DIALOGO INTERRELIGIOSO COME VIA SPIRITUALE

Pubblicato in Missione Oggi

Dr. Adnane Mokrani, professore presso la Pontificia Università Gregoriana. Ha conseguito due dottorati: in Teologia Islamica e nelle Religioni Comparate presso “Al-Zaytuna University-Tunis” 90/97 e in studi inter-religiosi ed ecumenici presso il “Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica” – PISAI Roma 2000.

Originale in italiano

Parlare troppo di una cosa significherebbe la sua mancanza oppure l’esigenza o l’urgenza della sua presenza. Questo mi sembra valido anche per il dialogo interreligioso. Il vero dialogo dunque comincia quando gli interlocutori non usano più la parola dialogo, il dialogo diventa per loro una seconda natura, un modo d’essere e d’agire che va da sé. Due amici si parlano, non pensano mai che stanno facendo dialogo, sono amici e basta. L’amicizia non significa essere fotocopia uno dell’altro, essendo diversi per natura. Solo gli estranei usano la parola dialogo per sottolineare i confini.

Il dialogo, per me, è un’ontologia divina, umana e cosmica assieme, che ha un significato e ruolo esistenziali. Da questa convinzione il dialogo non è solamente una necessità pragmatica per gestire i rapporti tra diverse comunità, e risolvere i problemi di una convivenza in crisi, questo aspetto è senz’altro importante, ma non è giusto ridurlo ad un dipartimento degli affari esteri religiosi o/e politici. Il dialogo è un modo d’essere e d’agire che abbraccia tutto. Senza l’appoggio di una spiritualità dialogale, che trova la sua espressione giusta nella teologia e nel pensiero religioso in generale, il dialogo rischierebbe di diventare una vetrina diplomatica marginale e superficiale.

Partendo da questa osservazione, il dialogo non è una attività tra altre attività, ma un tipo di religiosità tra altri tipi di religiosità. Ma di che tipo di religione e di religiosità stiamo parlando? Prima di cercare di rispondere a queste domande (forse con altre domande!), cominciamo ad analizzare il senso e il ruolo della religione.

Parto da una presupposizione: il ruolo della religione è di darci l’ultimo significato del mondo e di noi stessi, e di darci il motivo per scegliere e agire nella luce di questo significato. Non sostengo che solamente la religione possiede il monopolio del significato e della motivazione. Ci sono forme laiche di pensiero che cercano di sfidare o sostituire le forme tradizionali della religione che si possono considerare come pseudo-religioni oppure religioni tout court (solo) nel senso ampio del termine, finché assumono quasi questo ruolo religioso, come produttori del significato.

Insisto, in questo contesto, su l’unità dei diversi aspetti della religione: l’intenzione e l’azione, l’interiorità e l’esteriorità, l’esperienza religiosa e la sua espressione filosofica, teologica, artistica, morale, sociale, politica ecc… Questa unità chiede un certo equilibrio e scambio tra queste dimensioni. Un pensiero teologico, per esempio, distaccato dall’esperienza spirituale, rischia d’essere un linguaggio di potere e dominio.

Si può chiedere giustamente:

- Quali tipi di religiosità permettono un vero dialogo?

- Quando una religione o un tipo di religiosità diventa un ostacolo?

Partendo dalla mia esperienza e dalla mia comprensione del ruolo della religione, sostengo che il principale ostacolo è l’egoismo, in altre parole il rifiuto, la paura dell’altro e la voglia di dominarlo, la chiusura nei confini dell’ego, e l’imprigionamento nella particolarità. In questo senso l’egoismo è antireligioso per definizione, è semplicemente satanico. La prima parola pronunciata da Ibls (Satana) quando Dio gli ha chiesto perché avesse rifiutato di prostrarsi davanti a Adamo è stata: Io, “Io, sono migliore di lui, hai creato me di fuoco, mentre hai creato lui di fango”. Corano (7: 12), (38: 76). Il primo peccato è il razzismo.

Il ruolo iniziale della religione dunque, secondo questa considerazione, è di liberarci dall’ego individuale e dall’ego collettivo. Si parla spesso del primo e raramente del secondo:

  1. Primo, perché le religioni hanno in genere condannato l’egoismo individuale, ma essendo costruttrici di comunità, hanno rinforzato, volendolo o no, il comunitarismo, o quello che chiamiamo oggi il tribalismo planetario. Quando una comunità cessa di essere uno spazio di crescita spirituale e diventa un assoluto in sé si trasforma in una tribù, una prigione per la persona.

  2. Secondo, perché l’egoismo collettivo è nascosto dietro un pesante velo di collettività in cui la responsabilità non è ben chiara. Il subconscio collettivo sa come difendersi con argomenti nazionalisti o religiosi, sa come fare per giustificare ed abbellire il suo razzismo etnico o religioso. L’ultimo è spesso meno nominato e perciò meno condannato.

Il razzismo religioso diventa “rigore”, “fervore” o “zelo” secondo alcuni. In certi ambienti teologici si chiama “esclusivismo” o “tradizionalismo”. Qualche volta è tollerato come forma d’orgoglio tradizionalista e conservatore nelle società antiche, un certo esclusivismo teorico che non si traduce necessariamente in violenza.

Niente è garantito. L’esperienza storica c’insegna che questo esclusivismo detto “moderato” è il contenitore potenziale in cui nasce l’esclusivismo esplosivo. Il passaggio tra loro è come quello dall’intenzione all’azione, dalla pronuncia del verdetto all’esecuzione.

Da un’altra parte, niente è garantito anche con il pluralismo religioso, perché esiste sempre il rischio d’essere esclusivisti con gli esclusivisti, e cadere così in un cerchio vizioso d’azione e contro-azione da cui non si può uscire. E’ semplicemente una contraddizione.

