La figura di Paolo missionario negli Atti

Pubblicato in Missione Oggi
L’interesse degli Atti degli Apostoli per la figura di Paolo è un dato evidente. Oltre che presentare la sua conversione da persecutore ad evangelizzatore perseguitato (At 9) e il suo significativo inserimento nella comunità antiochena (At 11,25-25; 12,25), la narrazione degli Atti – a partire dal cap. 13 – lo vede come “eroe-protagonista” con la sua attività di missionario e di fondatore di chiese (cf. At 13,1-20,16) ed infine nella sua funzione di testimone “universale” posto sotto accusa nella fase processuale (cf. At 20,17-28,31). Questa prolungata attenzione a presentare lo sviluppo della figura e dell’opera evangelizzatrice di Paolo colloca indubbiamente gli Atti, all’interno della variegata recezione della memoria paolina prodottasi negli ultimi decenni del 1° sec., su quello che può essere denominato un “polo biografico”, fortemente interessato a mantenere vivo e a celebrare, in funzione della situazione delle chiese lucane, un Paolo “missionario delle genti”.

Se negli Atti è innegabile questa recezione marcatamente “biografica” dell’eredità paolina, occorre però precisare subito che questo libro non si presenta come una biografia di Paolo. Esso vuole essere piuttosto un’opera storiografica degli inizi del cristianesimo. In questo quadro storiografico degli Atti, Paolo è preceduto dall’attività kerigmatica di Pietro e degli Apostoli e dall’opera di evangelizzazione di Stefano, di Filippo e degli ellenisti che diffondono la Parola al di fuori dei confini d’Israele. Egli è dunque certamente “l’eroe”, a cui più della metà del libro è dedicata, ma la sua figura va considerata all’interno di un progetto storiografico più ampio che, negli studi recenti, è visto sempre più nella sua funzioneapologetica e identitaria.


Con la sua opera, infatti, Luca sembra voler fornire a comunità del tempo subapostolico, che hanno conosciuto un distacco definitivo dal giudaismo e sono proiettate nel mondo greco-romano, una identità che sia spendibile all’esterno sia nei confronti del giudaismo sia nell’ambiente dell’impero romano che sta diventando in prospettiva il loro habitat futuro. Questo progetto lucano di definizione del cristianesimo ha l’ambizione di integrare “Gerusalemme e Roma” con ciò che esse rappresentano. Gerusalemme è il simbolo della continuità con la storia della salvezza iniziata con Israele, di cui il cristianesimo costituisce il compimento e da cui il cristianesimo eredita il meglio. Roma è il simbolo di un impero la cui ideologia e struttura universaliste sono viste come il terreno favorevole in cui il cristianesimo può innervare la promessa di salvezza offerta a tutti i popoli. Gerusalemme è dunque la radice e il passato, Roma è la proiezione e il futuro del cristianesimo.

La figura e l’attività missionaria di Paolo, non vanno perciò considerate isolatamente, ma vanno situate dentro questo vasto progetto e vanno comprese come “il vettore” attraverso il quale questa nuova identità del cristianesimo giunge a piena espressione. Noi ci sforzeremo pertanto di rileggere sinteticamente, dentro questo ampio quadro, qualche aspetto significativo e rilevante dell’opera missionaria di Paolo.

1. Continuità e discontinuità con Israele

Alla figura di Paolo è affidato dal progetto storiografico lucano il compito di mettere in luce la continuità del cristianesimo con la storia di salvezza d’Israele e la discontinuità con il giudaismo. Il Messia Gesù, con la sua morte-resurrezione ha realizzato le profezie e la speranza d’Israele. Ma questo compimento ha messo in evidenza anche che la sua messianicità è universale e che la salvezza da lui realizzata va proclamata a tutte e genti (cf. Lc 24,44- 47), pur nella fedeltà alla priorità storico-salvifica d’Israele (cf. At 3,26; 13,46), figlio dei profeti ed erede dell’alleanza con Abramo (cf. At 3,25). Proprio l’annuncio di questo messianismo universale viene, però, a costituire la pietra d’inciampo per l’Israele storico rappresentato dai giudei, che di fronte ad esso si spaccano e che in parte reagiscono con l’incredulità e con l’opposizione violenta nei confronti degli evangelizzatori. Questa continuità e discontinuità costituirà l’oggetto delle due grandi apologie (cf. At 22 e 26) di Paolo “testimone” posto sotto accusa. In esse sarà la vicenda stessa dell’apostolo trasformato, dall’incontro con il Risorto, da persecutore violento ad evangelizzatore universale, ad evidenziare questa continuità e discontinuità4. Ma questo aspetto, che diventa costitutivo per l’identità del cristianesimo, emerge in modo ricorrente nell’attività missionaria di Paolo fino al suo arrivo a Roma. Ed è su questa rilettura di Paolo missionario che vorremmo ora attirare sinteticamente l’attenzione.

