QUALE PRETE PER LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE

Pubblicato in Missione Oggi
P. Giulio Albanese

Scriveva pertinentemente Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio:

“Il numero di coloro che ignorano Cristo e non fanno parte della Chiesa è in continuo aumento, anzi dalla fine del Concilio è quasi raddoppiato. Per questa umanità immensa, amata dal Padre che per noi ha inviato il Suo Figlio, è evidente l’urgenza della missione” (Rm 3).


Mai il campo è stato esteso come oggi. Mai come nel nostro tempo sono esistiti sulla faccia della terra miliardi di persone e miriadi di gruppi culturali a cui la Parola di Dio non è mai arrivata. E, badate bene, la loro percentuale sta aumentando vertiginosamente di giorno in giorno. Mai in termini statistici, la Parola di Dio è stata aliena a tanti uomini e a tante donne come oggi. Nel mondo, poi, si rilevano  situazioni estremamente contraddittorie: la devastante crisi dei mercati finanziari che ha penalizzato i ceti meno abbienti innescando la cosiddetta recessione su scala planetaria, il perdurare di modelli di sviluppo economico e tecnico nei paesi industrializzati che non tengono conto del Bene Comune. Non dimentichiamo poi che circa tre quarti della popolazione mondiale vive in situazioni di povertà, e si tratta in gran parte – ironia della sorte – dei “non evangelizzati”. Ma anche nei Paesi industrializzati di tradizione cristiana (Europa e America) la situazione culturale e sociale è così cambiata da quando fu fatta la prima evangelizzazione che la maggior parte della gente non si ritrova più in sintonia col messaggio evangelico come fu presentato allora. Da ciò l’esigenza di una , come viene chiamata oggi, “nuova evangelizzazione” . Cioè un nuovo incontro con la Parola, un esporsi alla Parola, con la ricchezza e la povertà, con le certezze e le insicurezze, con le conquiste e le sconfitte, con l’esperienza umana e tecnologica del nostro tempo. A questo riguardo, nella Redemptoris Missio troviamo una precisazione sulla quale vale la pena ragionare:

“Le differenze nell’attività all'interno dell’unica missione della chiesa nascono non da ragioni intrinseche alla missione stessa, ma dalle diverse circostanze in cui essa si svolge. Guardando al mondo d’oggi dal punto di vista dell’evangelizzazione, si possono distinguere tre situazioni. Anzitutto, quella a cui si rivolge l’attività missionaria della chiesa: popoli, gruppi umani, contesti socio-culturali in cui Cristo e il suo vangelo non sono conosciuti, o in cui mancano comunità cristiane abbastanza mature da poter incarnare la fede nel proprio ambiente e annunziarla ad altri gruppi. È, questa, propriamente la missione ad gentes. (52) Ci sono, poi, comunità cristiane che hanno adeguate e solide strutture ecclesiali, sono ferventi di fede e di vita irradiano la testimonianza del vangelo nel loro ambiente e sentono l’impegno della missione universale. In esse si svolge l’attività, o cura pastorale della chiesa. Esiste, infine, una situazione intermedia, specie nei paesi di antica cristianità, ma a volte anche nelle chiese più giovani, dove interi gruppi di battezzati hanno perduto il senso vivo della fede, o addirittura non si riconoscono più come membri della chiesa, conducendo un’esistenza lontana da Cristo e dal suo vangelo. In questo caso c'è bisogno di una nuova evangelizzazione, o rievangelizazione.” (Rm 33)

Dobbiamo allora stare molto attenti alle semplificazioni. Occorre piuttosto guardare alla realtà concreta delle nostre comunità disseminate nel mondo, nella consapevolezza che, come spiega la Redemptoris Missio:

“I confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è pensabile creare tra di esse barriere o compartimenti-stagno. (Rm 34)

