«Portare il Vangelo agli uomini del nostro tempo»

Pubblicato in Missione Oggi
Paolo VI dall’Ecclesiam Suam all’Evangelii Nuntiandi

Ci soffermiamo sul tema della missione in Paolo VI, nella scia luminosa dell’anno che la Chiesa ha voluto dedicare a san Paolo. “Nel nome di Paolo”: così titola la nostra serata, con la duplice allusione a Paolo, l’apostolo delle genti che fa compiere al Vangelo il balzo verso l’Europa, e a Paolo VI, il papa che ha vissuto come sua straordinaria passione il “portare il Vangelo agli uomini del nostro tempo”, facendo così i conti con la modernità.


L’idea di missione in Paolo VI: ecco il tema specifico di questa sera, che vorrei proporre a partire da un duplice intervento di Papa Montini: l’enciclica Ecclesiam Suam e l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi.

Possiamo iniziare riascoltando l’intervento profetico che il card. Montini fece nella Basilica di S. Pietro il 5 dicembre 1962, a tre giorni dalla fine della prima Sessione del Concilio Vaticano II. Da tutti tanto atteso e attentamente seguito, l’allora Arcivescovo di Milano disse: «Che cosa è la Chiesa? Che cosa fa la Chiesa? Questi sono i due pilastri attorno ai quali debbono disporsi tutti i temi del Concilio. Il mistero della Chiesa e la missione che le è stata affidata e che deve compiere: ecco l’argomento su cui deve concentrarsi il Concilio! Tutti s’attendono che la Chiesa, in questo Concilio, chiaramente e consapevolmente professi la sua natura, il compito da sempre confidato ad essa e l’azione singolare che deve svolgere in questo tempo»1.


Montini non faceva che riprendere la lettera quaresimale del 1962, Pensiamo al Concilio, nella quale tra l’altro scriveva: «La Chiesa intende, con il prossimo Concilio, venire a contatto con il mondo. Questo è un grande atto di carità. La Chiesa non penserà soltanto a se stessa; la Chiesa penserà a tutta l’umanità…

Per questo cercherà di farsi sorella e madre degli uomini; cercherà di essere povera, semplice, umile, amabile nel suo linguaggio e nel suo costume.

Per questo cercherà di farsi comprendere, e di dare agli uomini di oggi facoltà di ascoltarla e di parlarle con facile ed usato linguaggio.

Per questo ripeterà al mondo le sue sapienti parole di dignità umana, di lealtà, di libertà, d’amore, di serietà morale, di coraggio e di sacrificio.

Per questo, come si diceva, vedrà di “aggiornarsi” spoglian­dosi, se occorre, di qualche vecchio mantello regale rimasto sulle sue spalle sovrane, per rivestirsi di più semplici forme reclamate dal gusto moderno».2

Con queste due citazioni montiniane siamo introdotti a svolgere il nostro tema, che vogliamo articolare in un duplice momento: il primo riguarda il “dialogo” come stile della missione della Chiesa (l’Ecclesiam Suam); il secondo l’“evangelizzazione” come stile dell’i­dentità stessa della Chiesa (l’Evangelii Nuntiandi).

1.Il “dialogo” come stile della missione della Chiesa

La scelta del tema della prima lettera enciclica di Paolo VI era delicata. Divenuto Papa nel giugno del 1963, dopo la morte di papa Giovanni che aveva commosso il mondo, la prima grande decisione del nuovo Papa fu quella di continuare il Concilio. Per questo si dovette attendere il 6 agosto del 1964 perché l’enciclica vedesse la luce.

Tra tutte le encicliche di Paolo VI, l’Ecclesiam Suam “è certamente la più significativa perché, essendo la prima, rivela l’animo profondo di Paolo VI” (P. Macchi, Paolo VI nella sua parola, p. 175).

Il testo dell’enciclica era maturato dopo la seconda Sessione conciliare del 1963, una sessione non priva di contrasti e dai risultati piuttosto esigui: l’unico documento di peso approvato (oltre il decreto Inter Mirifica) era stato la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium. Ed ora doveva aprirsi la terza Sessione, che si prevedeva cruciale avendo come posta in gioco la Costituzione sulla Chiesa. Si comprende allora la cautela con cui il Papa anticipa il tema.