1.1. Una scena programmatica: Antiochia di Pisidia (At 13,14-52)

Non è superfluo sottolineare che l’iniziativa del primo viaggio missionario è attribuita all’impulso dello Spirito: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati” (At 13,2; cf. v. 4). Lo Spirito è abitualmente; nel racconto lucano; la guida e il motore della missione. E’ lo Spirito, infatti, ad aprire in continuazione per i missionari inedite possibilità e nuovi spazi di evangelizzazione5. All’inizio di questo viaggio, l’apertura a cui lo Spirito sospinge Barnaba e Saulo rimane per il lettore enigmatica . Essa è segnalata semplicemente con “l’opera” alla quale lo Spirito li chiama. Solo alla conclusione dell’impresa (cf. At 14,26), al momento di rendere conto alla comunità antiochena dei risultati di essa, il lettore viene a conoscere che l’opera consisteva nel fatto che Dio “aveva aperto ai pagani la porta della fede” (At 14,27). L’avvio della missione ai pagani era dunque la novità a cui, sotto la guida divina dello Spirito, era finalizzata questa prima iniziativa missionaria. Alla luce di questa finalità, sottesa al primo viaggio missionario, diventa di particolare rilevanza la scena di Antiochia di Pisidia (cf. At 13,14-52) dove il passaggio del vangelo ai pagani viene da Paolo e Barnaba solennemente proclamato.

Nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (cf. At 13,16-41) Paolo pronuncia un’omelia che ha certamente una funzione programmatica ed è rappresentativa della sua predicazione ai giudei. Questo, infatti, è l’unico discorso kerigmatico dell’apostolo in ambiente sinagogale e di fronte ad un uditorio composto da giudei e da timorati di Dio. In esso Paolo opera prima di tutto una rilettura della storia di salvezza (vv. 17-25), ponendo esplicitamente come soggetto di tale storia “il Dio di questo popolo Israele” (v. 17). Questa rilettura presenta, in una prima sequenza (vv. 17-20a), l’iniziativa divina, rivolta verso “i nostri padri”, in una serie di eventi che vanno dall’alleanza con Abramo e la sua discendenza, all’esaltazione del popolo durante l’esilio in Egitto, all’esodo, alla cura permanente nel deserto, fino alla concessione in eredità della terra, dopo la distruzione di sette popoli.

Nella sequenza successiva (vv. 20b-25), l’intervento divino è caratterizzato dal dono dei “giudici” fino a Samuele “profeta”, dal dono di Saul, primo re, quale offerta di salvezza in risposta al bisogno del popolo, e, al culmine, dal “suscitamento” (cf. l’uso di egeirō) di Davide, prefigurazione del Messia. Su di lui la narrazione sosta, per esaltare la sua fedeltà a Dio e per ricordare la promessa di un discendente fattagli da Natan. L’espressione conclusiva (v. 23) si presenta come la sintesi di questa storia di salvezza che ora trova in Gesù il suo compimento: il Dio d’Israele, adempiendo la sua promessa, dalla discendenza di Davide “ha condotto” fuori (come aveva fatto nell’esodo: cf. v. 17) a favore del suo popolo il Salvatore (prefigurato dai “giudici”: v. 20) che è Gesù. La sua venuta messianica era stata preparata dal Battista con la predicazione ad Israele di un battesimo di conversione e con l’annuncio della comparsa di uno “più grande” (cf. vv. 24- 25).

La strategia retorica di questa parte del discorso è chiara. La permanente azione di Dio nella storia di salvezza d’Israele non faceva che prefigurare e preparare il suo intervento decisivo nella venuta del Salvatore Gesù. Il culmine di questa storia è visto nella tipologia Davide-Gesù, tesa ad evidenziare la messianicità di quest’ultimo. Di conseguenza, Paolo può ora arrivare ad affermare la tesi che tutta la storia narrata – storia della promessa fatta da Dio ai loro padri – è giunta a compimento nella persona di Gesù a favore dell’uditorio giudaico, con cui egli si sente solidale: “...a noi è stata inviata questa parola di salvezza” (v. 26) e “...la promessa fatta ai padri si è compiuta” (v. 32) Questa tesi la dimostra, dapprima, presentando la condanna a morte del giusto Gesù come compimento delle Scritture e proclamando l’azione risuscitatrice di Dio come conferma del disegno salvifico e come designazione di Gesù come Messia (vv. 27-31) e, poi, mostrando, a partire da passi scritturistici (cf. Is 55,3; Sal 16,10), che le promesse fatte a Davide si sono realizzate nella resurrezione di Gesù (vv. 34-37).

Se nella resurrezione Dio ha realizzato la promessa fatta ai padri e ha portato al culmine la storia di salvezza con Israele, a partire da essa si apre ora una prospettiva nuova e sorprendente per l’uditorio giudaico (vv. 38-39). Per mezzo di Gesù può essere annunciato, innanzi tutto a Israele, il dono della salvezza escatologica che consiste nella “remissione dei peccati”. Ma questa offerta di salvezza ha inaspettatamente una portata universale, che supera il particolarismo d’Israele, perché “chiunque crede” ottiene quella giustificazione che non era possibile mediante la legge mosaica. Improvvisamente al Paolo lucano è messa in bocca, seppur in forma rudimentale, la tipica teologia paolina della salvezza universale per la sola fede, ma essa risulta qui inquadrata dalla presentazione della continuità dell’azione salvifica di Dio a favore d’Israele.

Il Dio particolare d’Israele si è rivelato in Gesù il Dio universale che dona la salvezza a chiunque crede. E’ questa l’opera incredibile, al cui annuncio la missione paolina era destinata (cf. At 13,2; 14,26), e che i giudei, attraverso la citazione di Ab 1,5, sono messi in guardia dal rifiutare per non essere destinati all’esclusione dalla storia di salvezza (cf. v.40-41). L’universalismo cristiano è dunque in continuità con con la storia di salvezza d’Israele, ma proprio questo – come la minaccia di Abacuc lascia trasparire – può diventare la pietra d’inciampo per l’Israele storico, rappresentato dai giudei, e diventare la causa della discontinuità con esso.
La reazione alla predicazione di Paolo diventa una illustrazione di questa discontinuità. Ad un primo ed immediato successo tra “molti dei giudei e dei proseliti” (v. 43), segue il sabato successivo l’opposizione violenta dei giudei (v. 45) di fronte ad un uditorio disponibile all’ascolto che, comprendendo “quasi tutta la città” (v. 44), verifica anche la presenza dei pagani. E’ dunque l’annuncio fatto ai pagani che risulta inaccettabile al particolarismo giudaico.

