MINISTERO PASTORALE E SANTITA’ SACERDOTALE

Pubblicato in Missione Oggi
Card. Albert Vonoye
Prima parte
Introduzione

E’ una santità sacerdotale la santità dei preti diocesani? A questa domanda nel passato si dava una risposta positiva, ma oggi questa risposta è contestata. Si obietta che negli scritti del Nuovo Testamento il sacerdozio non è attribuito mai ai ministri della Chiesa; il modo con cui essi vengono designati non ha nulla di sacerdotale. Nella Prima lettera ai Tessalonicesi san Paolo li chiama “coloro che faticano tra voi, che vi fanno da guida nel Signore e vi ammoniscono” (1 Ts 5,12).
La Prima lettera ai Corinzi parla di “coloro che hanno dedicato se stessi al servizio dei santi” (1 Cor 16,15). La Lettera ai Romani menziona “chi presiede” tra “chi dona” e “chi fa opere di misericordia” (Rm 12,8). Negli Atti degli Apostoli si vede che le prime comunità cristiane in Giudea erano guidate da “presbiteri”, “anziani” (At 11,30; 15,2.4 ecc.). Il termine greco “presbyteroi” significa “più vecchi”, “anziani” e presso i Giudei serviva a designare un gruppo di responsabili. Questo titolo non aveva nessuna connotazione sacerdotale. In seguito è stato adottato in tutte le comunità cristiane (cf. At 14,23; 20,17); è presente nelle Lettere pastorali (1 Tm 5,17; Tt 1,5), nella Lettera di Giacomo (Gc 5,14) e nella Prima lettera di Pietro (1 Pt 5,1).
Il termine “prete” é derivato da questo termine greco, ma ha acquistato un senso sacerdotale e quindi non é più una traduzione precisa di presbyteros. Questo dev’essere tradotto con “presbitero» o con “anziano”. Oggi alcuni, per essere fedeli alla lettera al Nuovo Testamento, si rifiutano di parlare di ordinazione “sacerdotale” e parlano esclusivamente di ordinazione “presbiterale”. Essi pensano che la santità dei sacerdoti debba essere una santità pastorale e non una santità sacerdotale.
Questa fedeltà letterale non tiene conto di un fatto molto importante, ossia la cristologia sacerdotale, così com’é preparata in diversi scritti del Nuovo Testamento e cosi com’é esposta magistralmente nella Lettera agli Ebrei. Cristo non é stato soltanto “il buon pastore” (Gv 10,11-14), ma é diventato nello stesso tempo “sommo sacerdote” (Eb 4,14; 5,10; 8,1; 9,11). Egli è stato “il buon pastore” nel modo sacerdotale, perché non si é accontentato di pascere le sue pecore, ma le ha condotte a Dio. Di per sé, il titolo di “pastore” non esprime questo aspetto essenziale dell’opera di Cristo; invece lo esprime il titolo di “sommo sacerdote”, a condizione di comprenderlo alla luce del mistero pasquale, come ce lo presenta la Lettera agli Ebrei.

Sacerdozio e santificazione nella lettera agli Ebrei

Bisogna notare che, basandosi sul mistero pasquale di Cristo, la lettera agli Ebrei ha modificato radicalmente l’idea che si aveva della santità sacerdotale, facendoci passare da una santità ottenuta per mezzo di separazioni rituali a una santificazione ottenuta per mezzo di un dinamismo di comunione. Mi sembra che la contestazione a cui ho fatto cenno all’inizio abbia la sua origine nell’ignoranza di questo cambiamento radicale di prospettiva: essa rimane ferma alla prospettiva del sacerdozio nell’Antico Testamento.

Antico Testamento: santificazione per mezzo di separazioni rituali

Nell’Antico Testamento si manifesta una coscienza molto viva della santità di Dio. Si può dire che tutta l’organizzazione sacerdotale del culto antico era basata sull’idea di santità e sulla convinzione che, per poter avvicinarsi senza pericolo al fuoco divorante della santità divina, bisognava essere stati santificati. Ma la santità era concepita allora in modo differente da come la concepiamo noi attualmente. Per noi la santità é molto legata alla perfezione morale. In un processo di canonizzazione, la prima tappa consiste nel verificare se la persona è giunta all’”eroicità” nella pratica delle virtù cristiane. La mentalità antica vedeva le cose in modo diverso, non pensava a legare la santità con la perfezione morale. Per la mentalità antica, “santo” non si opponeva a “imperfetto”, ma a “profano”. Tra il fuoco divorante della santità divina e la fragilità dell’esistenza umana essa percepiva una differenza enorme di qualità e comprendeva che, per entrare in rapporto con il Dio tre volte santo, era necessaria una trasformazione.
Questa trasformazione era intesa come un passaggio dal livello profano dell’esistenza ordinaria a un livello santo o sacro, che corrisponde alle esigenze della relazione con Dio. Per effettuare tale passaggio, non si faceva affidamento innanzitutto sullo sforzo morale, perché questo lascia l’uomo nel proprio mondo. Invece si faceva affidamento su un’azione divina di separazione e di elevazione, per mezzo della quale sarebbe colmata, almeno in una certa misura, la distanza tra l’uomo e Dio, e sarebbe attenuata la differenza qualitativa. In questa ottica, il culto antico proponeva un sistema di santificazione per mezzo di una serie di separazioni rituali.
Poiché la maggior parte degli uomini non possiede la santità richiesta per presentarsi davanti a Dio, un popolo viene messo a parte, il popolo d’Israele, a cui Mosè dice: “Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio: il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo particolare tra tutti i popoli che sono sulla terra” (Dt 7,6). Per sottolineare questa separazione e per conservarla, Israele riceve tutta una serie di precetti, che creano una barriera attorno a lui: in particolare le leggi sugli alimenti puri e impuri. Imponendo queste osservanze, Dio dichiara: “Siate santi, perché io sono santo; non rendete impure le vostre persone” (Lv 11,44).
Malgrado questa prima santificazione, il popolo d’Israele nel suo insieme non è in grado di sopportare la vicinanza immediata di Dio. Se si avvicinasse, sarebbe distrutto dal fuoco divino (cf. Es 19,12; 33,3; Nm 18,22). Allora viene scelta una tribù, quella di Levi, per essere consacrata più direttamente al servizio del santuario. All’interno di questa tribù, una famiglia riceve una consacrazione particolare. I membri di questa famiglia sono separati dal popolo, per essere introdotti nella sfera del sacro ed essere incaricati del culto. Essi sono sacerdoti per Dio (of. Es 28,1; 29,1). La loro consacrazione è descritta in modo particolareggiato nella Legge di Mosé (cf. Es 29; Lv 8-9). La santità ottenuta per mezzo dei riti poi doveva essere conservata e preservata per mezzo dell’osservanza di precetti minuziosi, che separavano i sacerdoti dagli altri Israeliti: non toccare niente di impuro, non avvicinarsi a un cadavere, non prendere il lutto. Per il sommo sacerdote questi precetti erano particolarmente severi: gli era vietato di avvicinarsi a un cadavere, persino nel caso di suo padre o di sua madre (cf. Lv 21,11). I sacerdoti dovevano stare molto attenti a non ricadere nel mondo profano, il che li avrebbe resi inadatti a presentarsi davanti a Dio.
L’incontro del sacerdote con Dio richiedeva ancora altri riti di separazione. Il culto reso a Dio era compiuto in un luogo santo, ossia separato dallo spazio profano, un luogo a cui potevano accedere soltanto i sacerdoti; il popolo ne era completamente escluso. Il Libro dei Numeri precisa: “Il profano che vi si avvicinerà, sarà messo a morte” (Nm 1,51; 3,10.38; 18,7). La separazione non poteva essere più completa. I sacerdoti stessi non potevano entrare dappertutto nel luogo santo: la parte più santa, il Santo dei Santi, era loro interdetta. Soltanto il sommo sacerdote vi poteva entrare, ma solo un giorno all’anno, il giorno del’espiazione, “kippur” (cf. Lv 16). Negli altri giorni anche per lui l’interdizione era assoluta, sotto pena di morte (cf. Lv 16,2). D’altra parte, si poteva entrare nel Santo dei Santi solo grazie a immolazioni di animali, quindi grazie a un rito che costituiva la separazione più radicale.