Il dialogo come “vocazione” del Pontificato

Paolo VI fa una scelta coraggiosa: colloca il tema della Chiesa nella prospettiva del dialogo. Proprio così, come l’“enciclica del dialogo”, essa viene comunemente conosciuta. Ed è lo stesso Paolo VI a preannunciarla e a presentarla ai fedeli nell’udienza generale a Castelgandolfo il 5 agosto: in questa enciclica «diciamo quello che noi pensiamo debba fare oggi la Chiesa per essere fedele alla sua vocazione e per essere idonea alla sua missione. Parliamo cioè della metodologia che la Chiesa, a parere Nostro, deve seguire per camminare secondo la volontà di Cristo Signore. Possiamo forse intitolare questa enciclica: le vie della Chiesa»3.

Secondo queste parole non si dovrebbe definirla un’enciclica sul dialogo, ma una riflessione sullo stile dialogico dell’essere e della missione della Chiesa. Potremmo allora dire che la parola “dialogo” non definisce una tattica, né una strategia della Chiesa per ridurre la distanza che la coscienza cristiana, in particolare cattolica, sperimenta con la modernità, ma dice la via stessa della Chiesa, la sua forma riconoscibile, il suo stile inconfondibile.

Montini sente questa enciclica – da lui stesso manoscritta per intero lungo parecchi mesi - come la “vocazione” profonda del suo stesso Pontificato. “Una volta di più – scrive G. Adornato -, l’amore appassionato per Cristo ne è all’origine e porta al cuore del documento, l’amore alla Chiesa Sua, di Cristo; di qui il senso di fortissima responsabilità di chi deve, per mandato divino, conformarne l’immagine terrena a quella voluta dal Fondatore” (G. Adornato, Paolo VI. Il coraggio della modernità, p.107).

Il dialogo come “metodo” del rapporto tra Chiesa e mondo

Più precisamente sono tre le vie del dialogo indicate da Paolo VI, alle quali peraltro corrispondono le tre parti dell’enciclica.

La prima via è spirituale, oggi diremmo “teologica”: essa riguarda la coscienza che la Chiesa deve avere e deve alimentare su se stessa. Qui il Papa ripropone la passione che ha acceso tutta la sua esistenza, facendo propria una parola, una convinzione di Romano Guardini. In uno degli interventi preparatori al Concilio, il card. Montini così diceva: «Il Concilio è una straordinaria occasione ed uno stimolo potente per aumentare in tutta la cattolicità il “senso della Chiesa”. Sembra pronunciata per questa circostanza la memorabile parola di Romano Guardini: “Si è iniziato un processo di incalcolabile importanza: il risveglio della Chiesa nelle anime”»4.

La seconda via è morale, e riguarda il grande tema della “riforma della Chiesa”, “il rinnovamento ascetico, pratico, canonico, di cui la Chiesa ha bisogno per essere conforme alla coscienza sopraddetta, per essere pura, per essere santa, per essere forte, per essere autentica”.

Ora Montini, anche se non entra negli aspetti che sono lasciati al lavoro del Concilio, mette chiaramente in rilievo la profonda consapevolezza di una Chiesa che sente di dover affrontare una trasformazione strutturale in ordine a poter incontrare la modernità. Una simile riforma – come sappiamo – sarà la croce di Paolo VI, una croce da lui perseguita in modo tenace ed equilibrato.

La terza via del dialogo è quella apostolica: è qui che la parola “dialogo” assume il significato di un “metodo” di incontro della Chiesa con il mondo, in quanto – così egli dice – riguarda «il modo, l’arte, lo stile, che la Chiesa deve infondere nella sua attività ministeriale nel concerto dissonante, volubile, complesso del mondo contemporaneo»5. In una parola, la Chiesa e la sua missione hanno natura dialogica, nel senso che la Chiesa parla di Cristo agli uomini e conduce gli uomini a Cristo.

Le “armoniche” del dialogo montiniano

Siamo così alla terza parte dell’enciclica, nella quale incontriamo, anzitutto, le sei caratteristiche decisive del dialogo. Paolo VI, descrivendole sulla falsariga del dialogo storico-salvifico tra Dio e l’umanità – parla infatti di un colloquium salutis –, così le indica: l’iniziativa divina, la sua intenzione misericordiosa, il carattere incondizionato, la sua qualità liberante, l’universalità dei destinatari, la pedagogia della gradualità (cfr. nn. 74-79).

