NON CEDIAMO AL GRIGIORE, VIVIAMO DAVVERO!

Pubblicato in Missione Oggi

P. Stefano Camerlengo

Introduzione

Carissimi missionari voglio condividere questa riflessione con semplicità e verità, frutto di un lungo confronto con diversi pensatori che scrivono sulla nostra realtà attuale, per ritrovare il senso delle cose e della vita che viviamo, per non cedere al grigiore, per vivere con gioia la nostra donazione.

1) In un mondo precario

Ogni tempo ha le sue ricchezze e le sue pene, i suoi segni di speranza e i suoi abissi. Tutti i tempi sono tempi di crisi, di passaggio, di cambiamento; nessuna età della storia umana è stata un’età di progresso inarrestabile, stabilità, saggezza, benessere. Dunque il tempo che ci è dato da vivere non è migliore o peggiore di altri tempi. Anzi: per quante involuzioni, per quanti fallimenti e sconfitte dell’umanità possiamo registrare, ci sono state certamente età peggiori: pensate ai tempi del nazismo e del fascismo, pensate ai secoli della schiavitù, o ai tempi in cui la fede veniva imposta con le armi dei conquistadores e i teologi teorizzavano l’assenza dell’anima negli Indios.
 In realtà noi viviamo un tempo di purificazione, certamente molto difficile nella vita quotidiana delle persone, delle famiglie, perché la morale comune non coincide più con la morale cristiana e le virtù bibliche e il Vangelo recupera, allora, la sua portata “sovversiva” originaria.
Un tempo di purificazione che sarà lungo, perché i tempi della storia sono pazienti e lenti, e il Vangelo e la Croce vivono nella percezione comune la “debolezza” di fronte al mondo; e i cristiani, anche sono sempre più minoranza, tornano necessariamente a essere lievito, sale, resto d’Israele.
La precarietà, come diceva il sociologo francese Pierre Bourdieu, è dappertutto. La globalizzazione dei mercati sempre più extra territoriale allarga la forbice tra ricchi e poveri e ha relegato la politica, le istituzioni nazionali a un ruolo secondario. Il profitto viene prima dell’eguaglianza, il mercato prima della solidarietà, l’efficienza  prima dei diritti umani e del bene comune, la competitività prima della fraternità.
La nostra nuova cittadinanza, in una gerarchia rovesciata delle virtù, è quella di consumatori o produttori. La globalizzazione è inarrestabile.  La precarietà è dappertutto, dunque, ed è la nostra vita. Riduce la nostra capacità di speranza politica, la nostra speranza escatologica, ci rende precari e smarriti anche sul piano della fede e l’egoismo, l’immediato, la ricerca di autorealizzazione attraverso desideri da consumare subito, diventano la misura del nostro vivere.
L’incertezza sul futuro e la paura dell’altro, del diverso, dell’immigrato che può mettere a repentaglio il nostro benessere e la nostra precaria identità, suscitano l’unica richiesta collettiva in una società di individui privatizzati (Bauman): la sicurezza. «Abbandonata la speranza di migliorare la vita in modo significativo, la gente si è convinta che quel che veramente importa è il miglioramento del proprio stato psichico; aderire alle proprie sensazioni, nutrirsi con cibi genuini, prendere lezioni di ballo o di danza del ventre, bagnarsi nel mare della saggezza orientale, fare del jogging, imparare a “entrare in rapporto”, a vincere “la paura del piacere”.  (Cristopher Lash, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1992, pag. 16).
“Lo shopping colma il vuoto lasciato dai viaggi che l’immaginazione non compie più verso una società alternativa, più sicura, umana, giusta” (Bauman, La società individualizzata , pag. 190).
Questa precarietà esistenziale, lavorativa, religiosa, rende più difficile assumere impegni duraturi: acquistare o anche affittare una casa, sposarsi, mettere al mondo figli, assumersi impegni duraturi nella vita personale o nella vita sociale; la vita tende a diventare un susseguirsi di episodi (Bauman) o di storie , alla ricerca di gratificazione immediata: ogni legame è vissuto come transitorio, e la televisione riflette e amplifica questa condizione.
Viviamo un tempo di singolarizzazione della vita: single è più facile, è più in linea, è più moderno, e la metafora di Bauman sull’album di fotografie (le fotografie restano), memoria della famiglia sostituito dalle videocassette cancellabili e riciclabili, è molto efficace. “È in crisi l’idea stessa di durata e immortalità”; cattivo gusto, plastica, poster sopraffanno la bellezza perché la bellezza è immortalità, è una anticipazione dell’infinito. Anche l'idea stessa d'identità, cara al nostro modo di parlare è in crisi e in mutamento. La teorizzazione sulla identità dovrebbe abbandonare la metafora delle “radici” e del conseguente “sradicamento”, “sostituendolo con l'immagine del gettare e issare le ancore. In effetti, issare un ancora, a differenza dal “radicarsi” e “sradicarsi”, non ha niente di irrevocabile e definitivo. Le radici divelte dalla terra si seccano, uccidendo la pianta, mentre al contrario le ancore vengono issate solo per essere gettate di nuovo, e altrettanto facilmente, in posti diversi. ( Bauman, l'arte della vita, pagg.106-107).
Ci sono anche altre sfide che ci chiamano al cambiamento ed al rinnovamento. Alcuni aspetti che abbiamo già ripetutamente evidenziato in alcuni nostri documenti, come:

“ La difficoltà di formare a una missione diversa

 “Pur essendo chiaro l'obiettivo della Ratio Formationis e adeguati i contenuti, il metodo e i mezzi per raggiungerlo, non tutti gli studenti manifestano entusiasmo, disponibilità e zelo missionario secondo lo spirito del Fondatore e le attuali esigenze della missione.”

“La vocazione e la formazione alla vita consacrata e al ministero sacerdotale per alcuni giovani non sembrano soddisfare le loro aspirazioni e conferire sicurezza e preparazione sufficiente per i compiti futuri.”

“In questi ultimi anni la mobilità e l'avvicendamento di missionari destinati alla formazione di base sono stati elevati”. ( cfr. XI CG pag.72, n.1-3-5: formazione di base)

 Le difficoltà che si riscontrano nella formazione sono un'opportunità per rivedere il processo formativo, riqualificare le comunità apostoliche, che devono accogliere i giovani in formazione,  ristudiare le strutture formative.

 Per riqualificare la missione in un cammino di creatività fedele al nostro carisma e alla nostra missione occorre ripensare il modo di presentare, preparare e vivere la missione, a partire dalle tappe formative. Per questo, il tema è proposto alla Consulta.

 La stanchezza e la rassegnazione di tanti missionari

 Sconcertati dalle novità del mondo e incapaci di seguirne il ritmo, molti di noi si sentono incapaci di reagire, perdendo l'entusiasmo iniziale e credendo che la nostra vocazione non abbia più niente da dire. Perdiamo il senso del nostro servizio, vivendo la missione come un lavoro, piuttosto che come vocazione. Subentra allora la crisi, che apporta momenti di difficoltà, smarrimento e sofferenza, nei quali emergono interrogativi, bisogni, urgenze inattese. E’ il momento opportuno per una nuova scelta, al fine di far emergere quasi una nuova identità.
 
 E' un periodo di prova, ricerca, discernimento, e quindi di sofferenza, ma anche di crescita e novità. È un momento di speranza pasquale. Esso richiede gli atteggiamenti propri di chi cammina nel deserto: la costanza nel cammino, il silenzio per l'ascolto, l'aiuto di una guida per essere orientati, la libertà interiore e la povertà per sperare e disporsi a ricevere l'aiuto.

 La coscienza della nostra povertà è provvidenziale per farci vivere nella verità e umiltà autentica, che producono in noi una libertà interiore che ci fa guardare senza vergogna i nostri limiti, ci fa attendere solo da Dio la salvezza e ci dispone a fare la sua volontà.

Il cambio dell'idea di missione: dall’”ad gentes” geografico a quello “antropologico”

 All'inizio del nostro Istituto la missione consisteva nell'uscire dal proprio paese, in genere l'Europa, per andare in un altro paese più povero, come l'Africa, o l'America Latina. Oggi questa idea è in parte tramontata. Più che al luogo geografico, per noi ancora importante, si guarda alle persone che necessitano una presenza missionaria per la loro situazione umana e per l’annuncio del vangelo. In questo senso, anche l’Europa rivendica oggi situazioni di “ad gentes”, soprattutto per gli ambienti che sembrano refrattari, impenetrabili al vangelo: i nuovi areopaghi. Inoltre, nel passato la missione era opera esclusiva dei missionari, che n erano considerati come degli "specialisti"; oggi, anche questo è cambiato, perché tante sono le associazioni, organismi e gruppi che realizzano la missione come un servizio a favore dei più poveri e lontani.

