Diventare santi nella città secolare

Pubblicato in Missione Oggi
Quando si visita una città e si osservano attentamente le planimetrie dei parchi e delle costruzioni, quando si esamina il piano urbanistico, l’organizzazione dei luoghi destinati al culto, ai divertimenti e allo sport, si scopre l’anima della città. Si comprendono meglio i problemi e gli interessi dei cittadini, il loro modo di vivere e la qualità del loro vivere.

È diverso vivere nel centro di una megalopoli di grattacieli e di cemento armato invece che in una periferia borghese, un quartiere dormitorio, o in un tranquillo villaggio di campagna. L’habitat architettonico esprime materialmente le realtà esistenziali vissute dall’uomo.

Il cristiano che vive in città è sollecitato dalle sfide che incontra. L’interculturalità della gente che vi abita lo solleciterà a tessere relazioni di fraternità con tutti; la disuguaglianza economica lo renderà sensibile alla sofferenza e alla povertà di molti; la disparità di culto e di religione lo inviterà ad essere tollerante, riconoscendo ad ognuno il diritto di seguire i dettami della propria coscienza.


Essere santi nella città secolare, significa trovare i mezzi per esprimere nel quotidiano la nostra fede, la nostra riconoscenza alla bontà di Dio che ci ama e ci invita all’impegno nella costruzione di una mondo migliore.

Nel mondo dell’impero romano, la planimetria di una città tentava di rispondere alla sfida di integrare la realtà divina nella vita dell’uomo. Ogni città era, infatti, costruita in un cerchio, attorno a due grandi strade che lo attraversavano perpendicolarmente. Il cardo era l’asse verticale, pieno di templi, di statue elevate agli dei e di piccole edicole votive. Era il luogo del soggiorno degli dei tra gli uomini.

Il decumanus, al contrario, asse orizzontale della città, era il luogo della vita sociale, pieno di case, di botteghe, di piazze, di postriboli, di ginnasi e di scuole. Qui la vita si svolgeva placidamente, tra i doveri e i piaceri di ogni cittadino.

Questa planimetria traduceva bene la filosofia del popolo romano. La vita sociale e la vita religiosa si compenetravano armoniosamente, arricchendosi a vicenda.

Anche le città greche esprimevano, seppure in modo differente, le stesse preoccupazioni. Atene , la capitale della Grecia e Elea Velia, sede della Scuola Eleatica nella Magna Grecia, ne sono un esempio classico.

Una lunga strada, piena di monumenti e di residenze borghesi, legava l’Acropoli, con i suoi templi costruiti agli dei, ai quartieri poveri del Pireo e della città portuale. Era il simbolo della congiunzione tra la frenesia del commercio con il silenzio contemplativo dei templi, il legame suggestivo tra la leggerezza del divenire e il dolce riposo dell’essere.

Il senso della vita era ovvio, scontato: l’uomo poteva entrare nell’habitat di Dio, offrendogli la sua povertà, e gustare così la pace.

Le città moderne in cui oggi noi viviamo hanno rotto questo equilibrio filosofico antico e propongono un’altra visione dell’uomo e del senso della vita.

Se a New York si cammina guardando sempre in alto nella prospettiva dei grattacieli, a Venezia si fa il contrario: per non cadere nei canali che attraversano la città, si guarda in basso. A Calcutta si farà attenzione per non calpestare la gente che vive e muore sulle strade; a Kinshasa, la quantità di mercati obbligherà il turista a rallentare la marcia; mentre a Tokyo sarà necessario munirsi di mascherine di ossigeno per difendersi dalla polluzione dilagante.

Ovunque, però, emergono dei tratti comuni: gente che corre, assillata dai problemi ordinari della vita; volti di persone con espressioni di gioia e di dolore sul viso; scuole e biblioteche che propongo il sapere; mezzi di trasporto tra i più rapidi e sofisticati; luoghi di divertimento sani e malsani, casino, stadi; bar, boutiques e ipermercati che invitano all’acquisto e al consumo; buildings di banche e di commercio internazionale; palestre, sale di fitness e saloni di bellezza; ospedali, carceri e cimiteri; chiese, sinagoghe, moschee e sale di culto con denominazioni appena conosciute. E poi, i poveri, i girovaghi, i senzatetto e i senza dimora, seduti agli angoli delle strade per chiedere l’elemosina; i clown e i saltimbanchi che offrono spettacoli suscitando l’ilarità e il sorriso dei bimbi.

Sintesi in miniatura dei bisogni dell’uomo.

