La missione in un mondo in fuga (I)

Pubblicato in Missione Oggi
"Forse ciò che caratterizza veramente il nostro mondo è una conseguenza specifica della globalizzazione, e cioè il fatto che non sappiamo dove esso stia andando". Di fronte all' "angoscia profonda" che nasce dal nostro vivere in "un mondo in fuga", "ciò che i cristiani offrono non è la conoscenza, ma la sapienza, la sapienza del destino ultimo dell'umanità, il regno di Dio... Perciò la nostra spiritualità missionaria deve essere di tipo sapienziale, una sapienza della fine alla quale siamo chiamati, una sapienza che ci libera dall'angoscia". Nella conferenza "La missione in un mondo in fuga: futuri cittadini del Regno - SEDOS 2000", tenuta dal in occasione dell'Assemblea annuale del SEDOS (Servizio di documentazione e studi) il 5 dicembre 2000, la penna arguta e penetrante del maestro dell'Ordine dei frati predicatori Timothy Radcliffe op tratteggia una spiritualità della missione "attraverso la presenza, attraverso l'epifania e attraverso l'annuncio", ricca di sollecitazioni per ogni credente.

- SEDOS Bulletin, n. 33, 1 gennaio 2001, pp. 3-9. (Nostra traduzione dall’inglese).

Mi è stata richiesta una riflessione sulla spiritualità della missione nell’era della globalizzazione. Cosa significa essere missionari a Disneyland? Di fronte all’invito a tenere questa conferenza, il cui argomento è appassionante, ho provato un sentimento di gioia, ma nel contempo anche di esitazione, perché non sono mai stato un missionario nel senso corrente del termine. Al Capitolo generale elettivo dell’ordine in Messico, i fratelli hanno definito i criteri di selezione dei candidati alla carica di Maestro dell’ordine. Si riteneva essenziale che il candidato avesse maturato un’esperienza pastorale al di fuori del proprio paese. E poi hanno eletto me, che avevo lavorato solo in Inghilterra in qualità di accademico. Io non so se tutte le congregazioni agiscano in modo così eccentrico, ma questo dato chiarisce perché io mi senta così inadeguato a tenere questa conferenza.

Cosa c’è nel nostro mondo di così nuovo da spingerci a cercare una nuova spiritualità della missione? In cosa è così diverso dal mondo in cui furono inviate le precedenti generazioni di missionari? Si potrebbe rispondere in modo quasi automatico che il dato realmente nuovo è la globalizzazione. Nei nostri uffici affluiscono e-mails provenienti dal mondo intero. Miliardi di dollari circolano ogni giorno nei mercati mondiali, anche se non sfiorano l’ordine dei domenicani! Come si sente spesso affermare, viviamo in un "villaggio globale". I missionari non si imbarcano più verso terre sconosciute: quasi nessun punto del pianeta dista più di un giorno di viaggio. Tuttavia, io mi domando se la "globalizzazione" identifichi realmente il nuovo contesto della missione. Il villaggio globale è frutto di un’evoluzione storica che investe gli ultimi cinquecento, se non gli ultimi mille, anni di storia. Alcuni studiosi sostengono che, sotto diversi aspetti, il mondo, un secolo fa, era globalizzato al pari di adesso.

Forse ciò che caratterizza veramente il nostro mondo è una conseguenza specifica della globalizzazione, e cioè il fatto che non sappiamo dove esso stia andando. Non possediamo alcun sentimento comune della direzione della nostra storia. Il "guru" di Tony Blair, Anthony Giddens, definisce questo "un mondo in fuga".1 La storia sembra sfuggire al nostro controllo, e noi non sappiamo dove ci stiamo dirigendo. È per questo mondo in fuga che dobbiamo trovare una visione e una spiritualità della missione.

Le prime grandi missioni della Chiesa fuori dall’Europa furono legate al colonialismo dei secoli dal XVI al XX.2 Spagnoli e portoghesi conducevano con sé i loro frati mendicanti, così come olandesi e inglesi portavano i loro missionari protestanti. Sia nei casi in cui i missionari abbiano sostenuto i conquistadores, sia nei casi in cui li abbiano invece criticati, esisteva comunque un sentimento comune della direzione che la storia stava prendendo: il dominio del mondo da parte dell’Occidente. Era questo a fornire il contesto della missione. Nella seconda metà di questo secolo, la missione si è sviluppata entro un nuovo contesto, quello del conflitto tra i due grandi blocchi di potere dell’Est e dell’Ovest, del comunismo e del capitalismo. Alcuni missionari possono forse aver pregato per il trionfo del proletariato; altri, invece, per la disfatta del comunismo ateo; in ogni caso, tale conflitto costituiva il contesto della missione.

