LA NUOVA PROFEZIA

Pubblicato in Missione Oggi

Rifare il tessuto delle relazioni umane.

Ricostruire la comunità, immagine del volto di Dio.

 


Il periodo in cui non c’erano profeti

La congiuntura ecclesiale nel mondo che si espande

Prima, quando i vescovi dell’America Latina si riunivano in assemblea, tutta la stampa accompagnava l’evento. Nella Conferenza di Medellìn fu grande l’animazione. Il contesto di questo momento, 1968, era caratterizzato dal vento innovatore del Concilio Vaticano II, dalla rivoluzione mondiale dei giovani, dall’ambiente della guerra fredda, dalle dittature nell’America Latina. Le parole dei vescovi avevano peso, raggiungevano i mezzi di comunicazione e suscitarono un movimento popolare molto importante per la storia dei nostri popoli. La conferenza di Medellìn, rilettura latino-americana del Concilio Vaticano II, confermò e irradiò la teologia della liberazione e divenne fonte animatrice delle Comunità Ecclesiali di Base. Puebla confermò e approfondì tale cammino. Fu un’epoca bella e promettente! Profetica!

Oggi, la situazione è differente. Quando i vescovi si riuniscono, la stampa difficilmente ne parla. Non facciamo più notizia. Molti di quelli che lottarono negli anni 60 e 70, oggi si sentono stanchi e frustrati. Non è che abbiano perduto la fede, ma non sanno più come affrontare il mondo nuovo con la fede antica. Cresce la secolarizzazione. Risulta difficile immaginare che una comunità di base dell’entroterra del paese possa affrontare il Fondo Monetario Internazionale chiedendo che sia coerente col Vangelo. L’impero ha altri dei ed altre leggi!

Alcuni ritengono che la teologia della liberazione e le comunità ecclesiali di base appartengano al passato. Questo è il tempo dei movimenti internazionali.

La linea di demarcazione fu l’avanzata dell’impero neoliberale e la caduta del muro di Berlino. L’alternativa che sembrava aver raggiunto qualche risultato si disintegrò e fino ad oggi non è apparso altro. In molti paesi, le elezioni sembrano un pendolo: quando la destra non piace, si passa alla sinistra e quando la sinistra non piace si passa alla destra. Non si intravede una direzione chiara che punti verso il futuro. All’orizzonte appaiono nuovi pericoli: la minaccia ecologica e atomica, nuove malattie, ingiusta distribuzione delle ricchezze, violenza galoppante, minaccia di guerra di religione a livello mondiale. L’umanità cerca, disperatamente, una via di uscita, desiderando qualche profezia (profeta) che le indichi il cammino. Mentre, la Chiesa è sempre più ripiegata su se stessa e sui problemi interni, più clericale e meno coinvolta nelle lotte popolari. Meno profetica!

In questo tempo senza profeti, starà lo spirito profetico suscitando nuove forme di profezia? Isaia rispondeva così a coloro che non le scorgevano: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19). Gesù criticò i farisei che non prestavano attenzione ai segni dei tempi (cf. Mt 16,1-3).

 

La congiuntura “ecclesiale” nell’epoca della cattività di Babilonia

Dall’inizio della monarchia (1000 A.C,), fino all’esilio di Babilonia (587-538), i profeti formavano parte della storia di Israele. Erano la coscienza parlante del popolo di Dio. Dopo l’esilio, il popolo diceva: “Non ci sono più profeti” (Sal 74,9; cf. Dn 3,38). Arrivarono a dividere la storia in due periodi: il periodo in cui c’erano i profeti e il periodo in cui non c’erano più profeti: “Ci fu grande tribolazione in Israele, come non si verificava da quando fra loro erano scomparsi i profeti” (1Mac 9,27). Si parlava degli antichi profeti (Zac 1,4; 7,7). Cosa del passato! Avevano perfino elaborato un elenco che sembrava completo: dodici profeti (Eccli 49,10) e cominciarono ad usare la parola “profeta” per designare coloro che suonavano gli strumenti musicali durante le celebrazioni liturgiche (1Cron 25,1.3). Durante i 400 anni del periodo dei re, essi ebbero i loro profeti. Per oltre 500 anni, dall’esilio fino a Giovanni il Battista, rimasero quasi senza profeti e vivevano in attesa di qualche profeta che spiegasse loro le cose (cf. 1Mc 4,46; 14,41). Questa era l’impressione del popolo di quel tempo. La linea di demarcazione costituì l’avanzata dell’impero di Babilonia e la distruzione di Gerusalemme. Fu distrutta ogni cosa! Tutto ciò che, fino a quel momento, era stato garanzia visibile della presenza di Dio in mezzo al popolo! Il Tempio, dimora perpetua di Dio ((1Re 9, 3), fu incendiato (2Re 25, 9). La Monarchia, fondata per durare sempre (2Sam 7,16), non esisteva più (2Re 25,7). La Terra, il cui possesso era stato garantito per sempre (Gen 13,15), divenne proprietà dei nemici (2Re 25,12; Ger 39,10; 52,16).