 Nel X CG abbiamo allargato il concetto dell'“ad gentes” anche alle nostre presenze in Europa, favorendo scelte di inserimento in ambienti difficili, tra poveri o non evangelizzati. Questo ci rende più attenti ai bisogni dell'umanità, rispondendo al nuovo “ad gentes”. Alcuni, però, lo vedono come un indebolimento dell'idea di missione intesa come uscire,  andare oltre... D’altra parte, oggi si fa più fatica ad accogliere la missione “ad vitam e ad extra”, e questo spiega, almeno in parte, la crisi vocazionale anche del nostro Istituto.

 Questa nuova visione dell'“ad gentes” spinge l’ Istituto a ripensare la sua identità, a riqualificare la missione “ad gentes”, secondo le scelte prioritarie fatte negli ultimi Capitoli Generali. Studiare, da parte della Consulta, l’idea dell’intra gentes che oggi si sta facendo largo spazio nel mondo asiatico, sarebbe un’opportunità da non perdere.

Alcune nostre “fragilità”

La missione è svolta ancora in maniera molto “occidentale”. Nella maggior parte dei casi, non facciamo e non viviamo la missione, ma ci limitiamo alla pastorale parrocchiale, come “buoni parroci”.

 Manca in molti missionari l’impegno di riflettere sulla missione, rinnovarsi, affrontare in modo professionale i problemi dell’evangelizzazione e della società. Vengono così a mancare persone capaci di creare il nuovo. 

 Manca una visione d’insieme d'Istituto e di riflessione missionaria a livello continentale.

 C’è una difficoltà grande a gestire la responsabilità, demandando sempre a altri le decisioni. Non siamo ancora arrivati a un equilibrio stabile tra unità e sussidiarietà nel governo dell’Istituto.

 Notiamo un divario grande tra missione e formazione. Sembra infatti che la formazione impartita nei nostri seminari, a causa dei contenuti, delle strutture, dei formatori,  dell'atteggiamento dei missionari in generale, delle metodologie, non raggiunga i risultati auspicati.

 Facciamo fatica a volerci bene e a accettarci come fratelli. Si nota la difficoltà a elaborare un vero progetto comunitario di vita. Prevalgono: l’individualismo sull’unità d’intenti, i progetti personali sulla corresponsabilità, la semplice convivenza su una vera comunione fraterna arricchita dall’accoglienza della diversità.

 A livello comunitario si vive un certo disagio per la povertà, perché ci interpella e ci pone in questione sulla coerenza di alcune scelte.” ( dal documento per la Consulta, 2008 )

2) In compagnia con gli uomini del nostro tempo

E allora, che fare? Una diffusa tentazione tra i cattolici è la rassegnazione. Anche quando si riesce a non rimpiangere il tempo passato, c’è una fascia consistente di laici, di sacerdoti, religiosi e religiose, che si limitano, con molta buona fede e non senza amarezza e inquietudine interiore, ad andare avanti, a una sorta di routine, governando il governabile, cioè le 99 pecorelle (che nel frattempo sono diventate 25-30) perché la pecorella smarrita (nel frattempo moltiplicata per settanta) è assorbita dall’indifferenza dell’età del vuoto, e dunque irraggiungibile.
La rassegnazione è vissuta spesso con una spiritualità personale intensa, con un affidamento al Signore in tempi di minoranza, condizione più subita come portata dei tempi che vissuta come sfida. Salvare il salvabile, chiudere l’ovile per non perdere le pecorelle rimaste, attenuando così anche la forza dirompente del Vangelo, la novità del Concilio, custodendo i fedeli, smussando gli angoli della pietra angolare. La rassegnazione diventa così una mediazione tra tradizionalismo e cura spirituale delle brave persone, dei buoni, amministrazione dei sacramenti, con quel pizzico di ammirazione per il coraggio dei profeti che, se confermano nella fede, non incidono nella propria comunità, nel proprio tran tran per non scoraggiare o scandalizzare i rimasti nell’ovile. C’è una bella, intramontabile, canzone del père Duval, L’ésperance morte, che molto si adatta ai rassegnati, ai mosci del buon Dio: “Il Signore ha bussato alla tua porta, ma tu dormivi”.
C’è un dormire spirituale, un opporsi alla speranza, all’entusiasmo della missione, alla creatività, all’incessante aggiornamento del linguaggio, della comunicazione, della liturgia, per mettersi in sintonia con il modo di parlare e di comunicare, le speranze e le angosce dei concittadini del nostro tempo, che diventa omissione, colpa, ignavia. La nostra fedeltà alla missione deve essere creativa, altrimenti muore e diventa tradimento.