Ora, con la caduta del Muro di Berlino, non sappiamo dove stiamo andando. Ci stiamo dirigendo verso il benessere universale, o invece il sistema economico è sull’orlo del collasso? Avremo un grande boom, o assisteremo a un big-bang? Gli americani domineranno ancora per secoli l’economia mondiale, o ci troviamo alla fine di una breve era in cui l’Occidente ha costituito il centro del mondo? La comunità globale si estenderà ad includere tutti, compresa l’Africa, continente dimenticato? O al contrario il villaggio globale va contraendosi, lasciando al di fuori la maggioranza? Siamo di fronte a un villaggio globale o a un saccheggio globale? Non lo sappiamo.

Non lo sappiamo perché la globalizzazione ha raggiunto una nuova fase, con l’introduzione di tecnologie le cui conseguenze sono inimmaginabili. Non lo sappiamo, perché, per citare Giddens,3 abbiamo inventato un nuovo tipo di rischio. Gli esseri umani hanno dovuto da sempre fare i conti con il rischio: il rischio di epidemie, di cattivi raccolti, uragani, siccità, e talvolta di invasioni barbariche. Si trattava però di rischi in gran parte esterni, non soggetti al loro controllo. Non si poteva prevedere quando un meteorite sarebbe caduto sulla terra, o se un ratto pieno di pulci sarebbe venuto a portare la peste bubbonica. Ora invece il rischio ci viene principalmente da ciò che noi stessi abbiamo creato, dato questo che Giddens definisce "rischio costruito": il surriscaldamento del pianeta, il sovrappopolamento, l’inquinamento, l’instabilità dei mercati, le conseguenze imprevedibili dell’ingegneria genetica. Non conosciamo gli effetti di ciò che stiamo facendo ora. Viviamo in un mondo in fuga. Ciò genera un’angoscia profonda. Noi cristiani non siamo depositari di una conoscenza particolare riguardo al futuro. Non sappiamo più degli altri se ci aspetta la guerra o la pace, la prosperità o la povertà. Spesso non siamo indenni dall’angoscia che attanaglia i nostri contemporanei. Per quanto mi concerne, mi capita di essere profondamente ottimista sul futuro dell’umanità, ma questo mi viene come eredità della fede di san Tommaso nella profonda bontà dell’uomo, o invece come eredità genetica dell’ottimismo di mia madre?

In questo mondo in fuga, ciò che i cristiani offrono non è la conoscenza, ma la sapienza, la sapienza del destino ultimo dell’umanità, il regno di Dio. Forse non abbiamo idea di come verrà il Regno, ma crediamo nel suo trionfo. Il mondo globalizzato è ricco di conoscenza. Infatti, una delle sfide che il vivere in questo ciber-mondo ci pone è che siamo sommersi dalle informazioni, ma vi è ben poca sapienza. Vi è uno scarso senso del destino ultimo dell’umanità. Parimenti, è tale l’angoscia di fronte al futuro, che risulta più facile non pensarci affatto. Cogliamo il momento presente. Mangiamo, beviamo e siamo felici, perché domani potremmo essere morti. Perciò la nostra spiritualità missionaria deve essere di tipo sapienziale, una sapienza della fine alla quale siamo chiamati, una sapienza che ci libera dall’angoscia.

In questa conferenza, vorrei suggerire che il missionario può farsi portatore di questa sapienza in tre modi: attraverso la presenza, attraverso l’epifania e attraverso l’annuncio. In alcuni luoghi tutto quello che possiamo fare è essere presenti, ma è naturale provare il desiderio di rendere visibile la nostra speranza, di esplicitare la nostra sapienza. La parola si è fatta carne e ora, nella nostra missione, la carne si fa parola.4

La presenza

Un missionario è inviato. È questo il significato della parola. Ma verso chi sono inviati i missionari, nel nostro mondo in fuga? Quando andavo a scuola dai benedettini, vennero dei missionari a farci visita da luoghi lontani, come l’Africa e l’Amazzonia. Noi mettevamo da parte del denaro, affinché dei bambini venissero battezzati con i nostri nomi. Devono esserci in giro per il mondo centinaia di Timothy di mezza età. Così i missionari venivano inviati dall’Occidente verso altri paesi. Ma al giorno d’oggi da dove vengono inviati i missionari? Una volta provenivano in genere soprattutto da Irlanda, Spagna, Gran Bretagna, Belgio e Québec. Ma oggi sono pochi i missionari provenienti da quelle regioni. Il missionario moderno è più probabile che provenga dall’India o dall’Indonesia. Ricordo l’eccitazione prodottasi nella stampa inglese all’arrivo in Scozia del primo missionario dalla Giamaica. Perciò, nel nostro villaggio globalizzato, non c’è un centro dal quale i missionari vengano poi smistati. Nella geografia di Internet, non c’è alcun centro, almeno in linea teorica. In pratica, sappiamo che ci sono più linee telefoniche a Manhattan che in tutta l’Africa sub-sahariana.