L’impero distrusse il sistema socio-politico delle piccole monarchie del Medio Oriente. A partire dal 587, tutti caddero sotto il dominio del potere straniero. Non erano più stato e nemmeno nazione, ma soltanto comunità etniche, disperse in un impero multiculturale e multirazziale, senza indipendenza politica, senza esercito, senza re. In questa situazione, era impossibile immaginare che qualcuno dei villaggi della Palestina potesse agire come profeta o profetessa secondo l’antico stile di Amos o di Michea. Un contadino della Palestina non aveva alcuna possibilità di esigere l’osservanza della Legge di Dio, all’imperatore di Babilonia, di Persia o ai governanti ellenisti. L’impero aveva altri dei ed altre leggi.

Fu precisamente in questo periodo senza profeti, che la profezia trovò nuove forme di espressione, apparve La nuova profezia! Ed è questo aspetto che vedremo più da vicino in questa relazione perché ci aiuti a percepire meglio la profezia che già opera in mezzo a noi. La riflessione biblica che segue in questo articolo parla da sé. Non ha bisogno di commento. Essa riflette quello che avviene oggi.

 

II – La nuova profezia durante la cattività

 

Il trauma dell’assenza di Dio e la ricerca di nuovi cammini

La cattività distrusse i punti di riferimento religioso che avevano orientato il popolo di Dio fino a quel momento. Secolarizzò la vita! Perduto, senza orientamento, il popolo cercava una via d’uscita che gli desse sicurezza e speranza. Quello che più pesava era il senso dell’abbandono, misto ad un complesso di colpa (Is 40,27; 49,14; Lam 1,8.14). Il popolo pensava che, a causa della sua infedeltà, Dio avesse cambiato atteggiamento e l’avesse rigettato per sempre (Sal 77,8-11; 79,5). Egli non ascoltava più il grido del popolo (Lam 3,8; Sal 22,2-3). Il testo della terza Lamentazione ritrae bene questo senso di disperazione:

“Io sono l’uomo che ha provato la miseria sotto la sferza della sua ira.

Egli mi ha guidato, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce.

Solo contro di me egli ha volto e rivolto la sua mano tutto il giorno.

Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha rotto le mie ossa.

Ha costruito sopra di me, mi ha circondato di veleno e di affanno.

Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi come i morti da lungo tempo.

Mi ha costruito un muro tutt’intorno, perché non potessi più uscire;

ha reso pesanti le mie catene.

Anche se grido e invoco aiuto, egli soffoca la mia preghiera…

Sono rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere.

E dico: E’ sparita la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore” (Lam 3,1-8.17-18)

 

L’immagine di Dio che traspare tra le righe di questo lamento è quella di un giustiziere che vuole solo vendicare e far male. Tragica esperienza! Fonte di disperazione! Come riscoprire la presenza amorosa di Dio nella vita? Anticamente, profeti come Samuele e Mosè parlavano con Dio ed Egli rispondeva (Sal 99,6). Dov’è Dio ora? (Sal 42,4.11; 115,2; 79,10; Mi 7,10). Come uscire da questa situazione? Erano questi gli interrogativi che agitavano le coscienze e le conversazioni di molta gente.

Emersero varie risposte. Inizialmente, non erano risposte precise, separate le une dalle altre, ma solamente opinioni e tendenze diverse, mescolate tra loro, sia nella vita delle persone che dei gruppi, senza molta chiarezza, in un ambiente di ricerca e di divergenza. Esattamente come oggi! Possiamo classificare le diverse risposte in quattro direzioni:

 

La maggioranza silenziosa: adottò gli dei dell’impero e vi si adattò

La maggior parte degli esiliati si adattò e cominciò a frequentare la religione di Babilonia insieme alle sue grandiose processioni e immagini maestose. Adottò gli idoli e lo stile di vita dei grandi. Questo gruppo sembra essere stato il più numeroso. La maggioranza silenziosa! Quello che più traspare negli scritti di quell’epoca è la denuncia del pericolo degli idoli di Babilonia ((Is 44,9-20; Bar 6,1-72; Sal 115,4-8). Anche oggi, la maggioranza silenziosa cerca la strada più comoda del consumismo, la nuova religione dell’imperoosi. neoliberale con i suoi templi grandi

 

Zorobabele e Giosué: volevano ricostruire il passato, ma fu loro impedito

Per altri, il fatto di essere fuori della propria terra, voleva dire essere lontani da Dio! Consideravano l’epoca dei re come il modello da essere imitato. Questo gruppo comprendeva Zorobabele, Giosué, Aggeo ed altri. Essi ritornarono in Palestina quando Ciro ordinò il ritorno (Esd 1,2-4). Volevano a tutti i costi ricostruire il tempio, restaurare la monarchia e riacquistare l’indipendenza politica. Volevano ricostruire il passato, ma non ebbero successo. L’impero lo impedì. Oggi, alcuni sognano il ritorno del Cristianesimo.

 

I discepoli di Isaia: trovarono una nuova via di uscita, ma non furono riconosciuti

Un altro gruppo pensava che la soluzione non era ritornare al passato, né accomodarsi alla presente situazione, né adattarsi alle esigenze dell’impero, ma imparare a leggere con altri occhi la nuova situazione nella quale si trovavano. Si chiedevano: “Che cosa vuole insegnarci Dio con questo avvenimento così tragico della cattività?” Essi cercavano di ritornare alle origini del popolo. Fecero una rilettura delle storie del passato per trovare in esse una luce che li aiutasse a riscoprire la presenza di Dio in quella terribile assenza. A questo gruppo appartenevano: Geremia e i discepoli e le discepole di Isaia, la cui esperienza, registrata in Isaia 40 a 66, fu un segno importante nella storia dell’Antico Testamento. Costituì un movimento di base che non ottenne il riconoscimento ufficiale.