L’altra tentazione è quella dei gasati: l’integralismo di certi movimenti, il giudizio di condanna sul nostro perfido tempo secolarizzato, sul mondo, nella convinzione che l’annuncio debba usare ogni scampolo di potere residuo della vecchia società cristiana, e l’energia della forza, delle pietre del tempio piuttosto che la debolezza della Croce e della tenda della testimonianza; la proclamazione ideologica dei “valori cristiani”, il sogno della riconversione cristiana della società, della restaurazione della cristianità perduta intrecciando tradizionalismo e giudizio con la spregiudicatezza dei mezzi della modernità.
La tentazione di un cristianesimo muscoloso per riportare il mondo a Dio, scambiando il lievito con la pasta.

Infine ci sono i laici, i preti, religiosi/e, i catechisti, le famiglie che, seguendo la spiritualità della strada e della tenda sui sentieri aperti del Concilio, cercano di essere “missionari”, cioè cercano di vivere la “simpatia” piuttosto che l’antipatia verso il mondo, si sforzano di vivere la “compagnia” con le donne e gli uomini del nostro tempo e, invece di barricarsi e difendersi da un nemico, avvertono che “la cultura attuale non è deprecabile; è invece il kairos, il momento opportuno
per raggiungere ciò che ci sta più a cuore” (S. Fausti, Elogio del nostro tempo , Piemme 1999, pag. 17).

