La missione in un mondo in fuga (III)

Pubblicato in Missione Oggi
L’annuncio

Siamo passati dalla missione come presenza alla missione come epifania. I nostri occhi hanno visto la salvezza del Signore. Dobbiamo però compiere un ultimo passo, che è l’annuncio. Il nostro Vangelo deve trovare la parola. Alla fine del Vangelo di Matteo, i discepoli sono inviati in tutte le nazioni a fare nuovi discepoli, e a insegnare a tutti ciò che Gesù ha stabilito. La Parola si fa carne, ma anche la carne si fa parola.

Ci troviamo di fronte a quella che costituisce forse la crisi più profonda della nostra missione nel mondo di oggi. C’è un atteggiamento di profondo sospetto nei confronti di chiunque pretenda insegnare, a meno che non provenga dall’Oriente, o proponga qualche strana dottrina New Age.

I missionari che insegnano sono sospettati di indottrinamento, di imperialismo culturale, di arroganza. Chi siamo noi per dire ad altri in cosa dovrebbero credere? Insegnare che Gesù è Dio è visto come un gesto di indottrinamento, ma insegnare che Dio è un fungo sacro fa parte del ricco corredo della tradizione umana! In ogni caso, la nostra società è profondamente scettica nei confronti di qualunque pretesa di verità. Noi viviamo a Disneyland, il paese dove la verità può essere reinventata a piacere. Nell’era virtuale, la verità è ciò che si fa apparire sullo schermo del computer. Ho letto di un pilota che, dopo il decollo da un aeroporto in Perù, si accorse che il suo pannello di controllo era impazzito. Quando virava a sinistra, lo schermo diceva che stava andando a destra; quando si alzava di quota, diceva che si stava abbassando. Le ultime parole registrate sono state: «È tutto finto». Purtroppo la montagna contro cui si schiantò non lo era.


Nell’opera Christianity Rediscovered (Il cristianesimo riscoperto), Vincent Donovan descrive i suoi numerosi anni di lavoro come missionario presso i Masai, a costruire scuole e ospedali, senza però mai annunciare la sua fede. I suoi superiori non lo incoraggiavano in questa direzione. Alla fine, non potendo contenersi più a lungo, riunì tutti per annunciare la sua fede in Gesù. E allora (se ricordo bene, visto che la mia copia del libro è andata persa) gli anziani gli dissero: "Ci siamo sempre domandati perché tu fossi qui, e ora lo sappiamo. Perché non ce lo hai detto prima?". Per questo siamo stati inviati: per parlare agli altri della nostra fede. Non sempre abbiamo la libertà di parlare, e dobbiamo scegliere accuratamente il momento, ma sarebbe in ultima analisi paternalistico e condiscendente da parte nostra non annunciare ciò che riteniamo sia vero. E invero, fa parte della buona novella l’annuncio che gli esseri umani sono fatti per la verità e possono raggiungerla. Come afferma la Fides et ratio, "si può definire (…) l’uomo come colui che cerca la verità" (n. 28; EV 17/1234), e tale ricerca non è vana. Noi abbiamo — sono le parole delle Costituzioni domenicane — una "propensio ad veritatem" (LCO, 77, 2), un’inclinazione verso la verità. Ogni spiritualità della missione non può prescindere dalla passione per la verità.

Nel contempo, è un punto centrale dell’insegnamento cattolico tradizionale l’idea che noi ci manteniamo all’estremo limite del linguaggio, intravedendo a malapena i confini del mistero. San Tommaso afferma che l’oggetto della fede non sono le parole che pronunciamo, ma Dio, che non possiamo né vedere, né conoscere. L’oggetto della fede va oltre la portata e il potere delle nostre parole. Noi non possediamo, né padroneggiamo la verità. Di fronte alle credenze e alle affermazioni degli altri, dobbiamo mantenere un atteggiamento di profonda umiltà. Per citare Pierre Claverie, "io non possiedo la verità, ho bisogno della verità degli altri": sono un mendicante di verità.