 

Neemia e Esdra: adattarono il modello antico alla nuova situazione e riuscirono ad imporlo

Durante e soprattutto dopo la cattività emerse un altro gruppo guidato da Neemìa, da Esdra e da una parte della aristocrazia pensante. Costoro pensavano che, in nome di Dio, dovessero accettare il giogo del re straniero, pregare per lui e collaborare con lui (Ger 27,6-8.12.17; 42,10-11). Volevano, nello stesso tempo, mantenere la coscienza di essere il popolo eletto di Dio, distinto e separato da altri popoli. Perciò, insistevano nell’osservanza della legge di Dio (Esd 7,26; Ne 8,1-6; 10,29-30) e nella purezza della razza che proibiva il contatto con gli altri popoli (Esd 9,1-2). E perché tutti i giudei, dispersi nell’impero persiano, si riunissero in questo sforzo di essere la razza scelta di Dio, crearono un movimento internazionale, trasformando Gerusalemme in simbolo di unità per tutti (Ne 2,5). Il progetto di Neemia e di Esdra superò gli altri. Oggi, il rapporto Chiesa-Stato ha molte volte caratteristiche simili: da un lato, apertura al potere civile perché la Chiesa ottenga favori e, dall’altro, si insiste sul diritto da parte della Chiesa di vivere la sua fede pubblicamente con assoluta libertà.

 

Le prime luci: un nuovo modo di rileggere il passato

Già durante l’esilio, i discepoli di Isaia cominciarono a rileggere il passato. Un esempio concreto di questa rilettura è il modo come presentavano la storia del profeta Elia. Essi guardarono non solo l’aspetto esteriore e grandioso della denuncia profetica, ma anche quello interiore e nascosto delle crisi e dei dubbi. Lo stato di depressione nel quale Elia si trovò di fronte alla minaccia della monarchia rifletteva la situazione del popolo nella cattività:

 

Elia andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto il ginepro. Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: “Alzati e magia!”. Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi” (1Re 19,4-6).

 

Elia desiderava solo mangiare, bere e dormire. Come molti degli esiliati, egli aveva perduto il senso della vita. Ma l’angelo tornò una seconda volta e, finalmente, Elia si sveglia, ritrova la forza e cammina quaranta giorni e quaranta notti, fino ad arrivare al Monte Oreb (1Re 19,4-8), dove, secoli prima, in quel medesimo luogo, era nato il popolo di Dio (Es 19,1-8). Elia ritornò alle radici! Era questo il cammino che il popolo della cattività doveva fare: ritornare alle radici!

Sul Monte Oreb, Dio lo interpella: “Elia, che fai qui?” Egli rispose: “Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita” (1Re 19,10.14).

Esiste una contraddizione tra la teoria e la pratica. Secondo il discorso, Elia è l’unico che rimase; ma la pratica mostra che c’erano settemila che non piegarono le ginocchia davanti a Baal (1Re 19,18). Secondo il discorso, Elia era pieno di zelo; ma la pratica lo presenta come un uomo impaurito che fugge (1Re 19,3 ). Secondo la narrazione, egli sa analizzare il fallimento della nazione; ma nella pratica non sa analizzare il suo proprio fallimento, di fatto non percepisce la presenza dell’angelo.

Lo sguardo di Elia era offuscato da qualcosa che gli impediva di valutare la situazione con obiettività. Ciò non vuol dire che abbia perduto la fede, ma non sa come affrontare la nuova realtà con l’antica fede. C’è qualcosa in comune tra Elia e i suoi persecutori: entrambi uccidevano in nome di Dio! Infatti, nel nome del Dio (Jahvé) Elia uccise 450 profeti di Baal (1Re 18,40). Fu nel nome di dio (Baal) che Gezabele uccise i profeti di Jahvé. (Bush reagì con la stessa violenza di Bin Laden, entrambi agiscono in nome di Dio: “Guerra santa! – “Crociata!).

C’era qualcosa di errato nell’immagine di Dio che incoraggiava Elia a lottare contro Baal. Per questo, il suo sguardo era abbattuto, era incapace di valutare la situazione con obiettività.

Qual è l’immagine di Dio che anima oggi la Chiesa? Quale l’immagine di Dio che avrebbe dovuto essere negli occhi e nel cuore del popolo della cattività e che dovrebbe essere nei nostri occhi oggi? Questa era e continua ad essere la domanda fondamentale. La risposta si trova nel vento leggero.

 

Mormorio di un vento leggero! Uno schiaffo sul viso! “Per favore, svegliati!”

