “ordinaria” e la nuova evangelizzazione devono essere pensata come “annuncio in movimento”, con una maggior mobilità, senza aver come punto di riferimento la struttura giuridica della parrocchia o della curia diocesana.

Pensare e considerare la pastorale come in stato di missione e non in stato di conservazione, in contrapposizione alla stabilità sinonimo di sicurezza.

 

Il missionario ad gentes non è un missionario per stabilirsi ma come insegna l’esempio di Gesù “che percorreva … insegando … annunciando il vangelo del regno ….”. Gesù non rimane fermo, aspettando che la gente arrivi, ma va verso la gente. E’ segno di contraddizione contro la stabilità e la sicurezza.

Quindi uno stile di missione più itinerante e meno stabile, meno modellato sul paradigma della parrocchia o della curia.

 

In questo supposto periodo di crisi ambientale, crisi economica ecc. gli amerindi andini e amazzonici come gli afro discendenti sono un modello sperimentato di capacità di sopravvivere con lo stretto necessario e di convivenza con la natura, questo soprattutto nell’Amazzonia. Ciò rappresenta una sfida alla mentalità di accumulazione e consumista in cui oggigiorno si vive e che ha pervaso anche la chiesa.

Insegnano al mondo, alla chiesa e ai religiosi la capacità di discernere tra ciò che è necessario e ciò che è superfluo.

Insegnano allegria per la vita anche in situazioni di ristrettezze economiche; rispetto, convivenza e cura della natura e dell’ambiente. Insegnano come usufruire e non capitalizzare, usare e non impadronirsi.

 

Mi sembra che per un rinnovamento missionario “ad gentes” si dovrebbe scegliere di mettersi chiaramente dalla parte degli sconfitti e di coloro che corrono il pericolo di essere sconfitti, la cui causa è persa come segno di contraddizione verso i risultati, verso il successo, come i gruppi in pericolo di estinzione. Ciò potrebbe sembrare masochismo ma è una sfida alla sicurezza di cui sembra ammalata anche la Chiesa: la sicurezza della dottrina, sicurezza delle posizioni e non compromettersi.

 

 

 

Allargare la missione “ad gentes e ad extra”

 

“Ad Gentes” significa movimento fisico, psicologico, affettivo ed effettivo verso un ALTRO.

La traversata del mare porta i discepoli verso altre sponde, verso le terre degli altri. L’uscita da sé ha come orizzonte i confini della terra. È sempre un andare “estroverso” oltre tutte le frontiere. Questa universalità non significa “un compito specifico”: riguarda l’essenza stessa e la dinamica della missione. Se la nostra missione fosse geografica, culturale, etnica, sociale o limitata ecclesialmente, e si rivolgesse soltanto a “noi”, essa diventerebbe escludente. Giovanni Paolo II, nella sua enciclica missionaria, afferma: «Senza la missione “ad gentes” la stessa dimensione missionaria della Chiesa sarebbe priva del suo significato fondamentale e della sua attuazione esemplare» (Redemptoris missio, 34).

 

Senza dubbio, le frontiere acquisteranno un significato non puramente geografico, ma anche sociale e culturale (cf RM, 37). Tuttavia, viviamo in un mondo globalizzato che ci sprona ad avere una visione mondiale delle sfide.

La passione per il mondo, propria della vocazione cristiana, si esprime nel sentire e vibrare profondamente per l’umanità intera, e nell’essere capaci di compiere gesti coraggiosi e concreti di solidarietà, condivisione e prossimità con gli altri popoli. Solo così diventeremo un segno profetico di una nuova umanità mondiale, fraterna e multiculturale.

La partenza radicale dalla “terra”, dalla comunità, dagli affetti, dai riferimenti culturali, dai beni porta il discepolo a un autentico spogliamento di sé, per diventare ospite nella casa degli altri.

L’esperienza missionaria è sempre segnata dall’itineranza, dallo spogliamento, dalla leggerezza e dalla provvisorietà, da un continuo entrare e uscire, da un esodo pasquale di morte e risurrezione. La missione non getta mai radici da nessuna parte.

 

 

 

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:39
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