La santità sacerdotale nel Nuovo Testamento

In tutto questo sistema di santificazione per mezzo di separazioni rituali si può ammirare l’espressione di un profondo rispetto per la santità di Dio, ma d’altra parte ci si può domandare se questo sistema assicurasse effettivamente una relazione autentica con Dio. L’autore della Lettera agli Ebrei si è posto questa domanda, e la sua riflessione sul mistero di Cristo lo ha portato a rispondere ad essa in modo negativo: sebbene questo sistema esprimesse un’aspirazione religiosa degna di rispetto, esso non era realmente valido, e la santità sacerdotale che esso cercava di comunicare al sommo sacerdote non era autentica. L’unica santità autentica è quella di Cristo, che, invece di essere basata su un sistema di separazioni rituali, e basata su un dinamismo di comunione.
A dire il vero, l’autore non usa l’espressione “santità sacerdotale”, ma parla di “perfezione sacerdotale”. I termini sono differenti, ma in realtà sono equivalenti, perché questa é l’espressione usata per parlare della consacrazione sacerdotale del sommo sacerdote nella traduzione greca dell’Antico Testamento. Per dire che Aronne e stato consacrato sommo sacerdote, la Bibbia greca dice che egli e stato “reso perfetto”, e il sacrificio della sua consacrazione è chiamato “l’atto di rendere perfetto”. Il verbo greco teleioun, che significa “rendere perfetto”, e il sostantivo corrispondente teleiosis nel Pentateuco hanno solo questo significato. Si tratta dunque di santità sacerdotale.
L’autore della Lettera agli Ebrei ha riflettuto su questo modo di esprimere la consacrazione sacerdotale e ha trovato che era un modo sensato. In effetti, per essere capace di esercitare le funzioni sacerdotali, un essere umano imperfetto deve essere stato reso perfetto. Altrimenti non é degno di avvicinarsi a Dio e non è capace di condurre a Dio i suoi fratelli e le sue sorelle.
Proseguendo la sua riflessione, l’autore ha capito che nell’Antico Testamento le cerimonie di consacrazione sacerdotale del sommo sacerdote non rendevano realmente perfetti. Esse non meritavano questo loro nome, perché non trasformavano profondamente colui al quale si riferivano. Si trattava soltanto di riti esteriori, che non raggiungevano la coscienza dell’essere umano peccatore e non gli comunicavano la santità divina.
I più importanti di questi riti erano i sacrifici, che consistevano in immolazioni di animali. L’autore osserva che questo genere di sacrifici non è capace di rendere perfetto nella sua coscienza colui che li offre (cf Eb 9,10), perché “é impossibile che il sangue di tori e di capri elimini i peccati” (Eb 10,4). L’Antico Testamento stesso attesa a più riprese che Dio non vuole questo tipo di culto. L’autore cita a questo proposito uno dei testi più radicali, quello del Salmo 40, che si rivolge a Dio dicendo: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta (. . .). Non hai gradito né olocausti né sacrificio per il peccato” (Eb 10,5-6). In definitiva, il sistema antico di santificazione per mezzo di separazioni rituali non funzionava, perché, come dice l’autore, “la Legge non ha portato nulla alla perfezione” (Eb 7,19), “la Legge costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza” (Eb 7,28). Questi erano imperfetti prima della loro consacrazione sacerdotale, e lo sono restati anche dopo; la Legge non li ha resi perfetti. Nell’Antico Testamento la santità sacerdotale e soltanto esteriore, convenzionale. Invece, nel mistero di Cristo essa é diventata interiore ed esistenziale: e una santità del cuore e della vita.
Cristo é stato realmente “reso perfetto”. La sua santità sacerdotale e autentica. Essa é consistita nel rendere perfette in lui, attraverso le sofferenze della sua passione, due disposizioni fondamentali: la sua docilità filiale verso Dio e la sua solidarietà fraterna verso di noi. Si tratta proprio di una perfezione sacerdotale, e non di una semplice perfezione morale, perché queste due disposizioni riguardano le due relazioni necessarie all’esercizio della mediazione sacerdotale.
L’autore della Lettera agli Ebrei é pienamente cosciente che il sacerdozio è essenzialmente una mediazione. Esso si differenzia perciò dall’Antico Testamento, che concentrava la sua attenzione sulla relazione del sacerdote con Dio. Allora si trattava di essere sacerdote per Dio. A Mose Dio dice: “Fa’ avvicinare (. . .) Aronne tuo fratello e i suoi figli con lui, perché siano sacerdoti per me” (Es 28,1; 29,1). Invece, nella Lettera agli Ebrei si dice che “ogni sommo sacerdote (. . .) viene costituito per gli uomini nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1). Qui vengono indicati i due aspetti della relazione.
Il Cristo sommo sacerdote è chiamato “mediatore”, “mediatore di un’alleanza nuova” (Eb 9,15), che è “migliore” (Eb 8,6) di quella del Sinai. La sua santità sacerdotale corrisponde a questa missione. Secondo la splendida profezia di Geremia, la “nuova alleanza” doveva essere stabilita nei cuori (cf Ger 31,33). In seguito Ezechiele aveva annunciato che Dio avrebbe donato un “cuore nuovo” (Ez 36,26). Pertanto le due disposizioni che definiscono la santità sacerdotale di Cristo sono due disposizioni del suo cuore.
A questo proposito, é interessante notare che, quando l’autore, all’inizio del capitolo 5, dà una definizione della natura di “ogni sommo sacerdote”, ciò che esige da lui corrisponde in sostanza alle due qualità del cuore di Gesù: la mitezza e l’umiltà. Afferma Gesù nel Vangelo di Matteo: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Secondo la Lettera agli Ebrei, “ogni sommo sacerdote” deve essere mite verso i suoi simili e umile davanti a Dio. Infatti, l’autore dichiara che “ogni sommo sacerdote”, nelle sue relazioni con i suoi simili, “é in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore” (Eb 5,2); e nel suo rapporto con Dio, “non attribuisce a se stesso questo onore” (Eb 5,4), ma lo riceve umilmente, se gli viene dato da Dio.
Nel suo sacerdozio Cristo realizza perfettamente questa definizione. L’autore lo dimostra subito, dichiarando che “Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote “ (Eb 5,5), ma “imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,8), in modo molto umile. Nello stesso tempo egli era pieno di mitezza, perché ha accettate di “rendersi in tutto simile ai fratelli” (Eb 2,17) e di essere “messo alla prova in ogni cosa come noi” (Eb 4,15) in modo da “diventare un sommo sacerdote misericordioso” (Eb 2,17) e di “espiare i peccati del popolo” (Eb 2,17).
Le due disposizioni che caratterizzane la santità sacerdotale di Cristo, e che quindi devono essere presenti nel cuore e nella vita dei suoi ministri, corrispondono alle due qualità del suo cuore, precisandole nel senso delle due dimensioni della mediazione sacerdotale; docilità verso Dio e solidarietà fraterna con noi.