Elia riceve l’ordine: “Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Il Signore passò” (1Re 19,11). Elia esce dalla grotta e si prepara all’incontro con Dio. Momento solenne! Vero archetipo! Prima, un vento impetuoso! Dopo, un terremoto! Dopo, un fuoco! In passato, su quello stesso Monte Oreb, Dio aveva manifestato la sua presenza nel vento forte, nel terremoto e nel fuoco (Es 19,16). Questi segni tradizionali della presenza di Dio erano i criteri che orientavano Elia nella sua ricerca. Ma accadde l’inaspettato: Dio non era più nel vento impetuoso, né nel terremoto, né nel fuoco che, poco prima, là sul Monte Carmelo, era stato il grande segno della presenza divina per consumare l’olocausto alla presenza di tutto il popolo (1Re 18,38). Sembra perfino un curioso ritornello: “Jahvé non era nel vento impetuoso!” – “Jahvé non era nel terremoto!” – “Jahvé non era nel fuoco!” (1 Re 19,11-12). I segni tradizionali della presenza di Dio erano lampade spente. Belle da vedere, ma senza luce! Lasciarono Elia nell’oscurità: Come Zorobabel, Giosué, Esdra, Neemia e l’aristocrazia pensante, Elia viveva nel passato! Dio non era più come Elia e tanti altri nella prigionia lo immaginavano e desideravano. Dio era cambiato! (Sal 77,11).

Assistiamo alla disintegrazione del mondo di Elia: specchio della disintegrazione della vita del popolo nella prigionia dopo che Nabucodonosor aveva ordinato di distruggere i segni tradizionali della presenza di Dio: il tempio, il re, il possesso della terra. Accadde di tutto! L’immagine che Elia (il popolo della prigionia) aveva di Dio si frantumò in mille pezzi. Si tratta del silenzio di Dio! Nella lingua ebraica, questo silenzio si esprime con le seguenti parole: “voce di una calma soave”, (qôl demamáh daqqáh). Le tradizioni sono solite esprimerlo così: “Mormorio di un vento leggero”. Ma la parola ebraica demamáh, usata per indicare la calma, viene dalla radice DMH, che significa fermare, restare immobile, tacere. Il “mormorio di un vento leggero”, che veniva dopo il vento impetuoso, il terremoto e il fuoco, indica una esperienza che, come un colpo leggero e inaspettato, fa ammutolire la persona, crea in lei un vuoto e la dispone, così, ad ascoltare. E’ come uno schiaffo sul viso! Anche se, dato con gentilezza, non cessa di essere uno schiaffo! Che scuote, rompe l’illusione irreale e fa ritornare la persona alla realtà. Nella realtà, il vento leggero, il colpo sul viso, indicava l’esilio che aveva distrutto tutto e obbligava il popolo ad una conversione radicale.

Elia si copre il volto col mantello (1Re 19,13). Segno che aveva sperimentato la presenza di Dio in quello che sembrava essere la sua assenza! Si svegliò! Imparò la lezione! La situazione di sconfitta, di morte e di secolarizzazione in cui si trovava il popolo nella prigionia è percepita come il momento e il luogo in cui Dio lo raggiunge. L’oscurità si rischiarò e la notte si fece più chiara del giorno (Sal 139,12). Dio si fa presente nell’assenza con più forza che in tutte le rappresentazioni e immagini! Oscurità luminosa!

L’esperienza di Dio nel Vento Leggero dona occhi nuovi e produce un cambiamento radicale. Elia scopre che non è lui, Elia, che difende Dio, ma è Dio che difende lui. E’ la sua conversione e liberazione! Incontrandosi nuovamente con Dio, si incontrò con se stesso e con la sua missione. Immediatamente parte per adempiere gli ordini di Dio. Uno di questi è ungere Eliseo come profeta al suo posto (1Re 19,16). Rinasce la profezia! La nuova profezia! La lotta per la giustizia rinasce dall’esperienza della gratitudine. Qual è lo schiaffo sul viso di cui oggi abbiamo bisogno o l’abbiamo già ricevuto e non ce ne rendiamo conto?

 

III – Una nuova immagine di Dio - Un nuovo modo di lavorare con il popolo

Questo modo nuovo e originale di rileggere il passato portò frutti nella vita dei discepoli di Isaia i quali vivevano e soffrivano nella prigionia. Per loro, Elia non rappresentava alcuno del passato, ma era il proprio popolo. In certo qual modo, non fu Elia, ma loro stessi, discepoli e discepole di Isaia che si coprirono il volto, segno che stavano riscoprendo la presenza di Dio in quella terribile assenza della cattività. Da ciò emerse una nuova immagine di Dio e nacque un nuovo modo di lavorare con il popolo.

 

Una nuova immagine di Dio, radice della nuova profezia

 