Al cuore di una spiritualità della missione vi è sicuramente una comprensione della buona relazione tra la nostra fiducia nella rivelazione della verità e la nostra umiltà di fronte al mistero. Il missionario deve trovare il giusto equilibrio tra fiducia e umiltà. È questa una fonte di grande tensione in seno alla Chiesa, tra la Congregazione per la dottrina della fede e diversi teologi asiatici, come pure all’interno di diversi ordini religiosi. Può rivelarsi una tensione molto feconda al cuore stesso del nostro annuncio del mistero. Ricordo un Capitolo generale dei domenicani nel corso del quale scaturì un’accesa discussione tra coloro che centravano interamente la propria vita e la propria vocazione sull’annuncio della verità, e coloro che sottolineavano quanto poco, secondo Tommaso d’Aquino, possiamo conoscere a proposito di Dio. Tutto si concluse al bar, con un seminario su un passo della Summa contra gentiles, e con la consumazione di una gran quantità di birra e di cognac! Per vivere bene questa tensione tra annuncio e dialogo, credo il missionario debba avere una spiritualità della sincerità e una vita di contemplazione.

81!18Può apparire strano parlare di una spiritualità della sincerità. È evidente che colui che predica deve dire solo ciò che è vero. Tuttavia, ritengo che saprà quando parlare e quando tacere, che troverà il giusto equilibrio tra fiducia e umiltà, solo se sarà stato formato all’esigente disciplina della sincerità. È questo un ascetismo lento e doloroso, un’attenzione all’uso delle parole, un ascolto di ciò che dicono gli altri, una presa di coscienza di tutti i modi in cui ci serviamo delle parole per dominare, sovvertire, manipolare, anziché rivelare e manifestare.

Così scriveva Nicholas Lash: "Inviati come ministri della Parola redentrice di Dio, noi dobbiamo — nella politica e nella vita privata, nel lavoro e nello svago, nel commercio e nella ricerca scientifica — mettere in pratica e incrementare quella spirito filologico, quell’attenzione alla parola, quella cura meticolosa e coscienziosa per la qualità del dialogo e per l’onestà della memoria, che è la prima causalità del peccato. La Chiesa di conseguenza è, o dovrebbe essere, una scuola di filologia, un’accademia di cura della parola".14 L’idea del teologo come filologo può sembrare molto arida e polverosa. Come può un missionario avere tempo per questo genere di cose? Invece, essere un predicatore significa imparare l’ascetismo della sincerità in tutte le parole che pronunciamo, nel modo in cui parliamo degli altri, dei nostri amici come dei nostri nemici, di coloro che si sono appena assentati, del Vaticano, di noi stessi. Solo assimilando nel cuore questa verità sapremo enunciare la differenza tra una fiducia positiva nell’annuncio della verità, e l’arroganza di coloro che pretendono di sapere più di quanto non sia possibile; tra l’umiltà di fronte al mistero e un relativismo insipido che non osa neppure più prendere la parola. La disciplina fa parte della nostra assimilazione a colui che è la Verità, e la cui parola "è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore" (Eb 4,12).

In secondo luogo, saremo predicatori umili e fiduciosi solo se diventeremo contemplativi. Chrys McVey affermava che "la missione inizia nell’umiltà e culmina nel mistero". Solo se impareremo a fermarci nel silenzio di Dio, potremo trovare le giuste parole, al contempo sincere e umili. Solo se il centro della nostra vita è il silenzio stesso di Dio, possiamo discernere dove finisce il linguaggio e dove comincia il silenzio, quando annunciare e quando tacere. Rowan William scriveva che "ciò che dobbiamo riscoprire è la disciplina del silenzio: non un silenzio assoluto, ininterrotto e inarticolato, ma la disciplina che consiste nell’abbandonare i nostri facili discorsi sul Vangelo, così che le nostre parole possano sgorgare nuovamente da una profondità e con una forza diverse, da qualcosa che va oltre la nostra immaginazione".15 È questa dimensione contemplativa della vita, capace di distruggere le false immagini di Dio che potremmo essere tentati di venerare, che ci libera dalle insidie dell’ideologia e dell’arroganza.

I futuri cittadini del Regno

Devo ora concludere tirando le fila del discorso. Ho detto che il fondamento di ogni missione è la presenza; esserci, come un segno del Regno, accanto a coloro che sono i più radicalmente diversi, divisi da noi da storia, cultura, o religione. Ma questo è solo l’inizio. La nostra missione ci spinge verso l’epifania e, in ultima analisi, verso l’annuncio. La Parola si fa carne, e la carne si fa parola. Ciascuno stadio nello sviluppo della nostra missione esige dal missionario qualità diverse: fedeltà, povertà, libertà, sincerità e silenzio. Sto forse delineando il profilo di un impossibile missionario santo, molto distante da qualunque missionario reale? Tutto questo equivale a una coerente "spiritualità della missione"?