Inizierò a tentare di rispondere dicendo che, in questo nuovo mondo, i missionari sono inviati a coloro che sono altro da noi, distanti rispetto a noi per cultura, fede, storia. Essi sono lontani da noi, ma non necessariamente distanti in senso fisico; sono stranieri, anche se possono essere nostri vicini. L’espressione "villaggio globale" suona intima e confidenziale, come se tutti appartenessimo a una sola, grande, felice famiglia umana. Tuttavia, il nostro mondo globale è attraversato da divisioni e fratture, che ci rendono estranei gli uni gli altri, esseri incomprensibili e talvolta anche nemici. Il missionario viene inviato a stare in questi luoghi. Pierre Claverie, vescovo domenicano di Orano, in Algeria, fu assassinato nel 1996 dall’esplosione di una bomba. Poco prima della morte scriveva: "La Chiesa adempie la propria vocazione quando è presente di fronte alle rotture che crocifiggono l’umanità nella sua carne e nella sua unità. Gesù è morto dilaniato tra cielo e terra, le braccia protese a riunire i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e li volge gli uni contro gli altri e contro Dio stesso. Egli si è posto sulle linee di frattura nate da questo peccato. In Algeria, ci troviamo su una di queste linee sismiche che attraversano il mondo: Islam/Occidente, Nord/Sud, ricchi/poveri. Siamo proprio al nostro posto, giacché è in questo luogo che si può intravedere la luce della Risurrezione".5

Queste linee di frattura non separano solamente diverse parti del mondo: il Nord e il Sud, il mondo sviluppato e il cosiddetto mondo in via di sviluppo. Tali linee attraversano ciascun paese, ciascuna città: New York e Roma, Nairobi e São Paulo, Delhi e Tokyo. Dividono quelli che hanno l’acqua potabile e quelli che non ce l’hanno, quelli che hanno accesso a Internet e quelli che non vi hanno accesso, le persone colte e gli analfabeti, la sinistra e la destra, coloro che hanno religioni diverse da coloro che non ne hanno neanche una, i bianchi e i neri. Il missionario deve farsi portatore di una sapienza, del disegno di Dio che egli ha predisposto in Cristo "per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef 1,10). E questa sapienza noi la rappresentiamo quando siamo presenti presso coloro che i muri delle divisioni tengono separati da noi.

Dobbiamo però compiere un passo ulteriore. Essere missionario non è ciò che si fa; è ciò che si è. Proprio allo stesso modo in cui Gesù è l’inviato (Eb 3,1). Essere presente presso l’altro, vivere sulle linee di frattura, implica una trasformazione di chi sono io. Nell’essere con e per l’altro, scopro una nuova identità. Penso a un vecchio missionario spagnolo che ho incontrato a Taiwan, il quale aveva lavorato in Cina per molti anni e che aveva conosciuto la prigionia. Una volta divenuto vecchio e malato, la sua famiglia insisteva affinché facesse ritorno in Spagna. Ma egli disse: "Non posso tornare. Sono cinese. Sarei uno straniero in Spagna". Incontrando un gruppo di responsabili ebrei americani nel 1960, Giovanni XXIII li sorprese quando, entrando nella stanza, rivolse loro queste parole: "Sono Giuseppe, vostro fratello". Ecco chi sono, e non posso essere me stesso senza di te. In questo senso, essere inviati implica un morire rispetto a colui che ero. Viene abbandonata una piccola identità. A Chrys McVey, uno dei miei fratelli americani che vive in Pakistan, fu chiesto quanto tempo vi sarebbe rimasto, ed egli rispose: "fino a quando non sarò stanco di morire". Essere presente per e con l’altro è una sorta di morte della nostra antica identità, così da farsi segno del Regno nel quale saremo una sola cosa.

