Il dialogo nel contesto della vita consacrata

Pubblicato in Missione Oggi
Lavorare con altri per la giustizia e la pace

1. Cosa significa per noi il termine dialogo?

Qualche anno fa, mi fu chiesto di dare una conferenza nella città di Yogyakarta, Indonesia, sul nostro impegno cristiano a favore del dialogo interreligioso. La maggior parte dei presenti erano laici di varie parrocchie della città. Nel corso della conferenza citai l’insegnamento di Giovanni Paolo II: Tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo, anche se non nello stesso grado e forma.

Nel tempo dedicato al dibattito, una donna disse: Padre, sono d’accordo sull’importanza del dialogo interreligioso, ma non posso discutere sulla Trinità con i miei vicini Musulmani. Sono una donna di casa, madre di quattro figli e non ho avuto la possibilità di studiare molto. Probabilmente non saprei spiegare bene la nostra fede. Le risposi che aveva ragione, ma che la Chiesa non si aspetta da lei discussioni teologiche con i Musulmani. Ma le dissi: Lei può insegnare ai suoi figli, fin da quando sono bambini, che Dio ama anche i Musulmani, i Buddisti e gli altri, e lei può dimostrare questo insegnamento per mezzo dei suoi atteggiamenti ed il modo in cui agisce verso i seguaci di altre religioni.


Ho iniziato con questa storia perché penso che molti membri dei nostri Istituti religiosi potrebbero reagire all’incoraggiamento della Chiesa verso il dialogo in modo simile a quello della donna indonesiana. Abbiamo l’impressione di non essere formati in questo, e siamo preoccupati di non essere all’altezza di uno scambio nel campo teologico. Tutto ciò indica che oggi, 40 anni dopo il Concilio Vaticano II, molti Cristiani continuano ad avere un’idea assai limitata di ciò che la Chiesa vuole dire quando usa il termine dialogo.

In un certo senso, il termine dialogo è forviante, perché sembra voler dire che ciò che i Cristiani dovrebbero fare è soprattutto parlare a gente di altre religioni. Molti concepiscono il dialogo come riunioni interreligiose formali dove i leaders religiosi fanno lunghi discorsi, o come discussioni attorno al tavolo tra studiosi ed esperti in teologia, appartenenti a varie religioni.

Ma quando studiamo ciò che la Chiesa ci insegna sul dialogo, vediamo che vuol indicarci qualcosa di molto più ampio. Il concetto include non solamente una più ampia gamma di attività e non solo riunioni e discussioni, bensì incoraggia un nuovo approccio esistenziale verso i seguaci di altre tradizioni religiose. Nella sua enciclica Redemptoris Missio (57), il Papa Giovanni Paolo II indica l’ampiezza di questo termine, dialogo.

Al dialogo si apre un vasto campo, potendo assumere molteplici forme ed espressioni: dagli scambi tra esperti delle tradizioni religiose o rappresentanti ufficiali di esse alla collaborazione per lo sviluppo integrale e la salvaguardia dei valori religiosi; dalla comunicazione delle rispettive esperienze spirituali al cosiddetto dialogo di vita, per cui i credenti delle diverse religioni testimoniano gli uni agli altri nell’esistenza quotidiana i propri valori umani e spirituali e si aiutano a viverli per edificare una società più giusta e fraterna.

In alcuni documenti pubblicati dal Vaticano, queste forme o espressioni di dialogo sono state generalmente divise in quattro tipi di incontro interreligioso: il dialogo di vita, di azione, di scambio teologico e la condivisione dell’esperienza religiosa. Cioè le diverse dimensioni della nostra vita cristiana che condividiamo con i seguaci di altre religioni. E= un modo cristiano di vivere con altri che suppone interazione su vari livelli dell’ essere (dialogo di vita), del fare (cooperazione su problemi sociali), del pensare (studio, discussione di problemi teologici), e del riflettere (condivisione dell’esperienza religiosa) sulla propria esperienza del Divino. Nella visione di vita della Chiesa condivisa da Cristiani e seguaci di altre religioni, parlare o discorrere svolge un certo ruolo, come avviene in tutte le forme della vita umana, ma la discussione non deve dominare, né tanto meno la condivisione di vita a cui ci si riferisce con il termine di dialogo può limitarsi o ridursi ad occasioni e delibere formali.