Si tratta di sei note che qualificano l’essere stesso del popolo di Dio che è la Chiesa: esso è il segno reale del dialogo salvifico di Dio con l’umanità, che ha il suo centro nella Pasqua di Gesù.

Paolo VI poi passa a definire lo stile dell’“annuncio cristiano nella circolazione dell’umano discorso” (cfr. nn. 80-82) e a descrivere le quattro proprietà del dialogo: chiarezza, mitezza, fiducia, prudenza (cfr. nn. 83-84).

Infine l’enciclica identifica i destinatari del dialogo nei famosi tre cerchi: quello “immenso” dell’umanità in quanto tale, il “mondo”; quello dei credenti in Dio: ebrei, musulmani, religioni orientali e africane; quello dei cristiani di altre confessioni (nn. 101-116), a cui il Papa accosta, senza farne un cerchio a parte, quello del dialogo intraecclesiale.

Ci viene così presentata una vera “tipologia” del mondo come “comunità di dialogo”: prendendo il volto e il corpo di questi diversi destinatari, il dialogo si fa concretezza storica e trova la sua ispirazione profonda e unificante nella carità. Si tratta, inoltre, di tre cerchi da percorrere secondo una duplice direzione: dal cerchio più ampio al centro e dal centro alle dimensioni cosmiche del dialogo, con due movimenti che sono come le due fasi di un’unica respirazione che fanno la Chiesa viva nel mondo e il mondo un luogo che spera con la Chiesa.

2. L’ “Evangelizzazione” come stile dell’identità della Chiesa

Passiamo ora dall’enciclica Ecclesiam Suam all’esortazione Evangelii Nuntiandi. È sì un passaggio da un documento all’altro, ma esso esprime un passaggio più profondo, che avviene a diversi livelli di sviluppo: della cultura come tale, della coscienza ecclesiale e in specie della stessa coscienza personale di Paolo VI. Si tratta della progressiva maturazione del “carattere testimoniale” della Chiesa in rapporto al suo compito tipico e immane, quello dell’evangelizzazione.

In realtà, negli anni che vanno dalla fine del Concilio al 1975 (anno della pubblicazione dell’Evan­gelii Nuntiandi) il secolo XX registra un vero e proprio “cambio epocale”, insieme stupendo e drammatico.

Lo stesso Concilio invece di propiziare l’inizio di una “primavera di speranza” sembra subito suscitare più attese scomposte che una meditata opera di riforma della Chiesa e una rinnovata stagione di incontro con il mondo moderno. Il brivido che attraversa il mondo, e che ha nel ’68 il suo momento acuto, sembra attraversare come una febbre lo stesso corpo della Chiesa. È il tempo delle polarizzazioni estreme, dove tutti pensano di cambiare tutto, senza cominciare da se stessi. Paolo VI come noc­chiero indo­mito guida in questo decennio la Chiesa cattolica con una tenace lungimiranza pari alla sofferenza che patisce.

Il contesto: l’evangelizzazione come liberazione

L’esortazione Evangelii Nuntiandi nasce da un contesto di grande tribolazione. Datata nel decimo anniversario della chiusura del Concilio (8 dicembre 1975), proprio questa esortazione forse in qualche modo apre veramente il postconcilio come un nuovo tempo della storia della Chiesa: quello dello slancio dell’evangelizzazione.

Com’è noto, il Sinodo dei Vescovi del 1974 ha vissuto una specie di scontro tra due concezioni dell’evangelizzazione: una, tutto sommato, ancora dottrinale (o vagamente pastorale) e una “liberazionista”6. Due infatti erano le anime dell’episcopato che, durante il Sinodo, non erano riuscite a trovare un accordo, perché la corrente latino-americana (non senza adesioni anche dalla regione afro-asiatica) propugnava un’idea, ma soprattutto una pratica della missione come servizio ai poveri, come lotta contro tutte le forme di dipendenza, come liberazione sociale. Il punto di riferimento dell’evangelizzazione, si diceva con una certa enfasi, non è il non-credente, ma il non-uomo. Sullo sfondo stava l’ideologia marxista, che parlava di liberazione preva­lentemente in senso sociale.

Bloccatosi il Sinodo su questo contrasto, venne bocciato il documento conclusivo e i Vescovi rinviarono al Papa il compito di uscire dall’impasse e di trovare una sintesi superiore.