Docilità verso Dio

Sulla docilità verso Dio, l’affermazione dell’autore è audace e sorprendente. Infatti egli non si accontenta di dire, come san Paolo nell’inno Cristologico della Lettera ai Filippesi, che Cristo “è stato obbediente fine alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,8), ma afferma che Cristo “imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,8). Certamente l’autore non vuole in nessun modo suggerire che Cristo prima é stato indocile a Dio e poi è stato costretto dalle sofferenza a diventare obbediente. Questa interpretazione è chiaramente da scartare, perché l’autore ha escluso esplicitamente ogni colpa da parte di Gesù (cfr. Eb 4,15) e ha affermato che sin dal suo ingresso nel mondo Cristo ha manifestato una disposizione di perfetta docilità verso Dio, dicendo: “Ecco, io sono venuto per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7.9).
Ma in un’esistenza umana é opportuno distinguere una disposizione preliminare di docilità e la virtù di obbedienza acquisita attraverso le prove. Queste sono due realtà ben distinte. Solo chi affronta e supera le prove più dure acquista in tutte le fibre del suo essere la virtù dell’obbedienza. Questa è una legge che s’impone alla nostra natura umana. Gesù ha accettato questa legge. La sua persona divina non aveva alcun bisogno di prove dolorose per rafforzare la sua unione con il Padre, ma la natura umana che egli aveva assunto ne aveva bisogno, perché non era una natura già gloriosa, ma, al contrario, una natura simile alla nostra, che portava le conseguenze della disobbedienza originale e che aveva bisogno di essere trasformata e, per cosi dire, rifusa al crogiuolo della sofferenza accettata per obbedienza e per amore. San Paolo ci dice che essa si trovava in una “condizione di schiavo” (Fil 2,7); che era “una carne simile a quella del peccato” (Rm 8,3). Essa aveva bisogno di imparare “l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,8). Il Figlio di Dio l’ha assunta proprio per trasformarla e renderla di nuovo perfettamente conforme al progetto di Dio.
Questo aspetto di acquisizione della virtù di obbedienza nei confronti di Dio attraverso le prove dell’esistenza umana mi sembra particolarmente suggestivo per la santità sacerdotale dei sacerdoti. Esso mette questa santità in una prospettiva dinamica, che è al tempo stesso un dono e un’esigenza. Un dono, perché è Cristo che comunica ai suoi sacerdoti il dinamismo del suo apprendimento dell’obbedienza. Una esigenza, perché questo dinamismo richiede di essere accolto concretamente nelle realtà dell’esistenza sacerdotale.

Solidarietà con i fratelli e sorelle

La seconda disposizione essenziale della santità sacerdotale di Cristo non è meno sorprendente della prima, se ci si riferisce alle concezioni dell’Antico Testamento. Io l’ho chiamata “solidarietà fraterna con noi”; la Lettera agli Ebrei parla più precisamente di “misericordia” (Eb 4,16; cf. 2,17), perché si tratta di solidarietà con esseri umani miserabili. Questa stretta unione della misericordia con il sacerdozio è in forte contrasto con tradizioni importanti dell’Antico Testamento. Questo, come abbiamo già detto, considerava innanzitutto la relazione privilegiata dei sacerdoti con Dio e, per meglio assicurarla, esigeva da parte dei sacerdoti una severità spietata nei confronti dei nemici di Dio che sono i peccatori.
Questo è l’insegnamento dato dal Libro dell’Esodo nel momento dell’istituzione del sacerdozio levitico, alla fine dell’episodio del vitello d’oro. Il popolo si è lasciato andare all’idolatria. Dopo essere disceso dal Sinai, Mosé chiama a sé quelli che stanno con il Signore. Si presentano i leviti, e Mosè, a nome di Dio, ordina loro: “Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio vicino” (Es 32,27). I leviti eseguono questo ordine, e Mosè allora dichiara: “Ricevete oggi l’investitura dal Signore; ciascuno di voi è stato contro suo figlio e contro suo fratello, perché oggi egli vi accordasse benedizione” (Es 32,29). Nel Deuteronomio la benedizione pronunciata da Mosé su Levi riecheggia questo episodio, dicendo di Levi “che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli” (Dt 33,9). Il Libro dei Numeri riferisce un episodio analogo a proposito di Fineés, un levita che, massacrando un israelita e la sua complice idolatra, ottiene da Dio “un’alleanza di perenne sacerdozio” (Nm 25,13).
L’Antico Testamento non parla mai di misericordia a proposito del sacerdozio. Tuttavia bisogna notare che in realtà l’offerta di sacrifici per i peccati corrispondeva implicitamente a un atto di misericordia: certamente la prima finalità di quei sacrifici era la riparazione delle offese fatte a Dio, ma essi ottenevano nello stesso tempo l’indulgenza di Dio per coloro che se ne erano resi colpevoli (cf. Nm 17,6-15; Sap 18,20-25). Il potere di benedire il popolo (Nm 6,22-27) andava nello stesso senso. Ma questo aspetto rimaneva semplicemente legato al culto e non attirava molto l’attenzione.
Invece, nel ministero di Gesù la misericordia si è manifestata in modo straordinario. Lungi dal mostrare una severità spietata contro i peccatori, come i leviti dell’esodo o come Finees, Gesù li accoglieva, li perdonava, accettava di mangiare con loro (cf. Mt 9,10-11), tanto da essere chiamato ironicamente “amico di pubblicani e di peccatori” (Mt 11,19). La sua misericordia era senza limiti; era esercitata verso i malati, gli indemoniati, le persone sofferenti, i poveri, i piccoli, le folle abbandonate, i peccatori. Nel momento stesso in cui lo crocifiggevano, Gesù pregava perché i suoi crocifissori fossero perdonati (cf. Lc 22,34).
Ciò detto, bisogna osservare che non a Gesù durante la sua vita terrena la Lettera agli Ebrei applica il titolo di “sommo sacerdote misericordioso”, ma a Cristo nella sua gloria, e c’insegna che è attraverso la sua passione che Cristo ha acquistato una misericordia inesauribile. Il primo testo che esprime questa convinzione è quello di Eb 2,18: “Proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli é in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova”. Questa affermazione viene ripresa alla fine del capitolo 4: “Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia aver compassione delle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Eb 4,15). La conseguenza è che noi possiamo “accostarci con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, cosi da essere aiutati al momento opportuno” (Eb 4,16).
La misericordia sacerdotale di Cristo non è dunque un sentimento superficiale, di chi si commuove facilmente per la sofferenza degli altri; invece è una capacità acquistata per mezzo di sofferenze personali. Per poter compatire pienamente, occorre aver patito personalmente. Cristo ha sofferto la sua passione. L’autore lo mostra in preda a un’angoscia estrema, che lo fa “pregare e supplicare, con forti grida e lacrime, Colui che poteva salvarlo da morte” (Eb 5,7).
La misericordia di Dio si era gia manifestata in molti modi nell’Antico Testamento, ma le mancava una dimensione: quella di essere espressa per mezzo di un cuore umano che l’ha acquistata attraverso le esperienze dolorose dell’esistenza umana. Cristo ha dato alla misericordia di Dio questa nuova dimensione cosi confortante.
Si tratta di una misericordia sacerdotale, perché è mediatrice tra gli uomini e Dio. Essa va fine al livello più profondo della miseria umana, quella dei condannati a morte, e si eleva fino al trono celeste di Dio, che essa rende “il trono della grazia” (Eb 4,16). Se questa misericordia è sacerdotale, è anche perché è il frutto di un’offerta sacerdotale di un genere completamente nucvo, che ha superato il dilemma posto tra misericordia e sacrificio, perché questa offerta sacrificale è stata un atto di suprema misericordia.
E’ questa misericordia che il ministero pastorale deve comunicare. Esso lo fa per mezzo del battesimo, che purifica da ogni peccato e fa entrare nella famiglia di Dio, e lo completa più tardi con il sacramento della riconciliazione, che potrebbe essere chiamato “sacramento dell’amore misericordioso”. D’altra parte, tutto il ministero dev’essere pieno di misericordia sacerdotale.
Per questo occorre che il sacerdote ne sia lui stesso pieno personalmente, in primo luogo ricevendo per se stesso, nel sacramento, l’amore misericordioso del Signore; poi ricevendolo per mezzo della preghiera e della contemplazione, per comunicarlo agli altri; infine, praticandolo generosamente, in unione al cuore di Cristo. Questa unione é indispensabile, perché la fonte della misericordia pastorale e sacerdotale è il cuore di Cristo. La misericordia è scaturita dal suo cuore al termine della passione, perfetta offerta sacerdotale di obbedienza filiale a Dio e di solidarietà fraterna con noi. L’unione al cuore di Cristo spinge il sacerdote a vivere la misericordia fraterna in un atteggiamento di offerta delle sofferenze a Dio, per accogliervi il suo amore, come ha fatto Cristo (cf. Eb 5,7-9). Cosi la misericordia diventa pienamente sacerdotale.
Abbiamo constatato dunque che la santità dei sacerdoti diocesani, santità sacerdotale e pastorale, ha due orientamenti principali, che corrispondono alle due dimensioni della loro missione di mediazione: la docilità filiale verso Dio e la misericordia fraterna. Notiamo di passaggio che la docilità verso Dio comprende in primo luogo “l’obbedienza della fede” (Rm 1,5; 16,26).