Già nel 1979, i vescovi asiatici insistevano sul fatto che i Cristiani ordinari dovrebbero praticare il dialogo (cioè, i non esperti). Guidati dalla consapevolezza pastorale secondo cui i principali uditori verso cui si dirige l’insegnamento della Chiesa non sono teologi, ma piuttosto credenti cristiani che vivono quotidianamente a contatto con seguaci di altre religioni, i vescovi asiatici davano priorità al dialogo di vita che secondo loro era l’aspetto più essenziale del dialogo. Le parole dei vescovi dovrebbero essere ricordate anche ai membri dei nostri Istituti religiosi, poiché indicano una pista di coinvolgimento dei Religiosi dei nostri Istituti nel dialogo. Secondo i vescovi asiatici, il dialogo di vita avviene quando:

Ciascuno da testimonianza all’altro dei valori che ha scoperto nella sua fede, ed attraverso la pratica quotidiana della fratellanza, dell’aiuto, dell’apertura del cuore e dell’ospitalità, ciascuno mostra di essere un vicino che teme Dio. I veri Cristiani [ed i loro vicini di altre religioni] offrono ad un mondo distratto, valori che nascono dal messaggio di Dio quando rispettano gli anziani, educano coscienziosamente i giovani, si occupano dei malati e dei poveri in mezzo a loro, e lavorano insieme per la giustizia sociale, il benessere ed i diritti umani.

I vescovi si stanno allontanando dall’idea di dialogo che si limita principalmente a parlare o discutere avvicinandosi invece a quella di un modo di vivere insieme, con l=accento posto sulla condivisione di vita nel contesto della vita quotidiana. Sembra esserci questo dietro l’affermazione del Papa in Redemptoris Missio che ho citato prima: Tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo, anche se non nello stesso grado e forma.

2. Dialogo o proclamazione, o dialogo e proclamazione?

Questo diverso accento ha implicazioni importanti nei riguardi del dibattito, assai pubblicizzato, circa dialogo ed evangelizzazione. Il Papa propone di fare del dialogo con i seguaci di altre religioni una caratteristica della missione nel mondo che Gesù ha affidato alla comunità dei suoi discepoli. La nostra missione di seguire Cristo include molti aspetti: la preghiera quotidiana ed il culto a Dio, una preoccupazione particolare per i poveri e per le vittime dell’oppressione e dell’ingiustizia, la cura dei malati e degli anziani, la riflessione teologica sul significato della fede cristiana in qualsiasi contesto culturale, la proclamazione della fede, cioè, la condivisione delle Aragioni della nostra speranza con tutti coloro che cercano la verità, e la catechesi, la comunicazione della nostra fede alle nuove generazioni di discepoli cristiani. Quindi un elemento fondamentale della nostra missione cristiana è l=incontro con persone di altre religioni.

Possiamo dire che il dialogo è l’altro lato dell’obbligo di proclamare la nostra fede. Ci sono milioni di persone nel mondo che cercano Dio, che cercano un modo di vivere secondo la volontà di Dio, che vogliono trovare un senso, una ragione di vita nelle loro situazioni di ogni giorno. Noi abbiamo il dovere di condividere con loro la fede che ha dato direzione alla nostra vita, che ci ispira e che ci da il coraggio di amare, che ci da ragione di sperare in momenti di disperazione e di fallimento.

Ma nel nostro mondo incontriamo anche molti altri milioni di persone, gente buona ed onesta, che si sacrifica, che non è alla ricerca di Dio, precisamente perché ha incontrato già ed incontra ogni giorno il Divino nella ed attraverso la religione che già segue. Possono essere Ebrei, Musulmani, Buddisti, Induisti, Taoisti o seguaci della Religione Tradizionale di vari continenti. Lo Spirito di Dio li guida, rendendoli capaci di pregare e rendere culto, insegnando loro a vivere secondo la volontà morale di Dio, inspirandoli spesso a raggiungere le cime del sacrificio di sé, della generosità e del servizio verso gli altri, e rendendo molti di loro capaci di sondare le profondità della spiritualità e dell’esperienza mistica. Amano la loro religione. Per loro significa tanto come per noi Cristiani la nostra.