3) Presenti nel nostro tempo da missionari

La sfida del missionario è la compagnia con gli uomini del nostro tempo, l’ascolto dei soffi più nascosti della ricerca del senso della vita, che ci sono anche nei più assorbiti angoli nella cultura apparentemente dominante dell’età del vuoto. Attraverso la gioia, l’allegria dei redenti.
È il sentiero dell’evangelizzazione, di una nuova evangelizzazione, della missione ad gentes. Per preparare le vie del Signore, perdute le “sicurezze sociali” della società cristiana, l’annuncio, nel XXI secolo, ci impone il recupero della fede nuda delle prime comunità cristiane, la con-passione con le donne e gli uomini del nostro tempo, la condivisione della condizione di deserto, di esilio spirituale, dunque l’inculturazione e la pre-evangelizzazione. Sembrano parole astratte, ma non è così.
Uscire dal tempio o dall’ovile, ascoltare, capire, mettersi in sintonia con le grida sepolte dal rumore della ricerca di paternità – dunque di Dio – dei nostri contemporanei. Leggere i segni dei tempi. Senza sconti. Senza addolcire con l’ottimismo della volontà il contesto di questa età del vuoto, ma senza maledire questo nostro tempo, e tanto meno i prigionieri del corto circuito “narcisismo - seduzione”.
Se la Resurrezione è il patto di Dio con le donne e gli uomini di ogni tempo e il patto è la liberazione da ogni schiavitù, il Dio annunciato da Gesù il Cristo “… è un Dio di benevolenza e simpatia, che ama i suoi figli al di là di ogni legge umana e religiosa; un Dio che si perde per i perduti, e che offre solidarietà ingiusta al malfattore giustamente condannato inchiodandosi con lui sulla croce (Lc 23,40 ss.); un Dio che abbandona sé stesso per ogni abbandonato da Dio (Mc15,34)” (S. Fausti, op. cit., pagg. 86-87).
Allora, se la pista tracciata nel deserto è la compagnia, la simpatia, questo non significa abbassare la soglia della radicalità evangelica per “accomodare” il cristianesimo al mondo, ai modelli dominanti, per riacchiappare i lontani, i fuggiti (ce ne sono tanti) per colpa della nostra stanchezza o per la noia delle nostre liturgie e della nostra comunicazione liturgica o esistenziale. Anzi! A noi è chiesto di testimoniare la credibilità di una fede liberante, la credibilità di Cristo Alfa e Omega della storia, la credibilità del cristianesimo come senso della vita e del futuro dell’uomo, come fede non irragionevole, non mitica, non superata dalla modernità, non condannata al museo. Non ci è
chiesto di adattare il Vangelo al mondo, ma di inverarlo nel mondo.
La testimonianza della vita, e con la vita, è in sé stessa comunicazione. Ma è richiesto ai cristiani di testimoniare il Cristo che libera da tutte le schiavitù nel linguaggio di oggi, e secondo i ruoli e i carismi propri di ciascuno e delle diverse collocazioni e vocazioni.
Essere missionari oggi, significa per molti di noi studiare, fermentare di idee, di pensare ai giovani, di andare a ricercare i lontani e i fuggiti, andando verso gli altri anziché aspettarli nelle nostre mura, troppo spesso aperte e chiuse a orario come i benzinai, quasi sempre aperte quando gli altri lavorano, spesso sbarrate quando gli altri potrebbero cercarci.
Come si fa? Con la capacità di comunicare, di parlare, di ascoltare; con la capacità di cercare le persone sole; con la capacità di accoglienza, impegnando le nostre comunità, le nostre parrocchie, riconvertendo le nostre scuole in centri di incontro, di dibattito, di confronto, in luoghi di solidarietà e fraternità, che poi sono le “forme” concrete dell’amore.
Non si può continuare a parlare d’amore senza declinare questa parola, che altrimenti suona retorica, in luogo, in ricerca incessante di risposte profonde alla domanda di credibilità, nel XXI secolo, dell’esperienza cristiana, dunque della nostra fede. Si attende da noi soprattutto un cambio di mentalità, una capacità di lettura del mutamento culturale, esistenziale, sociale, del nostro tempo.
Scrive Jean Paul Mensior: “Io credo, lo voglia o no, che chi pretende di parlare di Dio restandosene
con le mani in mano si condanna a non essere ascoltato. Apparirà come un incosciente o un impostore. Rischierà di sentirsi chiedere che Dio è mai quello di cui parla, che non lo spinge ad impegnarsi nelle lotte a favore dell’uomo”.
 “La parola di Dio, oggi più che mai, è legata a un fare”. E certamente essere poveri, vivere e lottare con i poveri, pulire il culetto a un bambino handicappato, lavare un barbone, aprire un dispensario e una casa d’accoglienza per i malati di Aids, impegnarsi concretamente contro la morte per fame, è di gran lunga la prima forma di credibilità della nostra esperienza di fede. E l’annuncio, per quanto bravi possiamo essere, senza il fare, o credendo che automaticamente scateni la nascita o la crescita della fede, può essere molto deludente.
Nel suo libricino Stelle in alto mare, lo scout morto “in concetto di santità” Guy de La Riguadie (che viaggiava sempre con il sacco a pelo ma con uno smoking nello zaino perché amava ballare), scriveva una cosa all’apparenza banale ma liberante: “… si può servire Dio costruendo cattedrali ma anche sbucciando le patate”.
Per me (e questo è il mio tormento) costruire cattedrali oggi vuol dire, appunto, condividere la povertà con i poveri, pulire un bambino handicappato, lavare un barbone. Ma non tutti siamo chiamati a costruire cattedrali.
A noi, per ora  è chiesto di sbucciare patate, un lavoro meno gratificante, ma che considero una collaborazione indiretta con la costruzione di cattedrali: far lavorare l’intelligenza, continuare a studiare, a leggere, a risarcire i privilegi ricevuti utilizzando le parole, le immagini, a rispondere, nel mio piccolo, alle inquietudini intellettuali e alle domande che mi vengono poste su Dio, sul senso della vita e della storia. Suscitare animosità interiore, stimolare “I Care”, mi interessa.
E farlo con il sorriso, con una vera apertura mentale verso gli altri, gli interlocutori, amandoli se possibile. E spesso non è facile.