ASPETTI FONDAMENTALI DEL SACERDOZIO NEL NUOVO TESTAMENTO

Seconda parte

Albert Vanoye

In questo Anno sacerdotale, a voi, propongo una riflessione su aspetti fondamentali del sacerdozio secondo il Nuovo Testamento.
Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che il ministero ordinato della Chiesa è una partecipazione specifica del sacerdozio di Cristo, mediatore della Nuova Alleanza. Nella “Costituzione dogmatica su la Chiesa", Lumen Gentium, il Concilio chiama i presbiteri “veri sacerdoti del Nuovo Testamento" e dichiara che “in virtù del sacramento dell’Ordine, ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote, sono consacrati per predicare il Vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino" (LG 28). Dal canto suo, il Decreto conciliare "Presbyterorum ordinis" sul ministero e la vita dei Presbiteri, insegna che "il sacerdozio dei Presbiteri" "viene conferito da quel particolare Sacramento per il quale i Presbiteri, in virtù dell’unzione dello Spirito Santo, sono marcati da uno speciale carattere che li configura a Cristo Sacerdote..." (PO 2). Se dunque vogliamo definire gli aspetti fondamentali del ministero ordinato secondo il Nuovo Testamento, dobbiamo innanzitutto ricercare cosa dice il Nuovo Testamento del sacerdozio di Cristo e poi vedere quale partecipazione ne sia data agli apostoli e altri pastori della Chiesa.

1.Aspetti fondamentali del sacerdozio di Cristo

Come tutti sanno, la dottrina del sacerdozio di Cristo viene esposta magistralmente nella Lettera agli Ebrei, che ci offre un vero trattato di cristologia sacerdotale. Ci rivolgiamo quindi a questa Lettera per conoscere gli aspetti fondamentali del sacerdozio di Cristo, che saranno anche quelli del sacerdozio ministeriale, fatto "ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote" (LG 28).
Leggendo la Lettera, siamo subito informati, perché, non appena l’autore introduce il tema del sacerdozio di Cristo, annette al titolo “archiereus”, "sommo sacerdote", due qualifiche molto significative, "misericordioso e degno di fede". Alla fine della prima parte della sua omelia, cioè alla fine del cap. 2, l’autore afferma che:
Gesù"doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio" (Eb 2,17).
Questa frase riveste un’importanza speciale, giacché è programmatica. Conclude la prima parte della Lettera ed esprime il tema della seconda parte.
Concludendo la prima parte, l’autore osserva che il mistero di Cristo è un mistero sacerdotale, perché è un mistero di mediazione tra gli uomini e Dio. Con la sua passione e la sua risurrezione Cristo è stato costituito mediatore perfetto; egli possiede ormai in pienezza le due qualità fondamentali per l’esercizio della mediazione sacerdotale, cioè la misericordia e l’autorevolezza. Cristo, Figlio di Dio glorificato presso il Padre (Eb 1,5-14), è pienamente autorevole per i rapporti con Dio. Cristo, fratello degli uomini, solidale con loro fino all’estremo (Eb 2,5- 16), ha acquisito la più grande capacità di comprensione e di compassione per i rapporti con noi. Così Cristo è diventato “sommo sacerdote misericordioso e degno di fede".
Occorre notare che questi due aggettivi non si riferiscono a due virtù individuali, come sarebbero, ad esempio, il coraggio, la pazienza, la prudenza, ma riguardano ambedue le relazioni tra le persone. Perciò designano veramente due qualità sacerdotali, cioè due qualità necessarie per esercitare la mediazione sacerdotale tra gli uomini e Dio. "Degno di fede" riguarda la capacità di mettere il popolo in relazione con Dio. "Misericordioso" esprime la capacità di comprensione e di aiuto fraterno per gli uomini, che sono miserabili.
In un sacerdote, queste due qualità debbono necessariamente essere presenti insieme. Un uomo compassionevole con i fratelli, ma non accreditato presso Dio, non sarebbe in grado di stabilire la mediazione sacerdotale. La sua compassione sarebbe confinata al livello terreno. La situazione non sarebbe migliore nel caso inverso di una persona accreditata presso Dio, a cui però mancasse il legame di solidarietà con noi, uomini. La sua posizione autorevole non sarebbe di nessun profitto per noi. Ciò che è fondamentale per la mediazione sacerdotale è l’unione delle due capacità di relazione. La Lettera agli Ebrei ci mostra che questa unione esiste in Cristo ed è strettissima, perché Cristo ha ottenuto la piena gloria filiale per la sua natura umana grazie alla più perfetta solidarietà con i suoi fratelli.