Di fronte alla spaccatura dei giudei, Paolo e Barnaba riaffermano la priorità storicosalvifica d’Israele: “era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio...” (v. 46), ma attestano anche che tale priorità non deve giocare come fattore di esclusione dei pagani. Anzi l’offerta della salvezza ai pagani non è altro che obbedienza alla parola profetica di Is 49,6: “ti ho posto luce delle genti perché tu porti la salvezza fino ai confini della terra” (v. 47). In questa risoluzione della scena di Antiochia di Pisidia diventa chiaro che la discontinuità con il giudaismo è causata dalla non accettazione di una parte dei giudei di ciò che costituisce il compimento delle loro profezie, in particola di quell’opera sorprendente con cui Dio, risuscitando Gesù, ha aperto per tutti la salvezza.

Il successo finale che Paolo ottiene tra i pagani ad Antiochia di Pisidia e in tutta la regione (cf. vv. 48-49) allude proletticamente all’accoglienza positiva che il vangelo è destinato ad ottenere nell’ambiente pagano del mondo greco romano, mentre la persecuzione che i giudei scatenano prefigura altre scene di rifiuto che scandiranno la missione paolina e provocheranno il giudizio profetico dell’apostolo e il suo distacco dalla sinagoga (cf. vv. 50- 51).

1.2. Una discontinuità costantemente verificata

La spaccatura dell’uditorio giudaico di fronte all’annuncio del vangelo viene a costituire una costante dell’azione missionaria di Paolo. C’è un modello pressoché standardizzato che caratterizza alcune tappe dei viaggi di Paolo: entrata in città, predicazione nella sinagoga, prima risposta positiva, opposizione dei giudei (con passaggio della predicazione ai pagani) sollevazione delle folle da parte dei giudei, abbandono della città.
Questo modello, che già abbiamo visto rappresentato ampiamente ad Antiochia di Pisidia, si ripropone con variazioni ad Iconio (cf. At 14,1-6). In questa città, dopo un primo successo nella sinagoga con la conversione di molti giudei e greci, la parte dell’uditorio giudaico, che non ha creduto, sobilla i pagani, divide la città e si allea con i pagani per tentare un’opposizione violenta contro Paolo e Barnaba costringendoli alla fuga. Questi stessi giudei increduli, visto fallito il loro proposito, si ripresentano nella successiva tappa di Listra e, con il concorso di una folla da loro istigata, lapidano Paolo (cf. At 14,19).

Qualcosa di simile accade anche nella missione di Paolo a Tessalonica (cf. At 17,1-9). La predicazione nella sinagoga, oltre al successo tra i greci timorati di Dio e tra le donne nobili, vede pure l’adesione di “alcuni” giudei. Ma il resto dei giudei induriti, gelosi per la conversione dei “timorati”, mettono in subbuglio la città, con l’appoggio di alcuni facinorosi, e trascinano Giasone, che ha ospitato i missionari, davanti ai politarchi. Questi stessi giudei vanno a creare agitazione anche a Berea, dove i loro connazionali si erano mostrati più disponibili all’annuncio evangelico, e costringono alla fuga Paolo e Sila (cf. At 17,10-14).

A Corinto, la prolungata e intensa opera di Paolo nella sinagoga, per convincere i giudei circa la messianicità di Gesù, trova da parte di costoro un’opposizione violenta che costringe l’apostolo al gesto profetico di condanna, con lo scuotimento delle vesti, e alla proclamazione della propria innocenza, uniti alla solenne enunciazione: “da ora in poi andrò dai pagani” (cf. At 18,1-6). La successiva predicazione nella casa del “timorato” Tizio Giusto, vede la significativa conversione del caposinagoga Crispo, con tutta la sua famiglia (cf. At 18,7-8), ma si conclude con sommossa dei giudei che giungono ad accusare Paolo di fronte al procuratore Gallione (cf. At 18,12-16). Anche la predicazione per tre mesi nella sinagoga diEfeso, trova l’ostinato rifiuto di una parte di giudei che induce Paolo a lasciare la sinagoga per continuare l’opera di convincimento nella scuola di Tiranno, con un grande successo tra giudei e greci di tutta la provincia d’Asia (cf. At 19,8-10).

L’opera missionaria di Paolo, dunque, che, rispettando la priorità storico-salvifica d’Israele, privilegia dapprima le sinagoghe per convincere i giudei del compimento delle Scritture in Gesù Messia, incontra la continua spaccatura di questo popolo e il rifiuto violento di una parte, spesso dovuto al successo del vangelo tra i pagani “timorati di Dio”.