Abbiamo qualcosa da dire a queste persone? Abbiamo qualcosa da imparare da loro? Possiamo essere arricchiti dalle testimonianze della loro vita e della loro fede? Ci sono possibilità di lavorare con loro per il bene comune, per la giustizia e per la pace nel mondo? O semplicemente diamo loro le spalle e ce ne laviamo le mani perché sono convinti della giustezza del loro cammino religioso ed impegnati a seguire i suoi insegnamenti e quindi non sono interessati in divenire Cristiani?

La Chiesa insegna che abbiamo molto da comunicare e molto da imparare. Tutto questo mondo di rapporti positivi con i seguaci di altre religioni è riassunto nel termine dialogo. Già nel 1979, nella sua prima enciclica Redemptoris Hominis, il Papa Giovanni Paolo II disse:

Bisogna applicare ciò che è stato detto all'attività che tende all'avvicinamento con i rappresentanti delle religioni non cristiane, e che si esprime mediante il dialogo, i contatti, la preghiera comunitaria, la ricerca dei tesori della spiritualità umana, i quali - come ben sappiamo - non mancano neppure ai membri di queste religioni. Non avviene forse talvolta che la ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane - effetto anche essa dello Spirito di verità, operante oltre i confini visibili del Corpo Mistico - possa quasi confondere i cristiani, spesso così disposti a dubitare, invece, nelle verità rivelate da Dio e annunziate dalla Chiesa, così propensi al rilassamento dei principi della morale e ad aprire la strada al permissivismo etico? E nobile esser predisposti a comprendere ciascun uomo, ad analizzare ogni sistema, a dare ragione a ciò che è giusto; ma questo non significa assolutamente perdere la certezza della propria fede, ovvero indebolire i principi della morale... (RH, 6).

Questo denso paragrafo è pieni di saggezza su cui possiamo costruire. Il Santo Padre mette l’accento sull’importanza della preghiera comunitaria, lo stare insieme dinanzi alla Fonte ed alla Finalità Ultima del nostro cammino religioso. Tre volte (1986, 1993, 2002) il Papa ha invitato i seguaci di altre religioni ad Assisi per pregare con lui per la pace nel mondo. Nota che i benefici del dialogo non sono solamente per gli altri, ma anche per noi Cristiani. La ferma credenza dei seguaci di altre religioni non può spesso farci vergognare dei nostri dubbi e del nostro lassismo? Il Papa sottolinea che la fede degli altri è effetto dello Spirito di verità. Ed insiste nella nobiltà dell’impegno verso il dialogo, dell’essere aperti a capire gli altri, analizzare i loro sistemi di credenza, e riconoscere tutto ciò che in loro c=è di buono. Nulla di questo, conclude il Papa, suppone perdere fiducia nella bellezza e nella verità della nostra fede cristiana.

Poiché il dialogo interreligioso fa parte della missione della Chiesa, possiamo porre meglio la domanda per capire il rapporto che intercorre tra dialogo e proclamazione, quali aspetti autentici ed insostituibili dell’attività evangelizzatrice. Nella vita di ogni giorno, non c=è opposizione tra dialogo ed evangelizzazione. Un agricoltore o una donna di casa che ha ricevuto la grazia di una forte fede cristiana, ma che non ha avuto la possibilità di impegnarsi a fondo in studi religiosi è chiamato/a ad avvicinarsi ai suoi vicini di altre tradizioni religiose in spirito di dialogo. Questi Cristiani non hanno bisogno di entrare in ricerche teologiche sottili, ma dovrebbero vivere con rispetto ed apertura verso i loro vicini, per condividere gioie, crisi e pene della vita con altri.

I cristiani sono chiamati a condividere la vita, e ciò include anche sforzi comuni a favore della giustizia e della pace. A volte significa semplicemente vivere insieme in armonia o lavorare a favore della riconciliazione dopo un conflitto. In altri momenti ciò richiede aiutare il più debole e bisognoso in mezzo a noi, assumendosi la difesa e solidarizzandosi con i poveri e le vittime dell’ingiustizia. In certe occasioni, potrebbe significare condividere le ragioni del perché viviamo come viviamo. Siamo motivati dal nostro incontro con Dio, come lo sono i nostri partners nella vita di ogni giorno, i nostri collaboratori a favore della giustizia e della pace.