2.Cristo sommo sacerdote degno di fede: autorevolezza sacerdotale

All’inizio del capitolo 3, l’autore della Lettera ci invita a considerare la qualifica "degno di fede, autorevole" che si applica al sacerdozio di Cristo. Dice:
"Perciò, fratelli santi, voi che siete partecipi di una vocazione celeste, considerate attentamente l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo, Gesù, il quale è degno di fede per Colui che l’ha costituito tale, come Mosè in tutta la sua casa" (Eb 3,1-2).
Questo testo presenta un problema importante per il nostro tema, giacché riguarda proprio la qualifica data al sacerdozio di Cristo. In greco, l’aggettivo è  “pistos”.
Molti traduttori lo traducono qui "fedele", senso possibile di questo termine. Così faceva la traduzione della CEI nella sua prima edizione: Gesù, sommo sacerdote, “fedele” come Mosè. In tal caso, abbiamo un altro aspetto, la fedeltà invece dell’autorevolezza. La fedeltà però non è una qualità specifica del sacerdote. È necessaria a tutti i credenti. La capacità di mettere il popolo in relazione con Dio non viene più direttamente espressa.
Il contesto però manifesta chiaramente che l’autore non intende parlare di Gesù "fedele", ma di Gesù "degno di fede". Così traduce la CEI nella nuova edizione. Correzione ottima. Essere degno di fede per i rapporti con Dio è una qualità specifica del sacerdote. Il primo aspetto fondamentale del sacerdozio di Cristo e quindi del sacerdozio ministeriale è l’autorevolezza per i rapporti con Dio. Il contesto, infatti, mette questa prima qualità sacerdotale di Cristo in parallelo con una qualità posseduta da Mosè secondo un passo del Libro dei Numeri (Nm 12,7) che afferma l’autorevolezza di Mosè e non la sua fedeltà. L’episodio incomincia con una contestazione di questa autorevolezza:
“Maria e Aronne parlarono contro Mosè [...] Dissero: "Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro? "» (Nm 12,1-2).
Maria e Aronne contestavano l’autorevolezza di Mosè, il suo ruolo di mediatore privilegiato della parola di Dio.
“Il Signore udì [...] e disse: "Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è degno di fede in tutta la mia casa” (Nm 12,2.6-7 LXX).
Per aver contestato l’autorevolezza del fratello, Maria viene castigata, diventa lebbrosa e ha bisogno dell’intercessione autorevole di Mosè per essere guarita (Nm 12,9- 13).
Riguardo all’autorevolezza per i rapporti con Dio, la Lettera agli Ebrei afferma una somiglianza tra Gesù e Mosè: Gesù, il sommo sacerdote della nostra professione di fede “è degno di fede come Mosè" nella casa di Dio. Per quanto concerne Gesù, questa affermazione si fonda nell’oracolo del profeta Natan al re Davide, quale viene riferito nel 1° Libro delle Cronache, dove l’interpretazione è più chiaramente messianica. Parlando del figlio che dovrà succedere a David e regnare per sempre, Dio dichiara:
"Io lo renderò degno di fede nella mia casa" (1 Cr 17,14 LXX).
La Lettera agli Ebrei proclama l’adempimento di questo oracolo nella glorificazione di Gesù, figlio di Davide, Figlio di Dio, Messia. In questo modo, l’autore esprime il primo aspetto fondamentale del sacerdozio di Cristo, la sua autorevolezza per i rapporti con Dio grazie soprattutto alla mediazione della Parola di Dio.
Questo aspetto era già presente nel sacerdozio dell’Antico Testamento. Una frase del profeta Malachia l’esprime nitidamente. Dopo aver ricordato l’alleanza del Signore con Levi è detto di questi:
"Un insegnamento degno di fede era sulla sua bocca né c’era falsità sulle sue labbra" (Ml 2,6),
il profeta parla più generalmente dei sacerdoti e dichiara:
“Infatti le labbra del sacerdote custodiscono la conoscenza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli eserciti" (Ml 2,7).
A questo testo l’autore si ispira quando applica a Gesù il titolo “apostolo" equivalente a “messaggero".
Il sacerdote ebreo, infatti, aveva anzitutto una funzione oracolare. La gente lo consultava in caso di perplessità o di difficoltà esistenziale. Il sacerdote procedeva allora a un sorteggio, effettuato con alcuni oggetti sacri, gli Urim e i Tummim, e determinava così la risposta divina che indicava la mossa da prendere. Nelle benedizioni di Mosè, la prima cosa che viene detta a proposito di Levi riguarda questa prassi:
“Da’ a Levi i tuoi tummim e i tuoi urim all’uomo a te fedele" (Dt 33,8).
I versi successivi della stessa benedizione manifestano una evoluzione posteriore della funzione dei sacerdoti, nel senso di un insegnamento religioso.
"Essi osservarono la tua parola e custodiscono la tua alleanza; insegnano i tuoi decreti a Giacobbe e la tua legge a Israele" (Dt 33,9-10).
I sacerdoti trasmettevano "l’istruzione" (in ebraico, la torah) che veniva da Dio e consentiva di mettere l’esistenza in armonia con la volontà benevola di Dio, il che assicurava successo e prosperità. Questa funzione sacerdotale non mancava d’importanza. Più volte, i profeti rimproverano ai sacerdoti la loro trascuratezza in proposito (Ger 2,8; 5,31; Ez 22,26; Ml 2,8). Per una giusta comprensione del sacerdozio di Cristo e del sacerdozio ministeriale, è importante essere attenti a questo aspetto fondamentale.
L’autore della Lettera agli Ebrei gli ha prestato molta attenzione; gli ha attribuito il primo posto nella sua esposizione di cristologia sacerdotale. Ci invita subito a "considerare attentamente" Gesù come "l’apostolo e sommo sacerdote della nostra professione di fede, il quale è degno di fede" (Eb 3,1), mettendo così il sacerdozio di Cristo in rapporto con la fede e la professione di fede. La prima funzione essenziale del sacerdote è la sua funzione per la relazione di fede con Dio, perché la fede è la base di tutta la vita cristiana. Per svolgere questa funzione, bisogna essere "degno di fede".
L’insistenza dell’autore sull’autorevolezza sacerdotale della parola di Cristo corrisponde all’insistenza dei vangeli sull’autorevolezza dell’insegnamento religioso di Gesù. Il vangelo di Marco riferisce che sin dall’inizio della sua vita pubblica, Gesù “si mise a insegnare" e che “erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro con autorità e non come gli scribi" (Mc 1,21-22). Matteo conclude con parole simili il suo racconto del discorso sulla montagna: "Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento; egli, infatti, insegnava loro come uno che ha autorità" (Mt 7,28-29). Effettivamente, il discorso sulla montagna manifesta un’autorità sovrana, specialmente nelle antitesi (“Avete inteso che fu detto...io invece vi dico. . .": Mt 5,27.33.38.43) in cui Gesù non esita a mettere la propria autorità al di sopra di quella della Legge di Mosè. Nel IV vangelo, è Gesù stesso ad affermare l’autorevolezza delle sue parole, dicendo: "Le parole che vi ho detto sono spirito e vita" (Gv 6,63).
A proposito della Lettera agli Ebrei, bisogna osservare che essa non si riferisce all’autorevolezza di Gesù durante la sua vita terrena, ma a una autorevolezza ancora superiore, quella di Cristo glorificato in virtù della sua passione. La passione e la glorificazione hanno conferito alla parola di Cristo una autorità manifestamente divina.
In che modo la parola sacerdotale di Cristo glorificato raggiunge attualmente i cristiani? La voce di Cristo si fa sentire soprattutto attraverso la predicazione dei suoi inviati, "ministri della Nuova Alleanza" (2 Cor 3,6), "dirigenti" delle Chiese. Nell’ultima parte della sua Lettera, l’autore attribuisce esplicitamente ai “dirigenti" (higumeni) della comunità l’autorità della Parola, dicendo:
"Ricordatevi dei vostri dirigenti, che vi hanno annunziato la Parola di Dio" (Eb 13,7).
È chiaro che la loro autorevolezza proveniva da una partecipazione dell’autorità sacerdotale di Cristo glorificato. "Annunciare la Parola di Dio" in modo autorevole non è possibile che grazie a una relazione con Cristo "sommo sacerdote degno di fede", il quale rende presente la sua mediazione sacerdotale attraverso il ministero dei dirigenti della sua Chiesa. L’apostolo Paolo si è mostrato estremamente consapevole di questo fatto, quando ha parlato della
“grazia che [gli] è stata data da Dio di essere un ministro di Cristo Gesù tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio" (Rm 15,16)
o quando ha proclamato ai Corinzi:
"Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo, Dio esorta per mezzo nostro" (2 Cor 5,20).
Paolo aveva coscienza di essere veramente degno di fede e di comunicare con le sue parole la parola di Cristo, parola di Dio. Ai Tessalonicesi egli scrive:
“... noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete" (1 Ts 2,13).
Perché noi, ministri di Cristo sommo sacerdote degno di fede, siamo pienamente anche essi degni di fede, affidabili e autorevoli, la condizione principale è che siamo pieni di fede. Lo lascia intendere l’autore della Lettera agli Ebrei, perché, dopo aver invitato i fedeli a ricordarsi dei loro dirigenti che hanno annunciato loro la Parola di Dio, egli aggiunge:
“Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene fede" (Eb 13,7).
Anche da questo punto di vista, Paolo è un modello. Viveva nella fede e dalla fede. In mezzo alle innumerevoli difficoltà del suo ministero, "portando sempre e dovunque nel [suo] corpo la morte di Gesù" (2 Cor 4,10), egli proclamava:
“Animati tuttavia da quello spirito di fede di cui sta scritto: "Ho creduto, perciò ho parlato" (Sal 115,1 LXX), anche noi crediamo e perciò parliamo» (2 Cor 4,13).
Perché noi, ministri di Cristo siamo affidabili, un’altra condizione è che trasmettiamo veramente la parola di Cristo e non le nostre teorie personali. Ai fedeli dobbiamo poter dire come Paolo:
"Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù" (2 Cor 4,5).
Il servizio della Parola di Cristo sommo sacerdote degno di fede richiede una perfetta sincerità e una dedizione generosa. Soltanto cosi il presbitero è anche lui "degno di fede".