L’ultimo confronto di Paolo con i giudei di Roma vede in un primo momento (cf. At 28,17-22) l’apostolo affermare la propria fedeltà al suo popolo e al contempo il suo essere testimone perseguitato “a motivo della speranza d’Israele”. L’accorata difesa della propria giudaicità ottiene una specie di riconoscimento autorevole dai rappresentanti della comunità giudaica. Quando però, in un secondo momento (cf. At 28,23-28), Paolo, richiesto di illustrare quella “setta” che è il cristianesimo, si dedica di fronte ad un folto uditorio giudaico a mostrare il compimento delle profezie nel Messia Gesù, verifica ancora per l’ultima volta quella divisione dei giudei tra credenti e increduli che lo induce a vedere realizzata la parola la parola di Is 6,9-10 sul costante indurimento d’Israele e a proclamare solennemente il passaggio del vangelo ai pagani, i quali “l’ascolteranno” con disponibilità. La chiusura “aperta” del libro degli Atti (cf. At 28,30-31), nella quale è presentato Paolo che “per due anni” annuncia con coraggio e senza impedimento il Signore Gesù “a tutti quelli che venivano a lui”, senza alcuna distinzione tra giudei e pagani, fa da ponte tra la missionepaolina e l’evangelizzazione universale in cui sono impegnate le comunità lucane.

La figura missionaria di Paolo acquista così tutto il suo spessore di “vettore” dell’identità cristiana rispetto al giudaismo. Da una parte infatti Paolo è l’annunciatore e il testimone di un cristianesimo che, nel suo universalismo, si presenta come l’erede della speranza d’Israele e il compimento delle profezie messianiche. In tal modo egli accredita il cristianesimo come religione che ha radici lontane nel tempo: un aspetto questo apprezzato nel mondo romano, sempre sospettoso verso le nuove religioni. Dall’altra, Paolo, nella sua opera evangelizzatrice arrivata fino al cuore dell’impero, rende evidente che la separazione del cristianesimo dal giudaismo non è dovuta all’infedeltà del cristianesimo alla propria matrice giudaica, ma alla costante spaccatura dei giudei di fronte al compimento, in Gesù Cristo e nell’universalismo dell’annuncio cristiano, di quella particolare storia di salvezza che Dio aveva iniziato con Israele.

2. L’inserimento nel mondo greco- romano

Il Paolo degli Atti non solo diventa paradigmatico della continuità e discontinuità dell’universalismo cristiano rispetto al particolarismo giudaico. Egli è anche il missionario che mette in evidenza come questo universalismo dell’annuncio cristiano possa trovare casa nel nuovo ambiente dell’impero romano. Luca, infatti, proprio in occasione dei viaggi missionari di Paolo, si mostra, non solo informato, ma anche per certi versi ammirato dell’ideologia universalista che connota l’impero romano e che si esprime nella cultura, nella rete di comunicazioni per terra e per mare, nella ricchezza delle città, nel funzionamento delle istituzioni, nell’apprezzamento del diritto romano e del suo ideale di equità. Tale ammirazione - non certo ingenua ma critica, capace di cogliere di conseguenza anche i limiti e i pericoli - lascia intravedere come Luca consideri questo nuovo ambiente, in cui le comunità cristiane stanno innervandosi, come un habitat favorevole alla diffusione del vangelo nella sua destinazione “fino ai confini della terra” (cf. At 1,8). L’accesso al Dio universale, annunciato dal cristianesimo, sembra dunque essere favorito proprio dall’universalità dell’impero romano e il successo della missione paolina, al di fuori della sinagoga, appare come una promessa per l’avvenire del cristianesimo.

Il primo accenno a Paolo, come figura emblematica del positivo inserimento del cristianesimo nel mondo greco-romano, si ha nel momento in cui l’apostolo accosta per la prima volta un autorevole esponente della struttura imperiale. L’incontro a Pafo con il proconsole romano Sergio Paolo, infatti, vede il cambiamento del nome dell’apostolo.

Improvvisamente accanto al nome ebraico grecizzato “Saulo” compare il nome romano “Paolo” (cf. At 13,9), che sarà in seguito costantemente utilizzato. Nel momento, dunque, nel quale il missionario prende contatto con il mondo greco-romano, Luca annota il mutamento del nome quasi ad indicare lo sforzo di inculturazione che il cristianesimo è chiamato a fare nel passaggio dalle sue radici giudaiche al futuro che lo attende nell’ambiente dell’impero romano. Al contempo la segnalazione conclusiva del “venire alla fede” del proconsole romano (cf. At 13,12), colpito dalla predicazione di Paolo, lascia intravedere la capacità di penetrazione del cristianesimo in questo nuovo mondo e l’attrazione che esso è in grado di esercitare anche negli strati sociali più alti della società romana.

A questo incontro, dalla chiara funzione prolettica, Luca fa seguire altre scene dell’attività missionaria di Paolo in cui il cristianesimo, da lui rappresentato, è chiamato a confrontarsi con situazioni culturali diverse; ad innestarsi, con il favore divino, in un ambiente tipicamente romano; a venire a contatto con le strutture giuridiche dell’impero., presso le quali sembra incontrare garanzia e protezione. L’insieme di questi episodi drammatici sembra delineare un quadro sostanzialmente positivo, destinato a dare fiducia alle comunità lucane nel loro compito di trovare un’identità spendibile nel mondo imperiale.

2.1. Listra e Atene: due mondi culturali agli antipodi

Il legame tra queste due tappe è stato spesso considerato semplicemente sotto il profilo della somiglianza tra i due discorsi ad un uditorio pagano che esse presentano: il breve discorso di Listra (cf. At 14,15-17) costituirebbe un semplice abbozzo destinato a preparare e a far risaltare il più completo e articolato discorso all’Areopago di Atene (cf. At 17,22-31)12. Recentemente però è stato bene messo in evidenza come questi due momenti dell’azione missionaria di Paolo in contesto pagano, pur nelle loro somiglianze strutturali, rappresentino l’impatto del messaggio cristiano con due ambienti culturali che, nella mappa dell’antica etnografia, possono essere considerati agli antipodi.