Questo in sostanza significa che ogni agente pastorale - pastori in primis (vescovi e sacerdoti) - deve vivere sincronicamente le tre dimensioni di cui sopra. Il problema è che per fare ciò occorre avere il coraggio di mettersi in profonda discussione. Dovremmo chiederci soprattutto, che cosa deve cambiare nella nostra maniera di svolgere la missione? L’interrogativo è pressante perché cresce di giorno in giorno l’urgenza del nuovo nell’azione evangelizzatrice a tutte le latitudini, Europa compresa. Una sfida missionaria di proporzioni inaudite, a cui noi, in quanto Chiesa, sembriamo essere impreparati in una società moderna, anzi “post moderna” che schizza via alla velocità della luce. Forse per la prima volta in duemila anni di cristianesimo, tante ricchezze e tradizioni, di marca squisitamente occidentale presenti nella liturgia, nell’interpretazione del dogma, del diritto canonico, possono diventare dei pesi tremendi da meritare il “guai a voi dottori della legge” proferito senza mezzi termini dal Signore. È anche vero, comunque,   che non è facile cogliere la linea di demarcazione tra ciò che il Vangelo è in quanto messaggio di salvezza, e ciò che è accessorio, semplice aggiunta, incrostazione. Mai come oggi il mondo è stato così diverso dai tempi di Gesù Cristo come cultura, come modo di vivere, come sentimento del sacro, come senso di Chiesa, come sistemi culturali, come modalità comunicative, come senso di libertà e indipendenza, come pluralismo religioso, come rapporto con l’aldilà, come visione globale della realtà…. E questi disagi – è bene dirlo con franchezza – sono percepiti dai giovani all’ennesima potenza, innescando a volte una sorta di frustrazione non solo psicologica, ma esistenziale. La missione non è arrivata al capolinea, ma bisogna trovare certamente un nuovo modo di viverla. Continuare testardamente sulla stessa strada, accontentandosi di un cristianesimo sotto naftalina, non fa che aumentare la frustrazione e la crisi. Che cosa deve allora cambiare? Alcune indicazioni molto concrete ci sono state offerte dal Concilio ma purtroppo, lasciatemelo dire, non sono ancora state ancora recepite, ruminate, digerite, metabolizzate del tutto. La missione non si può ridurre solo alla celebrazione dei sacramenti. Oggi la missione deve impegnarsi nella promozione dei valori del Regno (Rm 34), nella ricerca dei “germi del Verbo” (Ad Gentes, 11) e nella scoperta e promozione di quei “beni spirituali e morali e i valori socio-culturali” (Nostra Aetate, 2), che si trovano sparsi, per opera dello Spirito Santo, nelle culture e nelle popolazioni anche al di fuori della Chiesa. Di fronte, è bene rammentarlo, il missionario si trova persone create a immagine e somiglianza di Dio, inserite nella loro storia e nella loro propria religione, ed è solo nell’ascolto e nel dialogo con esse che viene offerto il messaggio della salvezza, secondo la logica dell’incarnazione. Per questa ragione Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi ricordava che:

“Per la chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geograficamente sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere, e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità” (En 19).

La sfida, dunque, consiste - soprattutto per i ministri ordinati, ma anche per i fedeli laici - nel coniugare “Spirito” e “Vita”, nel senso che oggi più che mai la Parola deve uscire dalle nostre sacrestie, entrando a pieno titolo nelle vicende umane a trecentosessanta gradi. In questa prospettiva, il nostro discorso mira ad individuare le direttrici verso cui si deve orientare la missione del futuro, quel futuro che ci sta davanti all’inizio di una nuova epoca caratterizzata dalla mentalità post-moderna, da una nuova cultura planetaria, dalla globalizzazione, da nuovi fondamentalismi religiosi e da forme di ingiustizia strutturali sempre più gravi (questione della remissione del debito, le migrazioni dei popoli…). Proviamo allora a definire l’identikit del presbitero di questo terzo Millennio in prospettiva missionaria. 