Nicholas Boyle ha scritto: "l’unica risposta difendibile e coerente sotto il profilo concettuale alla domanda "chi siamo noi oggi?" è la seguente: "i futuri cittadini del mondo".6 Non siamo solo persone che lavorano per un nuovo ordine del mondo, cercando di superare guerre e divisioni. Noi siamo oggi i futuri cittadini del mondo. Si potrebbero adattare le parole di Boyle e affermare che oggi noi siamo i futuri cittadini del Regno. Il Regno è il mio paese. Io scopro ora chi sarò allora grazie alla vicinanza di coloro che più mi sono distanti. È proprio il nostro cattolicesimo a spingerci oltre ogni identità riduttiva e parziale, oltre ogni sentimento angusto di noi stessi, verso ciò che, per il momento, possiamo appena intravvedere. È questa l’incarnazione della nostra sapienza.

Non è facile, e, soprattutto richiede fedeltà. Il missionario non è un turista. Il turista può recarsi in luoghi esotici, scattare fotografie, godere del cibo e del paesaggio, e fare ritorno a casa indossando con orgoglio le T-shirts che si è comprato. Nello stare in un luogo, il missionario è solo un segno del Regno. Per citare le parole di uno dei miei fratelli: "tu non ti accontenti di disfare i bagagli, tu i bagagli li getti via".

Non voglio con ciò intendere che tutti i missionari devono restare sino alla morte. Ci possono essere molte buone ragioni per andarsene: una nuova sfida da affrontare altrove, la malattia, l’esaurimento delle forze, e così via. Sostengo però che la missione implica fedeltà. Come è fedele quel missionario spagnolo, che ho conosciuto nella giungla peruviana, che semplicemente continua a stare là, anno dopo anno, facendo visita alla sua gente, percorrendo gli stessi tragitti negli stessi piccoli accampamenti, rimanendo appunto con fedeltà, anche se non sembra accadere nulla di particolare. Spesso una grande fonte di sofferenza per il missionario è scoprire che la sua presenza non è desiderata. Può accadere che la popolazione locale, o le vocazioni locali della sua congregazione, gli impongano di andarsene. La sua forza interiore consiste nel rimanere comunque, talvolta senza essere apprezzato. L’eroismo del missionario consiste nell’osare la scoperta di chi io sono con e per questi altri, anche se questi altri non sono disposti a scoprire chi sono con e per me. Consiste nel rimanere sul posto con fedeltà, anche se può costare la vita, come nel caso di Pierre Claverie e dei monaci trappisti in Algeria.

Io ho lasciato Roma proprio alla vigilia della giornata mondiale della gioventù. Tuttavia, nel corso dei miei incontri con alcuni dei giovani laici domenicani, sono stato colpito dalla loro gioia di trovarsi in presenza di chi è diverso da loro, di chi non gli rassomiglia. Tedeschi e francesi, polacchi e pakistani: c’è un’apertura sorprendente che va oltre le barriere di razza e cultura, generazione e fede. È un dono recato dai giovani alla missione della Chiesa, e un segno del Regno. Forse la sfida che si profila dinanzi ai giovani missionari è quella di apprendere questa forza interiore, questa stabile fedeltà nei confronti dell’altro, a fronte della nostra fragilità e della nostra angoscia. Le nostre case di formazione dovrebbero essere scuole di fedeltà, dove imparare a tenere duro, persistere, anche quando andiamo incontro al fallimento, quando si verificano fraintendimenti, crisi nelle relazioni, persino quando sentiamo che i nostri fratelli e le nostre sorelle non ci sono fedeli. La risposta non può essere allora la fuga, il ricominciare, l’ingresso in un altro ordine, o il matrimonio. Dobbiamo disfare le valigie e gettarle via. La presenza non coincide con un semplice esserci. Si tratta di starci. Si tratta di assumere la forma di una vita vissuta attraverso la storia, di una vita che tende verso il Regno. La perdurante presenza del missionario è certo un segno della presenza reale del Signore che ci ha donato il suo corpo per sempre.


Notes:

1 A. Giddens, Runaway World. How Globalisation is Reshaping our Lives, London 1999 (tr. it.: Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna, 2000).

2 Sui primi due stadi della missione, cf. R.J. Schreiter, The New Catholicity. Theology Between the Global and the Local, New York, 1997.

3 Cf. Giddens, Runaway World.

4 Sono certo che si tratti di una citazione da qualcuno, ma non riesco a ricordare chi!

5 P. Claverie, Lettres et messages d’Algerie, Paris, 1996.

6 N. Boyle, Who Are We Now? Christian Humanism and the Global Market from Hegel to Heaney, Edinburgh, 1998, p. 20.
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56

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