Posta al culmine del primo viaggio missionario, destinato ad aprire la porta della fede ai pagani, la tappa di Listra (cf. At 14-8-20), nella regione della Licaonia, viene ad essere emblematica per l’incontro del cristianesimo con un contesto pagano dai contorni culturali e religiosi particolari. La Licaonia, infatti, è una zona montuosa e remota dell’Asia Minore che l’etnografia e mitografia antiche ritenevano abitata da popolazioni rudi e violente, dominate da despoti, chiuse al mondo esterno e caratterizzate da un idioma dialettale, segnate da una religiosità ingenua ed acritica. Luca sembra conscio di tale contesto quando accenna all’evangelizzazione dei “dintorni” di queste città (cf. At 14,7),

costituiti da villaggi rurali, ma soprattutto quando ci offre alcune pennellate sulla situazione culturale-religiosa di Listra: la presenza di un piccolo tempio alle porte della città; un unico sacerdote di Zeus; una festa popolare con il sacrificio di tori; una popolazione che parla il dialetto “licaonio” e che credulonamente ravvisa in Paolo e Barnaba gli dei Hermes e Zeus in forma umana, sulla falsariga della leggenda di Filemone Bauci (cf. At 14,11-13). In questo contesto, i missionari potrebbero sfruttare l’ingenuità religiosa a proprio favore e trarne vantaggi. Al contrario, essi reagiscono con una serie di gesti che nell’antichità erano riconosciuti come tipici dei saggi e filosofi che aborrivano il travisamento operato nei loro confronti da gente credulona: si stracciano le vesti, scendono in pubblico, dichiarano la loro condizione di uomini (cf. At 14,14-15a). Proprio la pubblica dichiarazione della loro condizione di uomini apre ai missionari lo spazio per presentarsi – in un breve discorso – come semplici messaggeri del Dio (biblico) trascendente e creatore che, nella sua provvidenza, si è sempre preso cura dei destinatari e per interpellare costoro a convertirsi da una vuota idolatria al Dio vivente da essi annunciato (cf. At 14,15b-17).

Alla fine, riescono a far desistere la folla, ma non riescono ad impedire che questa stessa folla credulona, sobillata dai giudei arrivati da Antiochia e da Iconio, finisca per lapidare Paolo lasciandolo mezzo morto (cf. At 14,18-19). Il quadretto conclusivo, con “i discepoli” che raccolgono Paolo e lo riportano in città (cf. At 14,20), lascia intravedere che anche qui, oltre allo storpio guarito divenuto credente (cf. At 14,8-10), si è costituita una piccola comunità cristiana, frutto significativo dell’opera evangelizzatrice e segno di speranza per il futuro della missione.

E’ indubbio, a nostro avviso, che questa tappa della missione paolina rappresenta un cristianesimo capace di entrare anche nelle zone più remote e impenetrabili per lo stesso impero romano; di confrontarsi con una religiosità pagana ingenua, senza sfruttare a proprio vantaggio – accusa che verrà in seguito rivolta al cristianesimo – la creduloneria di gente primitiva e sopportandone invece la reazione violenta; di far nascere, anche in questo contesto, un gruppo di discepoli che alimenta la fiducia per il futuro dell’evangelizzazione tra i pagani.

All’opposto di Listra è la tappa di Atene (cf. At 17,16-34). Dal punto di vista etnografico, la città di Atene rappresenta l’ambiente costiero, socialmente aperto alle differenze e al confronto, culturalmente elevato e critico, politicamente sensibile alla democrazia. Dal punto di vista storico, pur avendo perso lo splendore dell’epoca classica, Atene manteneva, al tempo di Luca, tutto il suo fascino ed era méta di un turismo culturale che andava a cercare in essa le vestigia delle grandi scuole filosofiche.

Certamente anche Luca deve aver guardato a questa città con questo sguardo di nostalgica meraviglia e ha fatto della missione paolina ad Atene l’emblema del confronto tra il cristianesimo e il mondo culturale greco-romano. Della ricchezza di questo testo noi ci limitiamo a sottolineare qualche motivo.

Ad Atene, dopo un primo contatto con la sinagoga, il metodo missionario di Paolo cambia e si adegua all’ambiente. La sua azione evangelizzatrice si sviluppa nella “agorà”, luogo laico ed aperto, simbolo della democrazia e del libero scambio delle idee (cf. At 17,17). Qui, senza più la protezione di un ambiente religioso, Paolo accetta di confrontarsi con un mondo pluralistico, con il quale è più faticoso trovare un punto d’interesse e di incontro comune. Qui, dove la molteplicità delle opinioni viene ad aggiungersi alla moltitudine dei simulacri pagani osservati in città, l’apostolo intensifica la sua azione evangelizzatrice perché il suo confronto è “quotidiano” e con i destinatari più diversi che si possono incontrare in questa “agorà”. Paolo, dunque, calcato sulla figura di Socrate che nell’agorà discuteva liberamente con tutti sui problemi umani, fa proprio anche il metodo di comunicazione tipico della cultura ellenistica.