Come per tanti esiliati e migranti di oggi, l’unico spazio di una certa autonomia e libertà, che rimaneva per loro nella cattività di Babilonia, era lo spazio familiare: il padre, la madre, il marito, la moglie, il fratello o la sorella, il piccolo mondo della famiglia, la “casa”. Tutto il resto che prima faceva parte della vita non esisteva più: l’organizzazione più ampia della tribù, il possesso della terra, il Tempio, i pellegrinaggi, il culto, il sacrificio, il sacerdozio, la monarchia. Niente era rimasto. Allora, fu esattamente questo spazio ridotto e debilitato della famiglia, della comunità, della “casa”, in cui tutti incontrarono nuovamente la presenza di Dio. La nuova immagine di Dio che essi crearono rifletteva molto bene questo ambiente familiare della casa. Presentavano Dio come Padre (Is 63,16; 64,7), come Madre (Is 46,3; 49,15-16; 66,12-13), come Marito (Is 54,4-5; 62,5), come parente prossimo (goêl o fratello maggiore) (Is 41,14; 43,1). Jahvé, il Dio che prima era legato al Tempio, al culto ufficiale, al sacerdozio, al clero, alla monarchia, ormai era vicino a loro, “in casa”; casa piccola, rovinata e, umanamente parlando, senza futuro, ma casa, e non Tempio. Non usarono le immagini religiose tradizionali, ma le immagini di ogni giorno estratte dalla vita familiare e comunitaria. Esse umanizzavano l’immagine di Dio e rendevano sacri la vita, la famiglia, la piccola comunità, così come lo spazio dell’incontro con Dio. “Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore” (Is 45,15). Egli si nasconde e si rifugia dove nessuno può cercarlo: in casa, tra legami familiari quotidiani e comunitari, in mezzo al popolo esiliato ed escluso (Is 57, 15). All’élite, alla gerarchia, ai capi e ai sacerdoti non piacque molto questo modo di interpretare e comunicare la presenza di Dio. Tuttavia, qui risiede la radice della Nuova Profezia che echeggerà attraverso quattro secoli fino all’arrivo del Nuovo Testamento!

 

Una nuova maniera di lavorare con il popolo, una nuova pastorale

Questa nuova esperienza di Dio fece sì che i discepoli e le discepole di Isaia riscoprissero la loro identità e missione, non più come popolo privilegiato, separato dagli altri popoli, ma come popolo eletto da Dio per servire l’umanità (Is 42,1-6; 49,1-6; 50,4-9). E lì stesso, nella cattività, cominciarono a mettere in pratica questa missione di servizio. Presentiamo alcune caratteristiche di questa nuova pastorale:

 

Accogliere il popolo con molta tenerezza

Per il popolo che vive ferito e triste, nella solitudine dell’esilio, non basta l’imposizione dei precetti e le minacce della legge, non basta nemmeno la denuncia profetica perché alzi il capo e cominci a guardare la situazione con speranza rinnovata. E’ necessario, prima di tutto, curare le ferite del cuore del popolo, accogliendolo con molta tenerezza e bontà. I discepoli e le discepole di Isaia usano un dialogo attento, pieno di tenerezza e di incoraggiamento, accogliente e consolante. Le prime parole: “Consolate! Consolate il mio popolo!” (Is 40,1) risuonano nelle pagine di tutto il libro, dall’inizio alla fine (Is 49,13; 51,12). “Non griderà, non alzerà il tono, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta” (Is 42,2-3).

Vale a dire, colpiti, non colpiscono. Oppressi a causa della situazione in cui si trovano, non opprimono, ma trattano e accolgono il popolo con molto rispetto e affetto. Usano un linguaggio semplice, concreto e diretto, un atteggiamento di tenerezza, mai visto prima, che funziona come balsamo e dispone le persone a guardare la realtà con più obiettività. Alcuni esempi di questo si trovano in: Is 54,7-8; 41,9-10 e 13-14; 40,1-2; 43,1-5; 46,3-4; 49,14-16; ecc...

 

Insegnare a dialogare sulla base dell’uguaglianza

I versetti dei capitoli da 40 a 60, manifestano un atteggiamento di ascolto e di dialogo. I discepoli e le discepole di Isaia insegnano a dialogare, sulla base dell’uguaglianza. Essi conversano, fanno domande, portano il popolo a riflettere sui fatti (cf. Is 40,12-14.21.25-27). Questo modo di insegnare è proprio di chi si considera discepolo e non detentore della verità (Is 50,4-5). Un discepolo non assolutizza il suo pensiero, né impone le sue idee in modo autoritario, ma sa insegnare ascoltando e aprendosi agli altri. Per questo, nel loro modo di vivere e di trattare con il popolo, i discepoli non solo parlano di Dio, ma lo rivelano anche; comunicano qualcosa di ciò che essi stessi sperimentano e vivono. Dio si manifesta in questo atteggiamento di tenerezza e di dialogo. Il popolo si rende conto che il Dio dei discepoli è diverso dal Dio di Babilonia, diverso anche dall’immagine clericale di Dio che essi tuttavia conservano nella memoria, sin dai tempi della monarchia, prima della distruzione del Tempio e che il progetto di Neemia e di Esdra sembrava voler imporre un’altra volta. Così, poco a poco, gli occhi si aprono. Il popolo comincia a percepire qualcosa di nuovo che sta germogliando. “Non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

 