L’orizzonte: il ricupero teologico

Ora Paolo VI, proprio nell’Evangeliui Nuntiandi ricupera e rilancia l’orizzonte propriamente teologico dell’evangelizzazione7. È quanto emerge, come novità o comunque come colpo d’ala in rapporto alla discussione sinodale, nelle prime tre parti dell’esortazione: “dal Cristo evangelizzatore alla Chiesa evangelizzatrice” (nn. 6-16), “che cosa significa evangelizzare” (nn. 17-24), “il contenuto dell’evangelizzazione” (nn. 25-39).

In particolare il Papa precisa la sua idea di evangelizzazione radicandola dentro la missione di Gesù, che è di portare il Vangelo del Regno agli uomini. Sentiamo, tra gli altri possibili, questo bel testo che, con un tratto sicuro ed energico, spazza via tutte le letture parziali del tema: le letture liberazioniste, sacramentaliste, intimiste, ecc.: «Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa: «Ecco io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5; cfr. 2 Cor 5,17; Gal 6,15). Ma non c’è nuova umanità, se prima non ci sono uomini nuovi, della novità del battesimo (cfr. Rm 6,4) e della vita secondo il Vangelo (cfr. Ef 4,23-24; Col 3,9-10) Lo scopo dell’evangelizzazione è appunto questo cambiamento interiore e, se occorre tradurlo in una parola, più giusto sarebbe dire che la Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del Messaggio che essa proclama (cfr. Rm 1,16; 1 Cor 1,18; 2,4), cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri» (n. 18).

Solo ponendo al centro Gesù Cristo, è possibile tenere insieme tutti gli aspetti del Vangelo: l’evento e la parola, l’annuncio e i sacramenti, la conversione personale e il cambiamento delle strutture sociali, la promozione dell’uomo e la trasformazione delle culture, la Chiesa come testimonianza reale del Vangelo accolto e la sua forma estroversa. Capace cioè di comunicare il messaggio vitale che annuncia, che è l’incontro vivo con Cristo, testimone del Padre, e di donarlo agli uomini nella condizione concreta contrassegnata dalla propria identità culturale e condizione sociale.

Considerando ora i primi 39 numeri dell’esortazione, ci soffermiamo brevemente su tre aspetti cruciali dai quali possiamo ricavare per così dire l’idea di missione di Paolo VI: il centro dell’idea di missione, la Chiesa come testimonianza, lo stile della missione della Chiesa e dei credenti.

Il centro: il Vangelo della libertà

La chiarificazione centrale riguarda il Vangelo di Gesù come libertà. Esso non è solo Vangelo della liberazione (sociale, dai legami di dipendenza, schiavitù, povertà), ma è anche e soprattutto Vangelo della libertà e come libertà.

Evangelizzare non significa solo stare vicino ai poveri, non esige solo di restituire loro la dignità di persone, ma richiede di introdurli come liberi figli di Dio nel dono e nella responsabilità della comunione trinitaria ed ecclesiale. Annunciare il Vangelo non significa solo ripartire dai poveri e dagli ultimi, ma significa acco­gliere con loro la gioia di diventare liberi e fratelli: il cristianesimo non serve solo il povero, non lo tratta solo come persona, ma lo rende persona libera e responsabile, e questo dentro una comunione fraterna (la Chiesa) e per il servizio al mondo (la missione). Questo è il Vangelo della libertà e come libertà!

Ci basti anche solo questa illuminante e preziosa citazione: «La evangelizzazione conterrà sempre anche - come base, centro e insieme vertice del suo dinamismo - una chiara proclamazione che, in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, morto e risuscitato, la salvezza è offerta ad ogni uomo, come dono di grazia e misericordia di Dio stesso (Cfr. Ef 2,8; Rm 1,16). E non già una salvezza immanente, a misura dei bisogni materiali o anche spirituali che si esauriscono nel quadro dell’esistenza temporale e si identificano totalmente con i desideri, le speranze, le occupazioni, le lotte temporali, ma altresì una salvezza che oltrepassa tutti questi limiti per attuarsi in una comunione con l’unico Assoluto, quello di Dio: salvezza trascendente, escatologica, che ha certamente il suo inizio in questa vita, ma che si compie nell’eternità» (n. 27).