4) Rivisitando la nostra scelta di vita

  Indubbiamente esistono da sempre mezzi e parole per proclamare la buona novella di Gesù, ma l’annuncio vero ed efficace non passa attraverso le parole e le mediazioni ripetute e sapute, ma attraverso la testimonianza di vita, da parte di testimoni in carne ed ossa che vivono profeticamente il vangelo di Gesù; vuol dire che si rende indispensabile la coerenza tra vita e parola, ma questa visibilità non è manifesta solo nella persona, ma deve essere esplicita nelle nostre opere apostoliche e nelle nostre istituzioni da consacrati per l’evangelizzazione ad gentes.
Dobbiamo riconoscere che, in questi ultimi anni diversi aspetti della missione hanno subito cambiamenti, ed alcuni sono andati in crisi. Questo ci rende confusi e ci lascia perplessi sul come dobbiamo continuare ad annunciare Gesù Cristo oggi in questo nostro mondo  tenendo conto della nostra realtà di comunità. Anzi, questo insieme di fattori sembra aver indebolito e perfino annullato in gran parte di noi l’entusiasmo e lo zelo apostolico nell’annuncio di Gesù; realtà questa che si vede aggravata dalla diminuzione delle nostre risorse umane e dal nostro invecchiamento, fino ai limiti di esaurimento delle energie disponibili.
L’individualismo sta danneggiando anche in gran parte questo aspetto della visibilità della missione; qualsiasi lavoro  missionario svolto fuori dal contesto comunitario e senza rapporto con la missione della nostra famiglia, non è più trasparenza di una missione che è, innanzi tutto, invio radicale da parte di Dio, risposta radicale dell’uomo ad una chiamata a porsi al servizio gratuito di Dio e del prossimo.
Non sempre la missione è vissuta come ciò che è nella realtà: una manifestazione della nostra disponibilità verso Dio in gratuità ed abbandono totali. E’ vero che la missione si concretizza in compiti, cioè in attività ed iniziative concrete, ma non deve confondersi né identificarsi con esse. Il compito separato dalla missione crea missionari consacrati professionisti o funzionari clericali, probabilmente competenti, con un gran senso di responsabilità... preoccupati di trasmettere valori di costanza, solidarietà, preoccupazione per i più abbandonati... ma forse non così impegnati nella trasparenza della dimensione di dedizione alla trascendenza, all’Assoluto di Dio che motiva la missione.
Possiamo chiederci, quali desideri, quali attrattive suscitano tra i giovani che ci osservano, questi lavori a cui noi ci dedichiamo ? Scoprono in essi il motivo delle nostre vite, il perché ed il senso della nostra vocazione di sequela radicale a Gesù?
È curioso che, a volte, per spiegare chi è e cosa fa un missionario della Consolata, dobbiamo invitare qualcuno che vive altre realtà missionarie. Forse senza volerlo, stiamo dicendo che il nostro modo di vivere e la nostra missione qui e adesso non contagia, che manca ad essi la capacità di suscitare desiderio ed attrazione.
La mancanza di risorse umane cui abbiamo fatto cenno prima pone anche un gran problema di visibilità della nostra vita da consacrati e missionari  nelle nostre opere apostoliche. Si continua a svolgere una missione apostolica, poiché i laici sono stati coinvolti in essa in pieno con gran senso della loro responsabilità di cristiani, ma rimane il problema certamente insolubile della visibilità quale mediazione per l’animazione missionaria e vocazionale.
Inoltre, insieme a questa difficoltà si uniscono anche gli interrogativi che alcune persone impegnate  pongono ad un certo tipo di istituzioni, criticando decisamente o mettendo in dubbio la loro capacità di trasmettere valori evangelici e di essere testimoni della povertà e semplicità che professiamo. Si pone la questione di sapere se le strutture ed i mezzi che le nostre istituzioni richiedono non impediscono che la testimonianza evangelica riesca a diffondersi e farsi presente. E’ una questione che interpella spesso la visibilità della missione della vita consacrata. A cosa siamo chiamati: ad "essere luce del mondo" che illumina senza nascondersi sotto il moggio o "sale della terra" che nascostamente si dissolve per dare sapore ed evitare la corruzione?
In effetti, partendo dalla prospettiva vocazionale, è necessario riconoscere che i giovani per impegnarsi desiderano sapere a cosa, per che cosa e per chi siamo chiamati in questa famiglia o Istituto missionario; è importante per l’animazione vocazionale che sia visibile e trasparente il nostro impegno missionario e si sentiranno più facilmente contagiati e chiamati se è generoso ed entusiasta. E’ difficile impegnare la vita per opzioni che appena sono conosciute, che vengono praticate con difficoltà ed in mezzo a litigi o divisioni interne. Un progetto apostolico ben concepito, visibile e condiviso con entusiasmo dalla Regione e dall'Istituto, sarà sempre un’occasione per cui coloro che sono sensibili alla chiamata del Signore si sentiranno chiamati.

Conclusione: ripartire di nuovo!
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56

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