In questo contesto, la vera domanda non è se la Chiesa dovrebbe proclamare il Vangelo o impegnarsi nel dialogo, ma piuttosto se i cristiani stanno veramente condividendo la vita con i loro vicini di altre religioni. La distinzione fondamentale non è tra una Chiesa in dialogo o una che proclama il Vangelo, ma piuttosto tra una Chiesa che segue la spinta dello Spirito a condividere umanamente la vita con altri, e quindi costantemente impegnata a dialogare, dare testimonianza e proclamare, ed una Chiesa rinchiusa in se stessa ed esiste in un ghetto che si auto impone, senza molta preoccupazione per persone di altri religioni e senza coinvolgersi con loro, gente con cui i Cristiani condividono cultura, storia, cittadinanza ed un destino umano comune.

Quando persone di diverse religioni vivono insieme non semplicemente per coabitare nella stessa città, ma insieme non sorge la questione del dialogo o della proclamazione. Quando lavorano, studiano, lottano, celebrano e piangono insieme ed affrontano insieme le crisi universali di ingiustizia, malattia e morte, non passano molto tempo parlando di dottrina. Si occupano principalmente di cose immediate: di prendersi cura di persone malate o bisognose, di comunicare alle nuove generazione valori a cui tengono, di risolvere problemi e tensioni in modo produttivo piuttosto che distruttivo, o di riconciliare dopo i conflitti, cercando di costruire società più giuste, più umane e degne. Quando i credenti cooperano in queste attività, in certi momenti privilegiati ma rari, esprimono anche ciò che c’è di più profondo nella loro vita e nei loro cuori, cioè, la loro fede, che è fonte di forza e di ispirazione che costituisce la forza motrice che guida e dirige tutte le loro attività.

3. Lavorare con altri a favore della giustizia e della pace

I vescovi asiatici, da me citati all’inizio, presentano un elenco di cose : Alavorare insiemeY per la giustizia sociale, il benessere ed i diritti umani@ come una delle manifestazioni del dialogo di vita. Nel mondo intero, i Cristiani stanno lottando, insieme ai seguaci di altre religioni, per costruire la pace e per creare società giuste. Gli esempi che offro vengono soprattutto dall’Asia, poiché è la parte del mondo che conosco meglio, ma anche in Africa, Europa e nelle Americhe è possibile trovare molto istanze parallele.
Sono tornato da Bangkok quattro giorni fa, e lì ho tenuto un seminario interreligioso sul tema de Lo Studio della Pace e le Tecniche della Trasformazione del Conflitto. Un aspetto significativo di questo seminario è che è stato patrocinato congiuntamente da Cristiani e Mussulmani. Gli organizzatori, da parte cristiana, la Federazione delle Conferenze Episcopali Asiatiche (FABC), che rappresenta i vescovi cattolici di 17 paesi asiatici, e la Conferenza Cristiana d’Asia (CCA), un’associazione di circa 120 Chiese Protestanti ed Ortodosse nella stessa regione; da parte dei Musulmani, la Asian Muslim Action Network (AMAN), con Musulmani in 16 paesi asiatici. C’erano anche vari osservatori Buddisti, che in futuro vogliono lavorare con noi.

Ciascuno dei Cattolici, altri Cristiani ed i Musulmani rappresentavano un paese diverso dell’Asia. Lo scopo era quello di preparare un certo numero di Cristiani e Musulmani ad analizzare i fattori politici, economici, sociali e religiosi connessi ai conflitti confessionali e ad avere conoscenza e formazione nel campo delle tecniche di trasformazione di conflitti. Speriamo che così avremo alcuni Musulmani e Cristiani in ogni paese che possano intervenire e lavorare insieme per risolvere problemi quando scoppia un conflitto. Speriamo che insieme possiamo preparare un curricolo per Studi sulla Pace che possa integrarsi alla preparazione di leaders religiosi imani, insegnanti di religione, seminaristi, catechisti.