Il segno: la forma “testimoniale” della Chiesa

Una seconda chiarificazione fatta dall’Evangelii Nuntiandi riguarda la “forma testimoniale” della Chiesa: questa non solo attesta ad altri l’Evangelo, non solo deve lasciarsi continuamente evangelizzare, ma essa stessa è - nella sua più profonda natura - il “Vangelo accolto”. Essa esiste in quanto testimonianza del Vangelo e così compie tutti i suoi gesti, dalle forme dell’annuncio alla celebrazione sacra­mentale sino alla vita nella carità, come atti con cui si lascia plasmare dal Vangelo. Solo come “testimonianza” è la Chiesa di Gesù: Vangelo e Chiesa si appartengono profondamente.

I nn. dal 13 al 16 sono veramente singolari se collocati in quegli anni. Si potrebbe dire che Paolo VI porta il Concilio a quella maturazione cristocentrica che avrà poi nel grido d’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II il suo manifesto: “Aprite le porte a Cristo”!

Riascoltiamo questo brano di intensa e vibrante bellezza: «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore. Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli, essa ha sempre bisogno di sentir proclamare «le grandi opere di Dio» (cfr. At 2,11; 1 Pt 2,9), che l’hanno convertita al Signore, e d’essere nuovamente convocata e riunita da lui. Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo» (n. 15).

In una parola conclusiva: non è possibile la “missionarietà” della Chiesa senza una profonda e continua “riforma” della Chiesa stessa: ma essa è tale se è una riforma “dalle origini”, dalla forza viva del Vangelo animata dallo Spirito di Gesù.

Lo stile: una Chiesa estroversa

Ciò consente di leggere ora con facilità la terza chiarificazione, riguardante i diversi aspetti che entrano nel compito dell’annuncio evangelico, ossia le forme pratiche dell’annuncio, i destinatari dell’evangelizzazione, gli operai dell’evangelizzazione, lo spirito dell’evangelizzazione. È la parte cosiddetta pratica, ma dove lo slancio missionario di Paolo VI fa risuonare veramente lo spirito delle origini cristiane, dando un’immagine corale e sinfonica della testimonianza della Chiesa. È lo stile della Chiesa “estroversa” che Montini ha sempre sognato e che si fa carico dell’uomo moderno, con verità per la sua condizione fragile e con la carità di un messaggio sanante e liberante.

Potremmo parlare di un momento magico, nel quale il Pontefice ormai quasi ottantenne fa risuonare al mondo lo spirito del Concilio e fa navigare la Chiesa verso il futuro “al soffio dello Spirito Santo”. Così scrive: «Noi stiamo vivendo nella Chiesa un momento privilegiato dello Spirito. Si cerca da per tutto di conoscerlo meglio, quale è rivelato dalle Sacre Scritture. Si è felici di porsi sotto la sua mozione. Ci si raccoglie attorno a lui e ci si vuol lasciar guidare da lui. Ebbene, se lo Spirito di Dio ha un posto eminente in tutta la vita della Chiesa, egli agisce soprattutto nella missione evangelizzatrice: non a caso il grande inizio dell’evangelizzazione avvenne il mattino di Pentecoste, sotto il soffio dello Spirito» (n. 75).

“Nel nome di Paolo” Montini ha traghettato la Chiesa verso un confronto ardito con la modernità, soprattutto con il senso vivo della persona e della coscienza, luogo dove il Vangelo può tornare a fiorire anche oggi.

Centrale davvero si fa l’istanza missionaria come DNA della fede cristiana, un DNA che rimane sempre nuovo e giovane. In tal senso desidero concludere con un brano dell’omelia che l’allora Arcivescovo mons. Giovanni Battista Montini rivolse ai seminaristi il 14 novembre 1957 in occasione della Grande Missione di Milano: “Il cristianesimo che predichiamo non è invecchiato; …la fede che portiamo dentro di noi non è un lago stagnante, ma una sorgente zampillante, che può ricavare da sé infinite risorse, può dare da sé esplicazioni nuove, può testimoniarsi in opere ancora non viste nella Chiesa di Dio… Sì, abituatevi a pensare alla Chiesa non come una istituzione vecchia, ma come un organismo vigoroso che sa continuamente ritrovare gioventù dentro le proprie fibre e la propria anima, rinnovando inesauribilmente i propri mezzi… La Chiesa deve essere sempre viva e sempre giovane anche nelle sue manifestazioni, anche nella sua capacità di rivolgersi agli altri, anche nella sua vitalità moderna. Deve osare!”.

+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano



Montini – Paolo VI: l’evangelizzazione, compito e missione della Chiesa
Convegno
Villa Cagnola di Gazzada – 27 aprile 2009
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56
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