3.Sommo sacerdote “sopra la casa di Dio”: autorità sacerdotale

Per definire con maggior precisione l’autorevolezza di Gesù, "sommo sacerdote degno di fede", l’autore considera la sua relazione con la casa di Dio ed è cosi condotto ad aggiungere all’aspetto di rivelazione autorevole quello di autorità per guidare il popolo di Dio. Cristo, che ha diritto alla fede nella sua parola, ha anche diritto all’obbedienza ai suoi comandi. Similmente i pastori della Chiesa partecipano dell’autorità sacerdotale di Cristo per guidare verso Dio le loro comunità.
La considerazione del rapporto con la casa di Dio era suggerita all’autore dalla frase del Libro dei Numeri in cui Dio dichiara che il suo servitore Mosè è "degno di fede in tutta la sua casa" (Nm 12,7). Inoltre, l’oracolo del profeta Natan, sul quale l’autore si appoggia, insiste molto sul tema della casa.
L’oracolo di Natan gli consente di dimostrare tra Cristo e Mosè un duplice rapporto di superiorità, e quindi di maggiore autorità, perché del Figlio promesso a Davide vi viene detto che sarà il costruttore della casa di Dio e che sarà Figlio di Dio (2 Sam 7,13-14; 1 Cr 17,12-13). Niente di simile è detto di Mosè nel Libro dei Numeri o altrove. Mosè non costruisce per Dio una casa stabile, ma pianta soltanto una tenda che viene traslocata da un posto all’altro continuamente. Poi non è mai chiamato "Figlio", ma solo "servitore" (Num 12,7). Ne risulta che  l’autorità di Cristo sulla casa di Dio è più grande di quella di Mosè. Lo afferma l’autore dicendo:
"In confronto a Mosè, egli è stato giudicato degno di una gloria tanto maggiore quanto l’onore del costruttore supera quello della casa stessa" (Eb 3,3).
Cristo è il costruttore e occupa quindi una posizione superiore a quella di Mosè, che faceva parte della casa. A questo primo argomento viene aggiunto il secondo, quello della relazione diversa con Dio:
"Mentre Mosè è degno di fede in tutta la sua casa come servitore, [. . .] Cristo lo è come Figlio sopra la sua casa" (Eb 3,5-6).
La contrapposizione delle due preposizioni è significativa: “degno di fede in tutta la casa" per Mosè; "degno di fede sopra la casa" per Cristo, vale a dire "avente autorità sulla casa". La prima preposizione, l’autore la trova nella frase del Libro dei Numeri (Nm 12,7); la seconda, egli la deduce dal titolo di Figlio di Dio dato al Messia nell’oracolo di Natan. Il Figlio di Dio partecipa dell’autorità divina, tanto più che la casa è nel contempo sua e di Dio, sua, perché egli l’ha edificata in tre giorni, di Dio, perché Dio vi dimora e vi incontra i credenti. Anzi, i credenti stessi fanno parte di questa casa, sono essi stessi abitazione di Dio. Lo dice alla fine l’autore:
"E la sua casa siamo noi" (Eb 3,6).
Questa affermazione audace corrisponde all’insegnamento dell’apostolo Paolo, che domandava ai Corinzi:
"Non sapete che siete santuario di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?" (1 Cor 3,16; cf. 6,19)
e poi affermava:
"Noi siamo santuario del Dio vivente" (2 Cor 6,16; cf. Ef 2,20-21).
Di conseguenza, dire che Cristo, sommo sacerdote è autorevole "come Figlio sopra la sua casa" significa che l’autorevolezza sacerdotale di Cristo per i rapporti con Dio comprende anche l’aspetto di autorità sul popolo di Dio.
Ciò che vale per il sacerdozio di Cristo vale anche, in una certa misura, per il sacerdozio dei ministri di Cristo. Lo fa intendere l’autore alla fine della Lettera, cioè nel cap. 13. Infatti, dopo aver ricordato che i “dirigenti" della Chiesa partecipano dell’autorevolezza di Cristo sommo sacerdote per trasmettere la Parola di Dio (Eb 13,7), egli mostra che partecipano anche dell’autorità di Cristo sommo sacerdote per guidare il Popolo di Dio. Esorta, infatti, i fedeli all’obbedienza, in questi termini:
"Obbedite ai vostri dirigenti e state loro sottomessi, perché essi vegliano per le vostre anime, in quanto ne dovranno rendere conto" (Eb 13,17).
I pastori della Chiesa hanno una responsabilità sacerdotale e quindi l’autorità corrispondente. L’apostolo Paolo parlava del "potere (exousia) che il Signore [gli] aveva dato per edificare e non per distruggere" (2 Cor 10,8; 13,10) e richiedeva quindi "l’obbedienza" (2 Cor 10,6; Fm 21) per se stesso e anche per gli altri dirigenti delle comunità (cf. 1 Cor 16,16; 1 Ts 5,12-13).
Colui che possiede la pienezza dell’autorità sulla casa di Dio è Cristo. È lui "il Pastore grande delle pecore" (Eb 13,20). A lui gli stessi dirigenti dovranno "rendere conto" (Eb 13,17). Nondimeno hanno diritto anch’essi all’obbedienza,  perché Cristo si serve di essi per rendere presente e operante la sua autorità di "sacerdote grande sopra la casa di Dio" (Eb 10,21).