Questo confronto si focalizza poi sulla discussione con i rappresentanti delle due scuole filosofiche più popolari: quella stoica e quella epicurea. La reazione che Paolo ottiene è da una parte la squalifica della sua funzione di annunciatore, considerato un imbonitore senza cultura alla stregua di certi filosofi da strapazzo che a quel tempo predicavano per le strade, e dall’altra il fraintendimento del suo messaggio, dal momento che “Gesù e la resurrezione (anastasis)” vengono colte come una coppia di divinità, di cui i filosofi non avevano mai sentito parlare e perciò risultavano “divinità straniere”. La fatica di rendere comprensibile l’annuncio cristiano in un contesto culturale in cui domina il desiderio della conoscenza e delle ultime novità è evidente (cf. At 17,18-21).

L’occasione di un discorso all’Areopago viene utilizzata da Paolo per un annuncio che al fondo ricalca lo schema tipico del kerigma cristiano in ambiente pagano (cf. 1Ts 1,9-10): la proclamazione del Dio vivente e vero e del giudizio ultimo che questi attuerà. Ma la singolarità sta innanzi tutto nella sottigliezza retorica con cui l’apostolo cerca un punto di contatto con il suo uditorio: “cio che ignorando venerate, questo io vi annuncio” (cf. At 17,22-23). L’uso enfatico del neutro nei due pronomi crea una distanza tra il dio ignoto del pantheon greco e l’unico Dio creatore che Paolo vuole annunciare, ma al contempo le due realtà hanno in comune che sono “ignorate” dagli ateniesi e che hanno a che vedere con “il divino” che è da loro venerato. In tal modo Paolo ottiene il duplice effetto di sottrarsi all’accusa di portare “divinità straniere” e di creare lo spazio per quella che non è un’argomentazione di teodicea, ma un vero e proprio annuncio del Dio biblico della creazione.

Singolare poi è la modalità dell’annuncio del Dio creatore, con la conseguente critica alla religiosità e al culto idolatrico (cf. At 17,24-29). Qui il Paolo lucano sembra giocare su un doppio registro. Da una parte, infatti, tutte le affermazione sulla creazione del mondo, sulla creazione dell’uomo in vista della ricerca di Dio e sulla vicinanza di Dio all’uomo possono essere ricondotte alla prospettiva biblica. Dall’altra parte, le espressioni e i motivi che ricorrono in questa parte del discorso riescono comprensibili ad un orecchio greco, dal momento che essi gli erano familiari a partire soprattutto dalla filosofia religiosa stoica, nella quale era presente anche una forte critica, simile a quella fatta da Paolo, ad un certo tipo di religiosità idolatrica. Lo sforzo evidente dell’annuncio paolino è quello di mettere in atto un tentativo di transculturazione. Pur restando, infatti, fedele alla rivelazione biblica, tale annuncio si esprime attraverso un linguaggio, dei riferimenti e delle modalità espositive estranee alla Bibbia e comprensibili invece ad un uditorio di formazione ellenistica, verso il quale è gettato un ponte e con il quale viene a crearsi un punto di contatto. Certo rimane una distanza notevole tra l’universo di pensiero di stampo panteistico in cui le forme espressive e i motivi utilizzati hanno la loro matrice e la prospettiva biblica del Dio creatore e provvidente. Ma la valorizzazione del meglio che la riflessione ellenistica ha prodotto come presentimento di Dio costituisce una base che, purificata, corretta e trascesa, può aiutare la ragione ad acconsentire all’inevitabile salto della fede.

La perorazione finale (cf. At 17,30- 31), pur facendo riferimento al motivo del giudizio divino familiare all’uditorio, segnala, nella storia della salvezza, una svolta decisiva che domanda “a tutti e dovunque” la conversione proprio in vista di tale giudizio. Nuovo è poi l’accenno che il giudizio divino sarà attuato per la mediazione “di un uomo designato da Dio” che egli ha accreditato a tale funzione mediante l’atto con cui lo ha risuscitato dai morti. Tornano, dunque, in questa conclusione i contenuti iniziali, tipicamente cristiani, della predicazione dell’apostolo: Gesù e la resurrezione (cf. v. 18). Ma diventa chiara anche la finezza pedagogica con cui Paolo li ripropone. Il nome di Gesù è taciuto e la resurrezione è menzionata come un’iniziativa divina di accreditamento. L’intento evidente è quello di impedire l’equivoco iniziale, per il quale Gesù e la resurrezione erano stati percepiti come “divinità straniere”. Questo accenno reticente o sobrio sembra obbedire alla strategia retorica della “insinuazione”, molto simile all’arte maieutica socratica. Essa tende ad incuriosire l’uditore, a suscitare in lui domande che lo spingano ad ulteriori incontri e delucidazioni, nella consapevolezza che le realtà annunciate richiedono un lungo tempo di assimilazione per un’eventuale accoglienza nella fede. In questa ottica la reazione finale - “ti ascolteremo su questo ancora un’altra volta” (At 17,32) - spesso letta negativamente, potrebbe essere la conclusione voluta e cercata dall’annunciatore. Anche solo in una rilettura sintetica, questo annuncio di Paolo appare notevole come tentativo di confronto tra il messaggio cristiano e quella cultura ellenistica con cui il cristianesimo, impiantato nel mondo greco- romano, dovrà inevitabilmente fare i conti.