Oggi, la città è diventata più sociale, ospitando nel suo ventre non solo la gente e i suoi bisogni, ma anche le strutture che soddisfano le esigenze primarie dei milioni di abitanti che la abitano. Cambia così anche il senso del vivere: non più bucolico e legato ai ritmi della natura ma effervescente e dinamico, più orientato alla soddisfazione dei bisogni sempre di più emergenti.

Come vivere allora il messaggio cristiano nell’agglomerazione della città? Come esprimere santità in un luogo che sembra più interessato a soddisfare i bisogni che a vivere i valori?

Non aver paura di entrare in città

Prima di noi, Gesù vi è entrato. A Naim si avvicinava per portare il Vangelo, quando si imbatté in un corteo funebre, che usciva dalla città. Era il simbolo della cultura della morte, che la città aveva prodotto. Alla donna che piange Gesù offre il conforto, al bimbo che è morto Gesù ridà vita. La presenza di Gesù ha operato un cambio radicale, facendo ritornare la gente in città per continuare la vita. Il popolo gridava: “Un grande profeta è apparso tra noi. Dio è venuto in aiuto del suo popolo” (Lc 7, 16).

Come reagire di fronte alla modernità? Sovente, essa ci appare come l’idra dalle molte teste, che ingoia gli abitanti, soffocandoli con i suoi tentacoli di morte. La luce che viene dalla storia della salvezza ci invita ad esseri più positivi e a vedere nella modernità del nostro tempo e delle sue risorse il tessuto nuovo che lo Spirito ci offre per tessere la nuova evangelizzazione. La paura e il rifiuto sarebbero offesa e mancanza di fiducia nel Signore che dirige la storia.

Si tratta di amare, perché amati

Vivere la santità in un contesto urbano, vuol dire amare, perché amati.

Rimasi molto impressionato, quando le Fraternità Monastiche di Gerusalemme, fondate da P.Pierre Marie Delfieux, si installarono a Montreal, su invito del Cardinale. Dissero pubblicamente di voler vivere la vita cristiana, in forma monastica, nel cuore della città secolare, proclamando e vivendo le beatitudini. Mantenendosi con il lavoro delle loro mani.

La loro regola, scritta nel Libro della vita, comincia così: “Ama. Accogli con tutto il tuo essere l’amore che Dio ti offre per primo. Ama a tua volta il Signore e ama i fratelli e le sorelle. Ad ogni istante, intérrogati sull’amore, perché saremo giudicati sull’amore”.

In questa visione, la santità è concepita come amore. Il concetto astratto di kadosh diventa concreto nell’agape, che colora di amore i mille atti quotidiani della nostra vita.

Siamo chiamati ad amare, perché il Padre ci ha amati per primo.

C’è una parola, detta dal Padre al battesimo e alla trasfigurazione di Gesù, che non dovremmo mai dimenticare: “Tu sei il mio figlio prediletto”. Per Gesù, l’ascolto di questa parola fu l’accoglienza di una particolare intimità con il Padre e la decisione di compiere sempre la sua volontà. Per noi, esprime la certezza che Dio ci ama senza condizione, sempre, in ogni situazione in cui ci veniamo a trovare. Verità irrinunciabile, non discutibile e non negoziabile, bussola di orientamento nelle tempeste della vita. “Verità da custodire e da interiorizzare”, ripeteva con forza Henri Nouwen nei suoi libri, “affinché non si indebolisca o ci venga derubata”.

La compassione: assumere il male del mondo

Percorrendo oggi la città, subito ci si accorge che non tutto è conforme a quanto Dio desidera. Gli omicidi, i latrocini, lo sfruttamento, la droga e le varie dipendenze, le cosche mafiose, il peccato, fanno parte del tessuto quotidiano del mondo d’oggi, che pur aspirando alla giustizia, a volte la straccia, creando un popolo di poveri e di bisognosi. “C’è sempre un infelice ovunque vai”.

Dietro la bellezza dei volti umani, manifestazione della trasparenza della grazia e dell’amore di Dio che ci crea e ricrea, spesso si cela la malizia e l’invincibile forza del male. Siamo impastati di debolezza e di la fragilità.

Ciò che però maggiormente inquieta nel tessuto della modernità, la radice forse di ogni problema, è il desiderio prometeico dell’Uomo di ergersi a padrone del mondo, di cancellare Dio dall’orizzonte dell’esistenza, venerandosi lui stesso come Dio. Oggi l’uomo divinizza l’uomo.

In nome di una libertà arbitraria e fallace, la legge di Dio è rifiutata, anzi contestata. Il relativismo, il soggettivismo, il sincretismo diventano i nuovi ideali da rincorrere, idoli creati dalle mani dell’uomo che tutto permettono, giustificano, approvano.