Tenere riunioni settimanali per pregare, meditare e aiutarsi

E’ nel periodo dell’esilio, e immediatamente dopo, che si comincia ad insistere sull’osservanza del sabato (Is 56,2.4; 58,13-14; 66,23; cf. Gen 2,2-3). Perché il popolo esiliato avesse almeno un giorno alla settimana per incontrarsi, condividere la fede, lodare Dio e, così, riprendere le forze e incoraggiarsi reciprocamente. In queste riunioni settimanali rinfrescano la memoria (Is 43,26; 46,9), raccontano le storie di Noé (Is 54,9-10), di Abramo e di Sara (Is 51,1-2), della creazione (Is 45,18-19; 51,12-13), ricordano l’Esodo (Is 43,16-17), indicano gli eventi politici e domandano: “Chi ha fatto tutto questo?” (Is 41,2). Si riuniscono di notte, fuori della casa, e si chiedono: “Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato quegli astri?” (Is 40, 26). La risposta è sempre la stessa: “E’ Jahvé, il Dio del popolo, il nostro Dio”. Così, poco a poco, la natura cessa di essere il santuario dei falsi dei, la storia non è più decisa dagli oppressori del popolo; il mondo della politica non è più il dominio di Nabucodonosor. Cominciano a delinearsi i lineamenti del volto di Jahvé, il Dio del popolo, La natura, la storia e la politica cessano di essere estranee e ostili al popolo e tornano ad essere alleate dei poveri nel loro cammino come Servo di Dio e “Luce nelle nazioni” (Is 42,6; 49,6). Di fronte a questa presenza travolgente di Dio nel mondo, nella vita, nella storia, nella politica, nel popolo, i discepoli convocano il popolo: “Sordi, ascoltate, ciechi, volgete lo sguardo per vedere” (Is 42,18). “… non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

Ora non c’è più la persecuzione che debilita la fede, ma è la fede rinnovata e illuminata che debilita il potere dei potenti. Il volto di Dio riappare nella vita. Il popolo, incoraggiato da questa Bella Notizia, si “sveglia” (Is 51,9-17; 52,1), si alza (Is 60,1), comincia a cantare (Is 42,10: 49,13; 54,1; 61,10; 63,7) e a resistere (Is 48,20).

 

IV – La direzione che intraprese la storia

Dopo la cattività, il gruppo della maggioranza silenziosa si diluì nell’impero. Quello dell’indipendenza politica o quello del ritorno al passato, scomparvero. Probabilmente, furono eliminati dall’impero e dal tempo.

L’esperienza dei discepoli e delle discepole di Isaia continuava ad essere viva, incoraggiando il popolo, ma, come forza sotterranea, non riuscì ad avere un riconoscimento ufficiale da parte delle autorità religiose dell’epoca. Il progetto del gruppo di Neemia e di Esdra si trasformò in proposta ufficiale, apparentemente la più percorribile in quel contesto, poiché molti di essi avevano acquisito buoni impegni e posizioni vantaggiose nella nuova patria, come si percepisce nei versetti dei vari libri (Ne 2,1-9; Esd 7,11-26; Tb 1,12; Es 2,16; 6,10-11; Dn 3,97).

Così, a partire dalla metà del V secolo, nel 445 A.C., Neemia, ministro di fiducia del re di Persia, avvalendosi della influenza che godeva presso il re, ebbe l’autorizzazione di andare a Gerusalemme allo scopo di riorganizzare il popolo intorno al Tempio e ricostruire le mura della città (Ne 2,4-9; 3,38). Terminata la missione, ritornò presso il Re (Ne 13,6). Nel 398, anche Esdra, con l’appoggio del re, diede continuità all’opera di Neemia (Esd 5,1 a 6,22). Egli ebbe il privilegio che il popolo poteva seguire la Legge di Mosè senza attendere alle esigenze della religione degli idoli. Il re Artaserse arrivò a dire ad Esdra: “A riguardo di chiunque non osserverà la legge del tuo Dio e la legge del re, sia fatta prontamente giustizia o con la morte o con il bando o con ammenda in denaro o con il carcere” (Esd 7,26).

La proposta di zeemia e di Esdra conteneva in se stessa una contraddizione. Da un lato, cercava apertura e cambiamento di fronte al potere politico ed economico. Dall’altro, promuoveva l’isolamento e la separazione del popolo di Dio di fronte alle altre religioni e culture. Da questa ambiguità iniziale nacquero due partiti che diventarono nemici inconciliabili tra loro, entrambi in lotta per la leadership, entrambi fratelli, figli della stessa contraddizione, entrambi desiderosi di avere Gerusalemme come centro simbolico del movimento giudaico internazionale.

Il gruppo dell’apertura e del cambiamento identificava l’obbedienza a Dio con l’obbedienza alla legge del Re. Conseguì la leadership politica ed economica e autoritariamente, senza alcuna sensibilità nei riguardi della religiosità del popolo, impose agli altri tutto ciò che veniva dall’impero, compresa la cultura greca e le espressioni di culto imperiale: giochi olimpici, sport, uniforme, associazioni, costruzione delle città, commercio, denaro (2Mac 4,12-14; 1Mac 1,11-15). Diede origine ai sadducei e all’aristocrazia sacerdotale.

 

Il gruppo dell’isolamento e della separazione identificava l’obbedienza a Dio con l’osservanza della legge di Dio. I suoi membri conseguirono la leadership religiosa e culturale ed esercitarono grande influenza sulla coscienza del popolo. Diedero origine ai farisei e ai dottori della legge. Per difendere il popolo contro l’aggressione dell’aristocrazia economica e politica e aiutarlo a mantenere la sua identità come popolo eletto di Dio, si chiusero sempre più nella stretta osservanza della legge di Dio e nella purezza della razza, cosa che li portò ad un totale isolamento tra le nazioni. Trasformarono persino l’incontro settimanale del sabato in precetto obbligatorio.