4.La misericordia sacerdotale

L’altro aspetto fondamentale del sacerdozio di Cristo è la misericordia sacerdotale. L’autore l’ha introdotto brevemente quando ha concluso la prima parte della Lettera, in Eb 2,17. Ne tratta nella sezione che comincia in Eb 4,15 e va fino a Eb 5,10. Mette la misericordia sacerdotale in relazione con la Passione di Cristo, percepita come manifestazione di estrema solidarietà con la sofferenza umana e la debolezza umana. Nel contempo, la Passione viene presentata come un’offerta sacrificale, un culto non rituale ma esistenziale, pieno di realtà tragica.
Per essere veramente sacerdotale, la misericordia deve avere questa duplice valenza di solidarietà umana e di offerta a Dio.
In Ebrei 4,14 l’autore conclude così la sua contemplazione di Cristo glorificato, sommo sacerdote degno di fede:
"Poiché abbiamo un grande sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede".
Nel versetto successivo passa a trattare della seconda qualità sacerdotale di Cristo:
"Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre debolezze, ma uno che è stato provato in tutto come noi, escluso il peccato" (Eb 4,15).
Questa affermazione è seguita da una breve esortazione consolante:
"Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati nel momento opportuno" (Eb 4,16).
L’autore ci fa vedere come le due qualità sacerdotali in Cristo si completano a vicenda anche dal nostro punto di vista. Cristo degno di fede richiede la nostra adesione di fede; Cristo misericordioso suscita la nostra piena fiducia. Se egli fosse soltanto il sommo sacerdote glorificato nei cieli, noi forse potremmo esitare ad accostarci a lui, trovandolo troppo alto, troppo distante dalla nostra debolezza. Dubiteremmo forse della sua capacità di comprenderci, di compatirci. Però, c’è l’altro aspetto che toglie ogni forza alla possibile obiezione: Gesù è si autorevole, degno di fede per i rapporti con Dio, ma è anche il sacerdote misericordioso, pieno di compassione per noi peccatori e desideroso di aiutarci. I pastori della Chiesa debbono similmente unire autorità e misericordia, sono strumenti, allo stesso tempo, dell’autorità sacerdotale di Cristo glorificato e della sua misericordia straordinaria.
L’autore della lettera presenta questa misericordia come un sentimento profondamente permeato di umanità, la compassione verso i propri simili acquisita con la partecipazione alla loro sorte.
Non si tratta di un sentimento superficiale, di chi si commuove facilmente, ma di una capacità acquisita attraverso l’esperienza della sofferenza personale.
L’autore ci fa capire che per compatire veramente è necessario aver patito personalmente. Bisogna essere passati attraverso le stesse prove, le stesse sofferenze di coloro che si vogliono aiutare (cf. 2, 18) La misericordia di Dio si era manifestata già nell’Antico Testamento in tanti modi, anche commoventi, però le mancava una dimensione: quella di essere espressa da un cuore umano e acquisita attraverso le esperienze dolorose della vita umana. Cristo ha dato alla misericordia di Dio questa nuova dimensione tanto commovente e tanto confortante. Così ha manifestato una misericordia che è al tempo stesso divina e umana.
Sotto questo aspetto possiamo notare un forte contrasto con certe tradizioni antiche sul sacerdozio. Parecchi testi dell’Antico Testamento richiedono dal sacerdote non la misericordia, ma la severità nei confronti dei peccatori, perché l’Antico Testamento non aveva ancora pienamente il concetto del sacerdozio come mediazione, ma lo considerava legato quasi esclusivamente all’idea di culto. Era preoccupato della relazione del sacerdote con Dio e, per mettere il sacerdote dalla parte di Dio, esigeva che egli si opponesse decisamente ai peccatori.
Questo è l’insegnamento che viene dato dal libro dell’Esodo proprio nel momento dell’istituzione del sacerdozio levitico. Il popolo si è lasciato andare all’idolatria del vitello d’oro. Mosè allora chiama a sé chi è dalla parte di Dio. Vengono i leviti, ai quali ordina:
"Dice Jahvè il Dio d’Israele: ‘Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una parte all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente"’ (Es 32,27).
I leviti eseguono quest’ordine spietato uccidendo circa tremila persone e Mosè allora dichiara loro che così hanno ottenuto il loro sacerdozio (Es 32,29). Nel sacerdozio di Cristo, invece, la misericordia assume dimensioni inaudite. Lungi dal mostrare una severità spietata contro i peccatori, come i Leviti dell’Esodo, Gesù li accoglieva, accettava di mangiare con loro (Mt 9,10-1 1) tanto da essere chiamato ironicamente "amico di pubblicani e peccatori" (Mt 11,19) e rispondeva con energia alle critiche di chi gli rinfacciava questo suo comportamento: “Andate dunque — diceva — e imparate che cosa significhi: ‘Misericordia io voglio e non sacrificio rituale". Tutto il suo ministero è stato una rivelazione della sua misericordia verso i malati, gli indemoniati, i poveri, i piccoli, le folle abbandonate e anzitutto i peccatori. Nel momento stesso della sua crocifissione, egli ha invocato il perdono del Padre per i suoi carnefici (Lc 22,34).
La morte di Gesù non è stata un sacrificio rituale, ma un atto di estrema misericordia. La Lettera agli Ebrei ci insegna che per mezzo di essa Gesù ha acquisito una piena capacità di misericordia sacerdotale; è diventato "sommo sacerdote misericordioso" (Eb 2,17), in grado di “cancellare i peccati del popolo" (ibid.).
In Eb 2,17 l’autore lega la misericordia sacerdotale di Cristo all’accettazione, da parte sua, di una completa somiglianza con i suoi fratelli miserabili:
"Doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare sommo sacerdote misericordioso" (Eb 2,17).
Che cosa ne risulta per chi partecipa all’aspetto pastorale del sacerdozio di Cristo? In primo luogo, occorre riconoscere che i ministri ordinati della Chiesa sono anch’essi uomini peccatori; la loro situazione di partenza non differisce da quella degli altri. Hanno loro stessi un bisogno essenziale della misericordia sacerdotale di Cristo. Possono e debbono dire con l’autore della Lettera agli Ebrei
"Accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia …" (Eb 4,16).
 D’ora in poi il loro ideale deve essere quello di somigliare il più possibile a Cristo, pieno di misericordia per i peccatori; hanno il compito di trasmettere questa misericordia per mezzo del sacramento della riconciliazione, che potrebbe essere chiamato sacramento della misericordia e la debbono esercitare in tutti gli altri modi possibili. Debbono avere il cuore completamente disponibile per la carità pastorale di Cristo.