Il cristiano sa che non deve giudicare nessuno, inquadrando ogni persona nel suo percorso umano, psichico e sociale. Sa che in ogni individuo opera la grazia di Dio; si sforza di scorgere in ogni essere umano la presenza di Gesù, che sceglie come dimora il cuore dell’uomo. L’aiuto al fratello che soffre é il modo più vero di occuparsi di Dio!

Come Gesù, ciò che il cristiano predilige è l’incontro personale, nello stile di relazione che la riflessione evangelica sul buon pastore propone (cfr. Gv 10). I contenuti sono espressi nelle azioni del pastore e della pecora: conoscere ed essere conosciuto, amare ed essere amato; offrire cibo per nutrire e portare benessere; tirare fuori dal chiuso dell’ovile per condurre ai pascoli ubertosi, aprendo così orizzonti nuovi; camminare davanti, senza paura, indicando la strada e aiutando chi maggiormente fatica.

È nella relazione con l’altro che il volto del bisognoso rivelerà la mia identità più profonda, il mio vero volto di povero e aprirà la strada della responsabilità (cfr. la bellissima riflessione al riguardo di Emmanuel Lévinas). Quando si ama una persona, ci si sente responsabili di lei, perché “La responsabilità è la cura di un altro essere, dominata dalla domanda: cosa capiterà a questo essere, se io non mi prendo cura di lui?” (Hans Jonas). La mia esistenza rinvia alla coesistenza con gli altri; l’io riconosce il tu, in vista del noi, e genera così la comunità.

Si prenderà coscienza che la presenza di volti di ogni razza e colore, invita a realizzare sempre più la fraternità e la solidarietà, stimolando l’impegno perché i diritti e i doveri di ogni essere vivente siano garantiti e rispettati, “trasformando ogni ostilità in fraternità, all’interno dell’unità della creazione” (P.Ricoeur).

Arriviamo così a sviluppare compassione. Essa consiste nell’identificarsi con la persona che soffre, volendone con forza la liberazione e l’estinzione della causa dei mali. La compassione è indissociabile dall’impegno: esse sono le due facce di una stessa medaglia che si chiama amore.

Resta un ultimo passo da fare per copiare Gesù al completo. Davanti al rifiuto dell’uomo di amare Dio e di accogliere il suo invito alla conversione, la nostra responsabilità non si estingue. Siamo invitati a vivere la santità nell’attitudine dell’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo.

Facendosi uomo, Gesù ha assunto la realtà della storia in cui viviamo e la storia di ogni uomo, portando e sconfiggendo sulla croce il dolore e la morte.

Già nel battesimo “Gesù si era preso sulle spalle il peso della colpa dell’intera umanità; lo portò con sé nel Giordano. Dà inizio alla sua attività ponendosi nel posto dei peccatori. La inizia con l’anticipazione della croce. Il battesimo è l’accettazione della morte per i peccati del mondo. L’ingresso nel peccato degli altri è discesa all’inferno, non solo da spettatore, ma com-patendo, e con una sofferenza trasformatrice, convertendo gli inferi, travolgendo e aprendo le porte dell’abisso” (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret).

L’agnello di Dio, in un amore più grande del male, ha preso su di sé ciò che l’uomo è stato capace di produrre, il bene e il male, le gioie e le angosce, gli scacchi e le speranze che tardano a realizzarsi, senza giudicare né condannare.

Egli è là, in mezzo a noi, risorto e vivente, transverberando il male col bene e indicando la via che sconfigge la morte.

Farsi carico, dunque, delle fragilità del mondo, per trasformarle e offrirle al Padre come sacrificio di lode. “È la materia dell’eucaristia sul mondo”, diceva P.Theilard de Chardin.

Già nell’antichità, a partire dal IV secolo, i vescovi di Roma capirono l’importanza di questa mistica e per non dimenticarla inventarono il pallio. Ponevano sulle loro spalle una stola di lana di pecora, simbolo del giogo di Cristo, che è la sua volontà di salvare tutti. Si caricavano delle pecore a loro affidate, intercedendo per la loro salvezza.

Servire, guarendo con la nostra ombra

Davanti all’immenso e difficile lavoro che la città domanda, non è facile avere il coraggio di impegnarsi. Ci si vorrebbe più perfetti di quello che si è, meno fragili e più forti, più coerenti.

È però nella debolezza che il discepolo trova la forza di consolare, di guarire, usando il peso e la leggerezza della propria ombra.

Già la psicologia junghiana aveva individuato nell’ombra l’insieme di debolezze e fragilità che accompagnano sempre l’uomo, inseparabile compagna di ogni vivente.