Paradossalmente, questa chiusura quasi irrazionale nei riguardi della legge di Dio, evitò che il popolo fosse disintegrato dalla politica disastrosa e oppressiva della stupida aristocrazia che mendicava favori dei poteri pubblici dell’impero e aggrediva il popolo con l’imposizione degli usi e costumi stranieri. La chiusura fu praticamente l’unica via di uscita che rimase per i poveri e fu così che, dopo 400 anni, Gesù li incontrò nei villaggi della Galilea. Sebbene formato nel fondamentalismo autoritario, alienato e alienante dei farisei, la povera gente, a differenza dei farisei, continuò ad essere aperta al messaggio di vita che Gesù rivelava (Mt 11,25-27). La storia si è ripetuta fino ad oggi! Il clericalismo può arrivare a proteggere in casi speciali, però non porta vita. La gente attende il messaggio della vita che viene da Gesù.

Nei secoli successivi, dall’esilio fini al Nuovo Testamento, la Nuova Profezia fece sempre capolino e in modo vario e si manifestò nei racconti popolari (Rut, Ester, Giuditta, Giona), nella letteratura sapienziale (Cantico dei Cantici, Ecclesiaste e in alcuni brani dei Proverbi, Ecclesiastico e Sapienza), nelle celebrazioni e pellegrinaggi (molti Salmi) , nel movimento apocalittico (Daniele). La Nuova Profezia riappare confermata e realizzata in e da Gesù che, come i discepoli e le discepole di Isaia, si presenta come servo di Dio e del popolo.

 

V- La nuova profezia, realizzata in Gesù e per Gesù


La nuova esperienza di Dio

L’esperienza di Dio come Padre è la radice della coscienza che Gesù aveva di se stesso, della sua missione e dell’annuncio che faceva del Regno. Gesù arrivò ad identificarsi in tutto con la volontà di Dio: “Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me” (Gv 12,50). “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 4,34). Per questo egli è la rivelazione del Padre: “Chi vede me vede il Padre!” (Gv 14,9). Non fu facile. Visse momenti difficili nei quali gridò: “Allontana da me questo calice!” (Mc 14,36). Ma ci vinse con la preghiera (Lc 22,41-44). Come dice la lettera agli Ebrei: “Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte!” (Eb 5,7). Pur essendo Figlio di Dio, doveva imparare, tuttavia, l’obbedienza dalle cose che patì (Eb 5,8). Per questo, divenne per noi rivelazione e manifestazione di Dio.

L’obbedienza di Gesù non è disciplinare, ma profetica, rivelatrice del Padre. Gli diede occhi nuovi per percepire la presenza del Regno in mezzo al popolo. Il Regno era già in mezzo a loro, ma nessuno lo percepiva (Lc 17,20-21). Come i discepoli di Isaia, Gesù lo percepì e lo rivelò (Mt 16,1-3). Egli vide che il tempo era maturo e i campi pronti per la mietitura (Gv 4,35; cf. Is 40,9; 52,7-8; 62,11).

Per il suo modo di essere e di insegnare, Gesù risvegliava nella gente la forza assopita del Regno che la gente stessa non conosceva o aveva dimenticato. Gesù sbloccò l’accesso alla fonte dentro le persone e l’acqua cominciò a sgorgare (Gv 4,14). Così, molte persone, mediante la fede in Gesù, si aprirono ad una nuova vita. Mentre a Nazaret, a causa dell’incredulità, non operò nulle (Mc 6,5-6). La Buona Novella del Regno era come un fertilizzante che aiutava a far crescere il seme della vita. Il Regno che era nascosto, si manifestò e la gente si rallegrò.

 

Il nuovo modo di lavorare con la gente

 

Come i discepoli di Isaia, Gesù intendeva la missione come servizio: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Per presentare il suo programma alla gente, Gesù usò una espressione del Servo di Dio, annunciato da Isaia (Lc 4,17-18; Is 61,1-2). Sia nel Battesimo che nella Trasfigurazione, la voce del Padre lo confermò nella missione, evocando lo stesso Servo di Dio (Mc 1,11; 9,7; Is 42,1). E gli evangelisti quando descrivono la Passione e la morte, usano frasi che evocano la Passione e la morte del Servo di Isaia (Is 52,1-9).

Come i discepoli di Isaia, Gesù non solo parlava di Dio, ma lo rivelava anche. Comunicava qualcosa di quello che Lui stesso sperimentava e viveva. Ciò che richiama maggiormente l’attenzione è la bontà con cui Gesù accoglieva la gente (Mc 6,34; 8,2; 10,14; Mt 11,28-29). Dio si faceva presente in questo atteggiamento di tenerezza accogliente. Gesù valorizzava le persone e le stimolava ad affermarsi e porre la loro fiducia in loro stesse. Elogiò lo scriba quando riuscì a capire che l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo erano il centro della Legge di Dio e gli dice: “Non sei lontano dal regno di Dio” (Mc 12,34). Incoraggiò Giairo (Mc 5,36), riconobbe l’emorroissa (Mc 5,34), incoraggiò il cieco Bartimeo (Mc 10,49-52) e il padre del ragazzo epilettico (Mc 9,23-24), rivelò il valore, apparentemente insignificante, dell’obolo della vedova (Mc 12,41-44). Il suo atteggiamento, libero e liberante, contagiava i discepoli e li portava a trasgredire norme caduche: coglievano le spighe quando avevano fame, anche in giorno di sabato (Mt 12,1); non si lavavano le mani prima di mangiare (Mc 7,5); entravano nelle case dei peccatori e mangiavano con loro (Mc 2,15-17); non digiunavano, come era abitudine dei giudei (Mc 2,18).