1)   Egli deve anzitutto riaffermare il primato dello Spirito sulle Opere. Infatti, nel corso della sua storia, la missione si è andata sviluppando in forme che alla lunga hanno evidenziato soprattutto le opere materiali, visibili  e documentabili nelle statistiche: chiese, scuole, ospedali, cooperative di sviluppo sociale, oratori, ecc… Questa maniera di fare missione, ha ridotto a volte l’evangelizzazione ad un’impresa di opere pubbliche (religiose e civili) da programmare, organizzare, finanziare e realizzare con spirito imprenditoriale, con l’inevitabile accentuazione dell’efficientismo e dell’individualismo. Ecco che allora le opere della missione, invece di essere strumenti, si sono identificate con la missione e hanno fatto dimenticare che essa è prima di tutto caratterizzata da una relazione di invio al mondo da parte di una comunità cristiana, un movimento spirituale segnato dalla fede e dall’obbedienza allo Spirito, dalla carità e dal dialogo interpersonale. Al di là delle più sante intenzioni, la missione si è quindi trasformata in un insieme di “cose da fare”, e in un’organizzazione umanitaria, molto efficiente, che canalizza la generosità della comunità cristiana e che attira la stima e la simpatia di tutti, anche dei non praticanti. Per essere agenti della missione cristiana non basta realizzare delle opere, bisogna realizzarle per una motivazione che non è solo intenzionale o, meno ancora, supposta, ma deve essere continuamente presente nella loro trasparenza. Il missionario della nuova evangelizzazione, prima di essere un operaio efficiente, dovrà presentarsi come un uomo di Dio, offrendo una forte testimonianza della risurrezione di Gesù Cristo e della speranza del Regno. Decisiva sarà la qualità della sua presenza in mezzo alla gente, “testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità” (En 41). Non sarà il fascino delle sue opere, né le promesse di sviluppo e di progresso, ciò che evangelizza, ma la fede del discepolo che diventa epifania, memoria cioè e profezia, del Regno di Dio.

2)  Il presbitero dovrà poi sentirsi davvero cattolico nel senso che la missione non è già più, e neppure potrà essere più, un movimento a senso unico che viene dalle chiese di antica data, dall’occidente verso il resto del mondo. La missione è cooperazione. La missione allora ritorna là dove ha avuto inizio e rinnova, attraverso il suo dinamismo e le ricchezze dei popoli che ha raccolto, le chiese che l’hanno promossa. In un mondo globalizzato con tutta la sua rete di comunicazioni, la Chiesa deve assumere la cattolicità come criterio di missione. Essa a pensarci bene diventa allora la globalizzazione perspicace di Dio. E in questa prospettiva, i cristiani non possono rimanere inerti in un tempo, come il nostro, in cui i mezzi di trasporto sono divenuti veloci e tanti “non cristiani” sono ormai vicini a noi, a casa nostra. Pensiamo alle migliaia di extracomunitari non cristiani che approdano sul nostro continente e che sono presenti ormai nelle nostre chiese. Ma c’è oggi una nuova dimensione della cattolicità che deve essere riconosciuta e attuata. La missione non si può accontentare di raggiungere ogni luogo, deve rivolgersi anche alle persone e alle culture già raggiunte dall'annuncio cristiano per trasformarle al di dentro, per “sconvolgerle mediante la forza del Vangelo” (En 20) e per risvegliare quell’uomo “nuovo” che è l’oggetto della salvezza cristiana. La missione del futuro deve completare la prima fase della diffusione del Vangelo, che possiamo chiamare della cattolicità geografica, con un’altra cattolicità che potremmo chiamare antropologica. Infatti la missione non è diretta soltanto a tutti gli uomini, ma deve raggiungere ogni uomo nella sua profonda verità, per fargli incontrare Cristo affinché egli sia da lui trasformato e salvato.