2.2. Filippi: il cristianesimo nel mondo romano

La tappa missionaria di Paolo a Filippi (cf. At 16,11-40) ha, nel progetto storiografico lucano, una rilevanza che talora non gli è riconosciuta. Essa sembra illustrare infatti la legittimazione divina del trasferimento del cristianesimo nell’ambiente della romanità. Di fatto gli accenni alla romanità si moltiplicano in questo significativo episodio drammatico. Filippi è segnalata fin dall’inizio come “colonia romana” (cf. v. 12): qualifica unica, nonostante Paolo avesse già visitato altre colonie romane (ad es. Antiochia di Pisidia e Troade). Gli “strateghi” (cf. vv. 20.22.35.38) con i loro “littori” (cf. vv. 35.38) unitamente al carceriere, che è un funzionario romano, accentuano il clima di romanità. Paolo infine in questa città, per la prima volta, farà valere il suo privilegio di “cittadino romano” (cf. v. 37). Nel comporre questa scena di Filippi, paradigma della romanità; Luca sembra aver utilizzato un “modello culturale” conosciuto nell’antichità con il quale si tendeva a legittimare la presenza di un nuovo culto in una città. Il modello prevedeva: un impulso divino, mediante un sogno o una visione, destinato a orientare il passaggio del culto in un determinato luogo e il viaggio verso il nuovo ambiente; l’opposizione, spesso creata dalle autorità locali, verso il nuovo culto e l’iniziativa divina che incoraggiava i fondatori del culto e sconfiggeva prodigiosamente gli oppositori; l’instaurazione festosa del culto nella città o nella casa, dove la divinità riceveva accoglienza da parte di persone pie18. Un tale modello sembra chiaramente presiedere alla composizione della tappa di Filippi. Dopo l’assemblea di Gerusalemme (cf. At 15,1-35), che ha deciso solennemente l’accoglienza dei pagani nella chiesa senza la condizione della circoncisione e della legge, Paolo, con la sua équipe, intraprende il secondo viaggio missionario (cf. At 15,36- 16,5).

Due interventi negativi dello Spirito frustrano i progetti dei missionari, mentre la visione del Macedone, interpretata come segnale della volontà divina, li sospinge ad evangelizzare la Macedonia (cf. At 16,6-10). Sono evidenti segnali questi che è l’iniziativa divina a volere l’ingresso del cristianesimo nel nuovo ambiente macedone e a Filippi in particolare. Anche l’oracolo della schiava (cf. At 16,17) che qualifica Paolo e si suoi compagni come “servi del Dio Altissimo”, pur nella sua oscurità e ambivalenza, costituisce una ulteriore conferma dall’esterno di questa volontà divina.

Il viaggio, che dapprima si sviluppa nell’incertezza attraverso le varie regioni dell’Asia Minore e alla fine procede velocemente e senza ostacoli verso Filippi, è un segnale che Dio approva l’innesto del messaggio cristiano nell’ambiente romano di Filippi.

Il cristianesimo in questo nuovo mondo incontra opposizioni di diversa natura: dapprima lo spirito pitone (cf. At 16,16-18); in seguito le accuse dei padroni della schiava (cf. At 16,19-21); infine la dura carcerazione imposta dai magistrati (cf. At 16,23) . In questa lotta, l’intervento divino, che opera attraverso i missionari e a loro favore, riesce vittorioso: lo spirito è esorcizzato nel nome del Signore Gesù (cf. At 16,18); i padroni sono sottilmente smentiti perché le loro accuse appaiono mosse dall’avidità; soprattutto la duplice epifania dentro il carcere, evidente nel “grande terremoto” (cf. At 16,26) e nella “grande voce” (cf. At 16,28), realizza la liberazione dei missionari in vista dell’evangelizzazione del carceriere e della sua famiglia. La divinità dunque protegge i fondatori del cristianesimo al fine che la nuova religione trovi radicamento nel nuovo ambiente romano. I maggiori oppositori – i magistrati – sono alla fine costretti anch’essi al ripensamento, alla richiesta di scuse e, in ultima istanza, ad un implicito riconoscimento (cf. At 16,35-39).

Il cristianesimo trova alla fine, in seguito all’indicazione divina, il proprio spazio significativo nella “casa” di Lidia (cf. At 16,15.40) e del carceriere (cf. At 16,33-34). Le comunità cristiane formatesi accolgono la nuova fede con gioia e la celebrano nel pasto festoso dentro il carcere e nell’assemblea riunita presso l’abitazione di Lidia19. La tappa di Filippi, riletta brevemente in questa ottica, certifica come sia Dio a volere, attraverso l’opera missionaria di Paolo, che il cristianesimo si impianti nel mondo romano rappresentato in forma paradigmatica dalla “colonia” di Filippi. Da questo quadro le comunità lucane sono incoraggiate ad innervarsi nell’impero romano, sicure di rispondere aldisegno di Dio e di essere sostenute dalla sua protezione.

2.3. L’incontro con Gallione e la protezione del diritto romano

Già a Filippi il riconoscimento finale, esigito da Paolo e concesso dalle autorità, aveva lasciato intravedere che anche i cristiani, in quanto cittadini romani, possono pretendere le garanzie che il diritto romano offre. La scena di Paolo di fronte al proconsole Gallione, nella tappa missionaria di Corinto (cf. At 18,12-17), ribadisce in modo chiaro che le autorità romane, chiamate a gestire la giustizia, possono assicurare al cristianesimo, nonostante esse non siano sempre esenti da difetti, una protezione contro gli attacchi che ad esso sono rivolti. Durante il soggiorno a Corinto, in una visione notturna, il Signore aveva rassicurato Paolo: “...io sono con te e nessuno cercherà di farti del male...” (At 18,10). Questa promessa di protezione trova subito dopo illustrazione nel tumulto sollevato dai giudei contro l’apostolo, durante il quale egli viene condotto davanti a Gallione per una una “cognitio extraordinaria”, un’udienza cioè che è atta a stabilire se, ed eventualmente come, ci sia luogo a procedere giuridicamente contro l’accusato. A mediare, in un certo senso, questa protezione è proprio l’autorità romana. Di fronte, infatti, all’accusa, formulata dai giudei in un modo subdolo, nella quale si lascia intravedere un cristianesimo che istigherebbe ad un comportamento religioso contrario all’ordinamento romano21, il giudizio del proconsole è chiaro. Egli considera l’accusa come qualcosa di irreale22 e ritiene che nel comportamento di Paolo, non ci sia alcunché di criminoso o anche solo di fraudolento, posto in atto in modo malizioso (cf. At 18,14). Per questo egli giudica che non ci sia luogo a procedere e piuttosto valuta la questione come una disputa interna alla religione giudaica, rimandandone di conseguenza la soluzione al tribunale giudaico.