Come i discepoli di Isaia, Gesù aveva uno stile proprio di insegnare. Non appateneva al clero. Era laico. Non aveva studiato alla scuola dei dottori in Gerusalemme. Solo una volta era stato con loro, all’età di dodici anni, in occasione del pellegrinaggio (Lc 2,46). Gesù non assolutizzava il suo pensiero. Sapeva ascoltare l’appello del Padre nelle reazioni delle persone. Così, la reazione della donna Cananea lo aiutò a capire che doveva rivolgere la sua missione ai pagani (Mt 15,21-28). Gesù non imponeva le sue idee in modo autoritario, ma attraverso le parabole provocava la partecipazione della gente. La gente percepiva la differenza e diceva: “Egli insegna come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1,22-27). Fino ad apparire un’ironia! Gli scribi, quando insegnavano, ripetevano frasi delle autorità, ma non avevano autorità per la gente. Gesù, che mai menzionò autorità alcuna, parlava con autorità! Il clero dell’epoca aveva solo potere, ma non aveva autorità!

 

Ricostruire la comunità, immagine del volto di Dio

Il punto su cui Gesù insiste di più è la ricostruzione della vita comunitaria. L’obiettivo dell’annuncio del Regno è rifare il tessuto delle relazioni umane, ricostruire la comunità, immagine del volto di Dio. Tutto il resto, le leggi, le norme, le immagini, il catechismo, tutto deve essere al servizio di questo valore centrale, espressione della uguaglianza di due amori: verso Dio e verso il prossimo. Questo è il significato del Discorso della Montagna (Mt 5,17-48). Poiché, se Dio è Padre, siamo tutti fratelli e sorelle. La comunità deve essere la manifestazione del volto accogliente e amoroso di Dio, trasformato in Buona Novella per la gente, soprattutto per i poveri.

Al tempo di Gesù, esistevano diversi movimenti che desideravano un nuovo stile di vivere e convivere: gli esseni, i farisei e, in seguito, gli zeloti. Molti di essi formavano comunità di discepoli e avevano i loro missionari (Mt 23,15). Quando andavano in missione, andavano prevenuti. Portavano provviste e denaro per provvedere al proprio sostentamento, perché non si poteva aver fiducia nel cibo della gente che non sempre era ritualmente “puro”. Le norme della purezza rendevano difficile l’accoglienza, la condivisione, la comunione della mensa e l’ospitalità, i quattro pilastri della vita comunitaria dell’epoca.

Contrariamente agli altri missionari, i discepoli e le discepole di Gesù non possono portare nulla, né borsa, né bisaccia, né oro, né argento, né moneta di rame, né denaro, né sandali, né due tuniche, né bastone (Mt 10,9-10; Mc 6,8; Lc 10,4). L’unica cosa che possono portare è la pace (Lc 10,5). Il missionario parte senza niente, perché deve credere che sarà accolto. Il suo atteggiamento provoca nella gente il gesto evangelico dell’ospitalità (Lc 9,4; 10,5-6). Devono dimorare nella prima casa che li accoglie. Non possono andare di casa in casa, ma rimanervi in modo stabile e, in cambio della loro opera missionaria, ricevere il sostentamento, “perché l’operaio è degno della sua mercede” (Lc 10,7). In altri termini, devono integrarsi nella vita e nel lavoro della comunità locale, nel gruppo, e confidare nella condivisione. Non possono portare con sé il proprio cibo, ma devono mangiare quello che la gente offre loro. (Lc 10,7). Ossia, devono accettare la comunione della mensa, e non devono aver paura di perdere la purezza a contatto con la gente. La convivenza fraterna è un valore evangelico che prevale sull’osservanza delle norme rituali. Come impegno speciale, devono praticare l’accoglienza e aver cura degli esclusi: i malati, i posseduti da demoni, i lebbrosi (Lc 10,9; Mt 10,8). Ovvero, devono esercitare la funzione del Go’ êl: accogliere gli esclusi nella comunità e rifare la vita comunitaria del clan.

Quando avranno adempiuto tutte queste esigenze, potranno gridare ai quattro venti: “Il Regno è giunto” (cf. Lc 10,1-12; 9,1-6; Mc 6,7-13; Mt 10,6-16). Perché il Regno non è una dottrina, ma un nuovo modo di vivere e di stare insieme, nato dalla Buona Novella che Gesù ci annuncia che Dio è Padre e tutti siamo fratelli e sorelle. I discepoli di Gesù devono ricreare e consolidare la comunità locale, il gruppo, la “casa”, perché possa essere nuovamente una espressione dell’Alleanza, del Regno, dell’amore di Dio come Padre il quale fa di noi tutti fratelli e sorelle.

 

Conclusione

Tutto questo era e continua ad essere la Nuova Profezia ! Rifare il tessuto delle relazioni umane, ricostruire la comunità, immagine del volto di Dio, del Dio che ci è stato rivelato e annunciato da Gesù di Nazaret. Qualcosa di nuovo sta già nascendo tra la gente, soprattutto tra i poveri, qualcosa che proviene dalla vita, qualcosa che proviene da Dio “Non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56

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