Non si tratta che di un esempio di cooperazione interreligiosa per la pace. Potrei anche menzionare l’opera di Peace Advocates Zamboanga (PAZ), un’associazione in una parte particolarmente sconvolta delle Filippine che cerca mediante conferenze, seminari, marce, pubblicazioni, di promuovere la pace nella regione. Infatti, in quasi tutte le grandi città al Sud delle Filippine, ci sono gruppi di questo tipo dedicati a sedare tensioni confessionali mediante l’educazione alla pace, la difesa delle vittime della violenza e degli arresti ingiusti, ed a sostenere iniziative di pace proposte dal governo o dalle forze ribelli.

Nel campo della giustizia, gli esempi sono troppo numerosi per darne una lista esauriente. Pensiamo agli sforzi interreligiosi per sostenere i diritti dei lavoratori in Corea, per offrire rifugio alle donne violate in Tailandia, per stabilire la riconciliazione dopo i conflitti a Gujarat in India e nelle Isole Molucche, in Poso (Indonesia), per dare una risposta compassava alla tragedia dei rifugiati in Australia, per aiutare i lavoratori di Bangladesh detenuti in Malesia, per difendere lo status civile dei popoli di Hill Tribe, in Tailandia, per difendere gli abusivi minacciati di espulsione nelle Filippine, per pubblicizzare i casi di Cristiani accusati di blasfemia in Pakistan, per protestare contro la tortura di detenuti nei posti di polizia in Nepal e nello Sri Lanka, per opporsi alla pratica di lavoratori contrattati in India, per educare il pubblico in Malesia sulla discriminazione sofferta dalle vittime del HIV-AIDS. Potrei dare molti più esempi.

4. Il coinvolgimento interreligioso dei religiosi e delle religiose per la giustizia e la pace

Potrei fare il nome di uomini e donne di Istituti di vita consacrata che sono attivamente coinvolti in tutti questi esempi di cooperazione interreligiosa a favore della giustizia e della pace. Inoltre, questi fratelli e sorelle, e sacerdoti non agiscono da soli, ma con il pieno appoggio dei loro superiori e delle loro comunità. Ci sono molte istanze in cui le case religiose offrono i locali per pianificare e programmare riunioni ed i religiosi, le religiose contribuiscono in mille modi, all’espletazione di compiti nascosti senza di cui gli attuali sforzi per la pace e la giustizia non arriverebbero a buon fine (uso del fax, computers, telefono, buste di indirizzi, contatto con i relatori, distribuzione di notizie, inviti e così via).

Non dico che noi religiosi facciamo più degli altri, ma è chiaro che il coinvolgimento di molte suore, fratelli, sacerdoti dei nostri Istituti nelle attività interreligiose di giustizia e pace non è semplicemente un sogno sperato, ma uno dei segni dei tempi dove oggi è chiaramente visibile il movimento dello Spirito di Dio nella Chiesa. Ci sono vari fattori che rendono specialmente valido il coinvolgimento di religiosi e religiose, e ne vorrei menzionare quattro.

1. In molte società, anche lì dove i Cristiani sono una piccola minoranza, i religiosi e le religiose cattolici hanno un certo peso morale. La nostra presenza e la nostra partecipazione nelle cause di pace e di giustizia non è facilmente ignorata né dalla gente, né dai leaders politici e militari. Siamo conosciuti e rispettati, come molto semplicemente dice Perfectae Caritatis, il documento del Vaticano II sulla Vita Religiosa, come persone che conducono una vita dedicata a Dio. C’è un supposto, anche tra gli Ebrei, i Mussulmani, i Buddisti, etc, per cui per i voti di povertà, obbedienza e castità, le nostre azioni non sono motivate dal profitto, dall’ambizione o da legami familiari, ma piuttosto da un impegno disinteressato di servire Dio e gli altri. E così il nostro coinvolgimento in problemi di pace e di giustizia può dare alla causa peso e serietà.

2. Poiché i religiosi, le religiose sono riconosciuti come popolo di Dio la loro visibilità nella risoluzione di problemi di giustizia e pace non ha solamente un valore pubblicitario, ma porta anche Dio e la questione della volontà morale di Dio in un ambiente assai secolare in cui questi problemi vengono generalmente vissuti. Ciò che troppo facilmente potrebbe diventare un semplice dibattito tra settori della società in lotta fra di loro, grazie all’attiva partecipazione di religiosi/e si trasforma in un problema morale che nella società tutti devono affrontare. Per esempio, durante le giornate delle manifestazioni contro la corrotta dittatura di Suharto in Indonesia, una delle foto che sono state più ampiamente distribuite e riprodotte dalla stampa è stata quella di un gruppo di giovani donne, alcune di loro religiose cattoliche, altre mussulmane con il tipico velo. Insieme protestavano contro la corruzione del governo. Se è vero, come è stato detto, che una foto vale più di mille parole, non si poteva trovare testimonianza più eloquente per esprimere la solidarietà interrreligiosa a favore della morale pubblica nel mondo della politica.