L’enfatica conclusione del proconsole è, a nostro avviso significativa ed esprime il punto di vista di Luca: “Io non voglio essere giudice di queste cose” (cf At 18,15). Con questa affermazione l’autorità romana sembra riconoscere la propria incompetenza a giudicare il cristianesimo, considerato questione interna al giudaismo. Tale relativo disinteresse, che si riflette in un atteggiamento neutrale del proconsole, mette in evidenza che il potere romano non ha nulla da imputare al cristianesimo da Paolo rappresentato.

L’episodio di Gallione non è isolato nel libro degli Atti. Ci sono altri momenti nei quali l’autorità romana non accetta le accuse rivolte a Paolo e indirettamente al cristianesimo. E’ il caso di Tessalonica (cf. At 17,5-9), dove le accuse di sovversione dell’ordine imperiale non trovano accoglienza. Sarà soprattutto la fase processuale di Paolo, nella quale le accuse si intensificheranno (cf. At 21,28; 24,5-6; 25,7), a mostrare che le autorità non ritengono che siano in questione crimini contro lo stato ma semplicemente dispute interne alla religione giudaica (cf. il tribuno Claudio Lisia in At 23,28-29; Festo in At 25,18-20a.25; Agrippa in At 26,30-32). C’è, dunque, una tendenza lucana a presentare, proprio attraverso la figura di Paolo missionario e testimone, un cristianesimo che le autorità dell’impero ritengono non pericoloso socialmente e non perseguibile penalmente.

Accanto a questa tendenza vanno ricordati altri elementi che dipingono un’immagine sostanzialmente positiva delle strutture imperiali nei confronti della figura emblematica di Paolo: un qualche rispetto per la sua condizione di “cittadino romano” di Paolo (cf. At 16,37-39; 22,25-29); una certa protezione contro tumulti o complotti nei suoi confronti (cf. ad es. At 21,31ss.; 23,10. 16ss.; 27,43); un trattamento che in alcuni casi appare benevolo (cf. ad es. At 24,23, 27,3; 28,16.30): la garanzia offerta dal principio dell’aequitas romana (cf. At 25,16).

Il quadro appena accennato delinea, propria attraverso la missione paolina, una specie di apologia lucana “a favore dell’impero” (pro imperio) presso le comunità cristiane a cui egli indirizza la sua opera. Essa è tesa a favorire, con un moderato ottimismo, l’inserimento dei cristiani nel mondo imperiale, dove le istituzioni e il diritto romano possono offrire loro una certa garanzia e protezione, anche se coloro che esercitano il governo e amministrano la giustizia non appaiono sempre come personaggi del tutto imparziali o moralmente ineccepibili.

3. Paolo: una figura identitaria

Le sintetiche considerazioni che abbiamo prodotto sul Paolo missionario sono sufficienti a rendere conto della sua funzione all’interno del progetto storiografico lucano che all’inizio avevamo abbozzato. La memoria “biografica” di Paolo che gli Atti recepiscono e che rendono nella forma narrativa dei suoi viaggi missionari (oltre che della sua vicenda processuale) è destinata a mostrare in lui, non solo il fondatore di quel tipo di comunità alle quali verosimilmente l’autore si rivolge con la sua opera – comunità composte in maggioranza da etnico-cristiani – ma anche a fornire ad esse, proprio attraverso i quadri della missione paolina, un’identità in rapporto al giudaismo e all’impero romano.

Paolo infatti è colui che nella sua opera evangelizzatrice ha mostrato come un cristianesimo universalista sia in continuità con la la particolare storia di salvezza d’Israele e porti in sé come compimento la migliore eredità del giudaismo. Al contempo la sua missione ha mostrato dove sta la causa della discontinuità che comunità, tagliate fuori dal giudaismo, ora esperimentano in modo doloroso e problematico. Per altro verso, il Paolo missionario è la figura che funge da vettore per l’inserimento delle comunità lucane nel mondo grecoromano.

Le sue tappe missionarie sono quadri destinati ad illustrare i molteplici confronti che il cristianesimo è chiamato a sostenere nella sua espansione all’interno del nuovo ambiente dell’impero: confronti con religiosità e culture diverse, confronti con strutture e ordinamenti imperiali. Il Paolo missionario che affronta queste nuove realtà funge, per le comunità lucane, da faro e da speranza per un confronto ed un inserimento positivo in questa nuova ed inedita realtà.

In tal modo la funzione, che il Paolo lucano viene ad assumere, fa risuonare e ripropone, anche per le comunità cristiane di oggi, il compito di ridefinirsi in modo sempre nuovo rispetto alla loro lontana radice nell’Israele eletto da Dio e rispetto ad un mondo in trasformazione dentro il quale esse sono invitate a intravedere possibilità positive per l’annuncio universale del vangelo.
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:53

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