Bisogna impegnarsi nel servizio per diventare santi! “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22, 27). Tutta la vita di Gesù è stata un servizio all’uomo bisognoso. Oltre che annunziare il Regno, spiegare, far strada con i discepoli, Gesù soddisfa i bisogni primari della gente: moltiplica il pane, il vino a Cana, aiuta i malati e gli indemoniati, salva l’onore dell’adultera. Rende al Padre e ai fratelli il servizio della riconciliazione e perdona i peccati. Ma il più grande servizio fu il dare la vita per la salvezza di tutti.

Servire i fratelli significa consolare, guarire, pur con la nostra fragilità.

Mi colpisce sempre il fatto di Pietro che guarisce con la sua ombra, raccontato dagli Atti (5,15). Egli passa sulle strade, nelle piazze, e i malati che toccano la sua ombra rivivono.

Pietro sapeva di aver peccato, di aver tradito. Ma alla luce del Risorto, della sua potenza, si lascia trafiggere dalla sua luce, dalla sua grazia, e diviene capace di espellere fuori da sè il male, il peccato, l’ombra. Libero dalle tenebre, è capace di amare, di guarire.

Certo é la potenza di Gesù che salva, che converte, ma essendo lui oggi invisibile, non è attraverso la testimonianza di un discepolo, pur debole e fragile, che può passare la grazia di una nuova vita?

Non bisogna avere paura.

L’esperienza di Paolo, pur non facile da capire e da accettare, ci conforta e ci commuove sempre: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2 Cor 12,10).

La stessa esperienza, è messa sulla bocca di Tazio, protagonista di un romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt, scrittore ben attento ai drammi della città secolare:“La mia terza nascita ebbe luogo sulla spiaggia, davanti al cavalletto di Annibale, quando scoprii che l’universo era bello, armonico, ricco, se io accettavo di essere mediocre, vuoto, povero” (Quando ero un’opera d’arte).

Ci aiuta anche la riflessione di Agostino, che ripensando agli errori dottrinali e morali della sua giovinezza, così esclama: “Uno solo è perfetto: Cristo. Noi preghiamo così: Rimetti a noi i nostri debiti”. Aveva raggiunto la pace dell’uomo unificato. Il peccato non gli interessava più. Era ormai giunto all’umiltà di riconoscere che a lui stesso e all’intera chiesa era continuamente necessaria la bontà di un Dio che perdona.

La storia del buon samaritano diventa paradigma nell’annunciare la salvezza. Trovare un santo che aiuti a vivere da cristiani non è facile. Ma incontrare un samaritano, peccatore e escluso, capace di versare olio su piaghe infette e rendendo così visibile l’amore di Dio, è forse alla portata di tutti.

Nell’attesa della sua venuta

È viva in noi la certezza che la città terrena si trasformerà in una città nuova: il regno giungerà a compimento, dopo aver posto le basi nella storia dell’oggi e i cieli nuovi e la terra nuova della Gerusalemme celeste appariranno splendenti.

Come è triste vedere un cristiano pessimista, ripiegato e confuso, senza speranza! Chi non spera, non crede e non ama!

Santità, vuol dire credere che un mondo nuovo sta per venire. Si tratta di attenderlo, vegliando nella preghiera, aspettando l’evento come una partoriente: Maranatha!

Perché la città secolare ha tanta paura della morte? Perché la vela, la nasconde, la copre di fiori, di musica, di luci e di inganni?

Nonostante tutto, inesorabile, essa verrà.

“Il carrozzone va avanti da sé,
con le regine, i suoi fanti, i suoi re.
Ridi buffone, per scaramanzia,
così la morte va via.
Musica gente, cantate, che poi
uno alla volta si scende anche noi.
Sotto a chi tocca in doppiopetto blu,
una mattina sei sceso anche tu.
Bella la vita che se ne va:
un fiore, un cielo, la tua ricca povertà,
il pane caldo, la tua poesia,
tu che stringevi la tua mano nella mia.
E il carrozzone riprende la via.
Facce truccate di malinconia.
Tempo per piangere no non ce n'è,
tutto continua anche senza di te”. (Renato Zero, Il carrozzone)

Ma Cristo, con il legno della sua croce, ha già definitivamente sfondato la porta ferrea, invalicabile, dell’abisso: il Paradiso ci attende nella casa del Padre, dove la comunione e la tenerezza di Dio ci colmeranno di gioia.

“La città si chiamerà da quel giorno in poi: YAHW SHAMMAH, Dio è là” (Ez 48,35)
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56

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