3. Nella maggior parte del mondo, i religiosi, le religiose godono di una specie di immunità dalla prigione, soppressione violenta, e maltrattamenti in generale. C=è una certa riluttanza da parte delle autorità civili e militari ad agire nei riguardi dei religiosi e delle religiose fuori dalla legge ed in modo prepotente. Da una parte questo trattamento non è una buona pubblicità per le autorità, che non vogliono essere visti come persone opposte a Dio, mentre, dall’altra le autorità sono loro stesse spesso credenti religiosi sinceri, Cristiani o altro, e capaci di rispettare sinceramente i religiosi. In generale può dirsi che gli attacchi violenti e perfino le uccisioni di religiosi e religiose in molte parti del mondo sono la prova che quando un religioso o una religiosa si coinvolge in questioni di giustizia e pace può andare in contro a sofferenze e persino al martirio.

Si può sostenere che la suora o il sacerdote non dovrebbe godere di una sicurezza maggiore rispetto ai loro collaboratori laici, che a volte corrono rischi eroici che loro stessi ed i loro familiari possono pagare caro, ma la realtà è che spesso i religiosi, le religiose possono coinvolgersi in forme di attivismo di giustizia sociale che non sarebbero possibili per gli altri. Molti Cristiani, Mussulmani e altri che lavorano nel difficile campo della promozione della giustizia e della pace chiedono il coinvolgimento di religiosi e religiose sperando che l’immunità di cui godono i religiosi possa anche estendersi ad altri, nel movimento. Detto con altre parole, il coinvolgimento di religiosi/e può, in alcuni casi, proteggere i loro collaboratori.

5. Questioni di giustizia di genero diventano sempre più urgenti in molte parti del mondo. In questo campo le religiose hanno un ruolo speciale da svolgere. Nelle società tradizionali, il mondo delle donne e degli uomini sono soggetti ad un’enorme segregazione sociale. E socialmente inaccettabile da parte di sacerdoti e di altre persone non sposate trattare direttamente con donne, particolarmente nel caso di società islamiche e di ebrei ortodossi. Per contrasto, in queste società, le religiose cattoliche possono muoversi liberamente e generalmente sono ben accolte dalle sorelle mussulmane ed ebree. Le religiose cattoliche possono così svolgere un ruolo di sensibilizzazione e di facilitazione nel campo delle pari opportunità e della giustizia dei generi, accompagnando le donne nella loro lotta per ottenere i loro diritti e la loro dignità. Abbiamo bisogno di molte più suore nei nostri Istituti religiosi che assumano l’apostolato del dialogo interreligioso tra le donne su problemi di giustizia e di pari opportunità. Non c’è bisogno di dire che dato il ruolo sempre maggiore delle donne nella vita pubblica, come pure nel ruolo tradizionale della famiglia, l’incontro interreligioso tra donne non deve limitarsi a questioni di pari opportunità. La partecipazione di donne nella costruzione della pace e nella promozione della giustizia non può essere sottovalutata nel mondo di oggi.

5. Conclusione

Perfectae Caritatis dice che il modo di vivere, di pregare e di agire deve convenientemente adattarsi alle odierne condizioni fisiche e psichiche dei religiosi, come pure alle necessità dell’apostolato, alle esigenze della cultura, alle circostanze sociali ed economiche (PC, 3). Oggi la vita interreligiosa è diventata un elemento di cui le società pluralistiche non possono fare a meno. Se noi donne ed uomini consacrati dobbiamo lavorare efficacemente per la giustizia in queste società e lottare seriamente per costruire la pace a livello locale e tra le nazioni, dobbiamo coinvolgerci nell’ambito interreligioso ed essere pronti a partecipare attivamente nelle iniziative nuove quando ne sorge la necessità, nelle nostre società in continua evoluzione.
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:53

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