3)  Il presbitero dovrà poi essere un comunicatore nel villaggio globale, nella certezza che Cristo è il Verbo di Dio. “Comunicare”, parola composta dal prefisso cum e da un derivato di munus (“incarico, compito”), vuol dire letteralmente “che svolge il suo compito insieme con altri”. Ne consegue che il mondo missionario, dovendo veicolare messaggi d’inestimabile valore incentrati sul rispetto della fede, della speranza, della carità, della “res publica”, delle regole, della dignità umana… non può prescindere dal “cum-munus”, cioè dalla dimensione partecipativa rispetto alla missione evangelizzatrice. Ed oggi il paradosso è sotto gli occhi tutti, viviamo in una società digitalizzata, internettiana… eppure mai come di questi tempi nella Chiesa si fa fatica a comunicare al cuore della gente. La nostra predicazione spesso si riduce a un compendio di leggi, leggine e dottrine, dimenticando che il Vangelo è Buona Notizia.

4)  La missione del futuro dovrà anche avere un’attenzione particolare verso il processo di inculturazione del Vangelo e, in generale, della fede cristiana. Quest’esigenza del nuovo modo di fare missione è “particolarmente acuta e urgente” (Rm 52). Ne va del rispetto per il Vangelo che è destinato ad essere accolto da tutti in modo profondo ed esistenziale, non superficiale o solo intellettuale o nozionistico. Ne va anche del rispetto per i destinatari dell’evangelizzazione, chiamati a impegnare tutta la loro esistenza in una conversione che deve coinvolgerli totalmente: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze” (Mc 12, 30). In qualche luogo la rapidità dell’evangelizzazione ha impedito di curare le esigenze delle singole persone e la conoscenza delle loro tradizioni. Il risultato è stato un cristianesimo steso sopra la cultura “a somiglianza di vernice superficiale” (En 19), che non ha potuto penetrare nel fondo dell’uomo e della società. L’inculturazione è una sensibilità abbastanza recente, che tuttavia, nella missione del futuro, non può essere più ignorata, se vogliamo che il Vangelo metta radici profonde e trasformi significativamente le culture. La chiesa deve cercare di portare il Vangelo nel profondo delle diverse culture affinché esse quasi producano una nuova cultura. Lo ha detto in modo molto chiaro Giovanni Paolo II alle chiese d’Africa: “Una fede che non diventa cultura, è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata e non fedelmente vissuta” (Ecclesia in Africa 78). Il compito di inculturare il messaggio evangelico è responsabilità specifica della comunità locale (Rm 52c), domanda ai presbiteri di essere vicini alla gente, di vivere con loro, di assumerne le ansie e le speranze, cercando di vivere la loro fede in comunione profonda con le popolazioni cui sono stati inviati, evitando di opprimerli con la loro potenza culturale ed economica.

5)  Vi è un ultimo aspetto nella lista, ma certamente fondamentale guardando all’orizzonte globale ed europeo in particolare: mi riferisco alla questione socio/politica. È vero che il prete non deve sostenere questa o quella fazione, questo o quel partito, ma deve comunque essere un soggetto politico. Nel senso che più di altri, essendo portatore di una sacrosanta sfera valoriale, ha il compito di manifestare affezione alla “res publica”, al bene comune. Le migrazioni, le disparità sociali, i poveri e gli emarginati…. Devono essere sempre e comunque in cima alla nostra agenda.

Queste prospettive suppongono naturalmente che esistano ancora delle persone che si consacrano totalmente alla missione evangelizzatrice. In questo senso, il momento presente non ci offre molte illusioni. Vediamo infatti che le vocazioni missionarie stanno diminuendo anche nelle chiese europee che finora ne hanno avute molte mentre quelle che nascono nelle nuove chiese non riescono ancora a rimpiazzarle in modo da dare continuità al passato. Sarà questo un dato di fatto scoraggiante che ci fa cadere le braccia come davanti ad un fatto inevitabile e irreparabile? 0 non sarà invece un’indicazione provvidenziale che Dio ci fa giungere per rinnovare evangelicamente la figura stessa del missionario, aprendola a tutti coloro - sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche - che sentono il bisogno di rispondere all’amore di Cristo? Non resta che pregare e discernere per fare la Sua volontà.
Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56

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