Ho sostenuto che, in questa fase della storia della missione, il modo migliore di considerare il missionario è quello di vederlo come il futuro cittadino del Regno. Il nostro mondo in fuga è fuori controllo. Non sappiamo in quale direzione stia andando, se verso la felicità o verso la disgrazia, verso la prosperità o verso la povertà. Noi cristiani non siamo depositari di informazioni privilegiate. Crediamo però veramente che alla fine verrà il Regno. È questa la nostra sapienza ed è questo tipo di sapienza che i missionari incarnano con la loro stessa vita.

San Paolo scrive ai Filippesi: "dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù" (Fil 3,13). È un’immagine straordinariamente dinamica. San Paolo è teso, pronto allo scatto, come un atleta a Sidney in corsa per l’oro olimpico! Essere un futuro cittadino del Regno significa vivere questo dinamismo. Significa tendersi, pronti allo scatto, correre verso il traguardo. Il missionario soffre di incompletezza: è un essere compiuto a metà, fino all’avvento del Regno in cui tutti saranno una cosa sola. Noi ci protendiamo verso gli altri, verso quelli più distanti, più incompleti, fino al momento in cui saremo tutt’uno con loro nel Regno. Noi tendiamo la mano verso una pienezza di verità, che per il momento intravediamo solo vagamente; tutto ciò che annunciamo è invaso dal silenzio. Siamo pervasi da una sete di Dio, la cui bellezza possiamo indovinare nella nostra povertà. Essere un futuro cittadino del Regno significa essere dinamicamente, radiosamente, gioiosamente incompleto.

Eckhart scriveva che "nell’esatta misura in cui tu lasci tutte le cose, proprio in questa esatta misura, né più, né meno, Dio arriva apportando tutto ciò che è suo - se veramente tu abbandoni tutto ciò che possiedi".16 La bellezza di Eckhart è che meno uno sa di cosa sta parlando, tanto più ciò che dice risuona come meraviglioso! Forse ci sta invitando a un esodo radicale da noi stessi, capace di creare un vuoto in cui Dio entri. Noi ci tendiamo verso Dio nel nostro prossimo, Dio che è il più radicalmente altro, così da scoprire Dio al centro del nostro essere, Dio come ciò che vi è di più intimo. Infatti Dio è totalmente altro e totalmente intimo. Ed è questa la ragione per cui, per amare Dio, dobbiamo amare a un tempo il prossimo e noi stessi. Ma questo potrebbe essere il tema di un’altra conferenza!

Questo amore è molto rischioso. Giddens afferma che, in questo mondo pericoloso, che precipita verso un futuro ignoto, l’unica soluzione è correre dei rischi. Il rischio è il tratto peculiare di una società che guarda al futuro. Queste le sue parole: "assumersi dei rischi in modo positivo è la vera fonte di quell’energia che crea la ricchezza in un’economia moderna … Il rischio è la dinamica mobilitante di una società che tende al cambiamento, che vuole determinare il proprio futuro anziché consegnarlo alla religione, alla tradizione o alla stravaganza della natura".17 Giddens considera chiaramente la religione come un rifugio dal rischio, ma la nostra missione ci chiama a un rischio che va oltre la sua immaginazione. È il rischio dell’amore. È il rischio di vivere per altri che magari non ne vogliono sapere di me; il rischio di vivere per una pienezza di verità che non posso mai cogliere pienamente, il rischio di lasciarsi svuotare dalla sete di Dio, il cui Regno verrà. Questo è quanto di più rischioso ci sia, e nondimeno quanto di più sicuro.



Notes:

14 La citazione è tratta ancora da Ernst, The Theology of Grace, p. 166.
15 R. Williams, Open to Judgment, London, 1996, pp. 268ss.
16 Meister Eckhart, Sermons and Treatises, IV, London, 14 (ed. it.: Trattati e prediche, a cura di G. Faggin, Milano, 1982).
17 Giddens, Runaway World, p. 23s.
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56

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