5.Misericordia sacerdotale e offerta sacrificale

Nella Lettera agli Ebrei, dopo i due versetti finali del cap. 4 (Eb 4,15-16), che presentano la misericordia sacerdotale di Cristo, troviamo una riflessione sul sacerdozio (Eb 5,1-4) seguita dalla sua applicazione al caso di Cristo (Eb 5,5-10). La riflessione sul sacerdozio può sembrare generica, perché incomincia con una definizione di "ogni sommo sacerdote". Esaminato però da vicino, il passo si rivela orientato in un senso particolare, quello della misericordia sacerdotale. L’autore sottolinea che il sommo sacerdote è "in grado di avere comprensione per quelli che non sanno e si smarriscono, essendo anch’egli rivestito di debolezza" (Eb 5,2).
Il contributo specifico di questo passo consiste nel rapporto stabilito tra la misericordia sacerdotale e l’offerta sacrificale presentata a Dio. La definizione viene subito precisata in questo senso per mezzo di una proposizione finale:
"Ogni sommo sacerdote … viene costituito per i rapporti con Dio, affinché offra doni e sacrifici per i peccati" (Eb 5,1).
Similmente, la frase sulla capacità sacerdotale di comprensione per le debolezze umane viene completata con l’osservazione che il sommo sacerdote “deve quindi offrire per i peccati" (Eb 5,3). Nell’applicazione al caso di Cristo ritroviamo lo stesso tema:
"Egli, nei giorni della sua carne,offrì domande e suppliche a Colui che lo poteva salvare da morte" (Eb 5,7).
Questa insistenza sulle offerte sacrificali è nuova nella Lettera; non manca d’importanza. Fa capire che, per essere veramente sacerdotale, la misericordia va attuata con un’offerta sacrificale presentata a Dio. La relazione con Dio è essenziale. Altrimenti la misericordia sarebbe soltanto filantropia, confinata al livello terrestre, e non sarebbe quindi sacerdotale. La misericordia del sacerdote consiste anzitutto nell’essere solidale con gli uomini davanti a Dio. Infatti, la peggiore miseria degli uomini è il peccato, che li separa da Dio, li priva della loro dignità e provoca disordini e mali di ogni genere. Perciò la misericordia più necessaria è quella che porta rimedio al peccato e ristabilisce la relazione positiva con Dio, fonte dell’amore e quindi anche della pace e della gioia. Questa è proprio la misericordia sacerdotale. Cristo è diventato "sommo sacerdote misericordioso" "per cancellare i peccati del popolo" (Eb 2,17). A questo scopo "è morto per i nostri peccati secondo le Scritture” (1 Cor 15,3).
Ciò che è più significativo per il nostro tema è il modo in cui l’autore concepisce l’offerta sacrificale di Cristo.
L’offerta di Cristo si rivela molto differente dalle offerte rituali del sacerdozio antico, perché è personale ed esistenziale. Dei sacerdoti antichi viene detto che offrono “doni e sacrifici", cioè una pluralità di offerte esteriori alle loro persone.
Invece l’offerta di Cristo è stata personale ed esistenziale. È sgorgata da una situazione umana drammatica che provocava un’angoscia estrema, perché si trattava di vita e di morte. Cristo non compie riti prestabiliti, ma esprime con "grido veemente" la sua angoscia personale. La sua offerta consiste nel mettere la sua situazione drammatica in relazione con Dio, presentandola a Dio con “domande e suppliche," “grido veemente e lacrime".
Descrivendo Cristo nella sua Passione, l’autore ci offre una illustrazione impressionante di quanto ha detto in precedenza della misericordia sacerdotale di Cristo, basata sulla condivisione delle nostre prove e sofferenze.
Cristo "doveva farsi simile in tutto ai fratelli per diventare sommo sacerdote misericordioso" (Eb 2,17).
Si è fatto “simile in tutto" nella sua Passione.
“Non abbiamo un sommo sacerdote incapace di compatire le nostre debolezze, ma uno che è stato provato in tutto a nostra somiglianza, escluso il peccato" (Eb 4,15).
Questo si è attuato nella Passione, evocata in questo passo (Eb 5,7-8), il quale, però, spiega meglio perché questa condivisione della nostra sorte è stata sacerdotale. Lo è stata, perché Cristo ha messo le nostre prove e sofferenze in relazione con Dio. Ne ha fatto un mezzo di unione perfetta con Dio nella docilità generosa, mentre nello stesso tempo ne faceva un mezzo di unione perfetta con noi uomini nella solidarietà fraterna.
La misericordia sacerdotale si è attuata con un’offerta che ha preso tutta la realtà tragica dell’esistenza umana, l’ha aperta alla corrente d’amore che viene da Dio e ha prodotto un rinnovamento radicale della natura umana, adeguandola alla perfetta comunione con Dio nella gloria celeste. Da questa stupenda attuazione della misericordia sacerdotale di Cristo, che cosa risulta per il ministero sacerdotale nella Chiesa? Anzitutto bisogna  riconoscere che questa attuazione non può essere ripetuta; non è possibile ripeterla, perché nessuno ha la stessa capacità di Cristo, e non è utile ripeterla, perché ha pienamente raggiunto il suo scopo in modo definitivo, "ephapax", dice l’autore, cioè "una volta per sempre" (Eb 7,27; 9,12; 10,10). I sacerdoti cristiani la debbono però rendere presente sacramentalmente nell’eucaristia, secondo il precetto di Gesù: "Fate questo in memoria di me" (Lc 22,19; 1 Cor 11,24-25) e invitare i fedeli ad accoglierne il dinamismo nella loro vita.
Nel contempo dobbiamo imitare S. Paolo che scriveva ai Colossesi:
"Adesso sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia came a favore del suo corpo che è la Chiesa, della quale sono diventato io ministro ..." (Col 1,24-25).
Dobbiamo accogliere nella nostra vita e nel nostro ministero il dinamismo di misericordia sacerdotale messo in atto da Cristo e non dimenticare che la misericordia sacerdotale consiste anzitutto nello stabilire una relazione trasformante tra le realtà difettose dell’esistenza umana e la santità misericordiosa di Dio. E questo, in primo luogo nella nostra vita, per mezzo di una preghiera che permei preoccupazioni e pene, progetti e attività, mettendo tutto in relazione vivente con il Salvatore, in modo da poter aiutare poi i fedeli a vivere in comunione con Dio.

Conclusione

Abbiamo visto come gli aspetti fondamentali del sacerdozio secondo il Nuovo Testamento siano espressi in modo ottimo dalla Lettera agli Ebrei, con le due qualifiche date a Cristo sommo sacerdote, cioè “degno di fede" e "misericordioso". Un sacerdote, infatti, deve avere queste due qualifiche, la prima, "degno di fede", per essere in grado di mettere il popolo in relazione autentica con Dio; la seconda, "misericordioso", per essere in grado di accogliere la miseria umana e di venirle in aiuto. Cristo possiede in pienezza queste due capacità di relazioni. Egli le comunica ai suoi rappresentanti, i sacerdoti della Chiesa, vescovi e presbiteri.
Abbiamo osservato inoltre che ciascuna delle due qualifiche comprende due aspetti. “Degno di fede" comprende l’aspetto di autorevolezza e quello di autorità; autorevolezza per trasmettere autenticamente la Parola di Dio; autorità per indicare ai fedeli la volontà di Dio e guidarli sulle vie del Signore. Per essere “degno di fede", il ministro di Cristo deve essere lui stesso pieno di fede e docile a Dio.
“Misericordioso" comprende l’aspetto di capacità di compassione per la miseria umana e quello di capacità per aprire la miseria umana alla grazia vittoriosa di Dio per mezzo della preghiera e dell’offerta a Dio. Per essere “misericordioso", il ministro di Cristo deve accettare di condividere, come Cristo, la sorte dei fratelli e deve, d’altra parte, unire la vita concreta - la sua e quella dei fedeli - all’offerta personale ed esistenziale di Cristo. In tutto questo vediamo con quanta profondità la comprensione del sacerdozio è stata rinnovata dalla rivelazione di Cristo.
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56

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