La lotta contro l’esclusivismo come portatore del virus della violenza nazionalista o religiosa, consiste in un lavoro teologico di base accompagnato da un percorso pedagogico e educativo lungo. Questo cambiamento progressivo e lento dipende anche dalla cultura e dalle condizioni socio-economiche. Sappiamo bene che l’ingiustizia sociale, l’occupazione, la fame, il dispotismo, la tortura, la corruzione ecc., sono condizioni non-preferibili per l’apertura e il dialogo, al contrario sono fattori di rivolta e di rifiuto che prendono spesso forme aggressive. Per gli oppressi questa violenza potrebbe essere un atto di sopravvivenza, che rischia, in casi estremi, di trasformarli in oppressori, e così riproducono quello che hanno subito sugli altri.

Generalmente parlando, il dialogo interreligioso non è al centro delle preoccupazioni della gente comune. Una società che soffre di una mancanza pericolosa del dialogo a tutti i livelli: tra stato e società, governo e opposizione, tra i partiti politici, le classe sociali, tra generazioni, tra i membri della famiglia, tra nazionalisti e islamisti, tra i diversi gruppi e tendenze religiose… Davanti a questi nodi, il dialogo interreligioso, che si svolge nelle università e nei centri di studio, non interessa le masse affamate di pane e di libertà. In questo quadro il dialogo non fa parte delle priorità della gente.

Tutto questo non è privo di elementi di verità; l’aspetto sociale e politico è predominante nel tipo di religiosità araba, per esempio. Ma questo non giustifica l’emarginazione del dialogo e l’isolamento della sua gente. Il dialogo, come ho accennato prima, non è parziale ma sistematico, una struttura mentale, uno spirito che soffia e agisce in tutte le parti. Una riforma radicale che non tenga conto dell’importanza del dialogo è destinata al fallimento, a mio parere.

Si può fuggire dal dialogo ecumenico (interno) al dialogo interreligioso perché ci sembra contenere meno implicazioni dottrinali, è più comodo trattare delle persone lontane. Inserire il dialogo nel sistema è una sfida difficilissima.

Una delle forme della particolarità che può essere di ostacolo al dialogo, è la particolarità culturale. Il termine “particolarità” è più neutrale paragonato con l’egoismo, ma ambedue possono impedire l’apertura e l’universalità.

Il viaggio tra Tunisi e Roma dura un’ora circa di volo, ma quello che conta veramente è il viaggio mentale, che ha le proprie misure. La geografia mentale e immaginaria, le case dei nostri sogni e incubi, influiscono decisivamente sul nostro modo d’essere e di comportarsi. Saltare o attraversare i muri dell’immaginario, vale a dire passare dal cristiano immaginario al cristiano concreto (la concretezza rimane comunque relativa), questo atto è il principale obiettivo - secondo me - del nostro pellegrinaggio nel cuore del mondo cattolico.

Il Mediterraneo unisce e separa due mondi diversi. In modo generale (direi un po’ semplicista), i paesi del Maghreb - a causa della geografia e della storia - sono molto vicini alla cultura occidentale, soprattutto l’élite urbana, ma questa cultura è vista spesso nella sua dimensione secolare à la française, in cui l’aspetto religioso è negletto per non dire sospetto. Invece per la gran-maggioranza della gente maghrebina, l’immaginario classico dell’altro (el riconquistador spagnolo e le colon francese), questa immagine è rimasta quasi intatta. Dopo un lungo percorso d’occidentalizzazione, generalmente forzata e superficiale, il rapporto con l’Occidente è rimasto ambiguo: l’Occidente odiato e amato, condannato e glorificato, anti-religioso e cristiano assieme.

La vicinanza geografica o un lungo soggiorno in Occidente non significano necessariamente una conoscenza profonda e comprensiva dell’altro, finché i pregiudizi e le memorie sono fuori della critica. Perciò i pellegrinaggi culturali sono necessari per preparare una nuova generazione dialogante. Il dialogo oggi è un modo basilare per essere universale. Vivere nella presupposizione dell’assenza dell’altro è ormai impossibile.

Un altro ostacolo culturale è l’ampiezza e la ricchezza del patrimonio religioso accumulato da secoli. Le scienze religiose sono un mondo molto ampio, si può consacrare una vita intera all’opera di un teologo o di un esegeta.

Da che parte del cristianesimo può un musulmano cominciare i suoi studi, o viceversa? Esiste una disciplina di Cristianologia omologa a quella d’Islamologia ?

Dove si può studiare tutto questo? Le Università e gli Istituti pontifici sono numerosi, ma da dove possiamo cominciare lo studio del cristianesimo? Anche quelli che hanno tempo per cominciare dall’inizio il percorso accademico: baccalaureato, licenza e dottorato, devono fare scelte precise tra: Storia, Teologia, Studi Biblici, Patristica, Spiritualità, Missiologia, Studi Ecumenici… e nella Teologia, si deve scegliere tra: Dogmatica, Sistematica, Biblica, Patrologia, Cristologia, Pneumologia, Mariologia … basta aprire un Ordo di qualsiasi università pontificia per vedere l’abbondanza delle scelte, da cui nasce una certa perplessità all’inizio, che può essere temporanea, ma rischia qualche volta di causare un rifiuto totale o generare una conoscenza superficiale.

L’ostacolo culturale non si limita alla molteplicità delle discipline, ma si manifesta soprattutto nella differenza di linguaggi e di categorie mentali. Il discorso dogmatico cristiano non è facile, soprattutto nella sua forma filosofica astratta.

Come si fa per capire un tema che sembra difficile per i cristiani stessi? Cosa mi comunica per esempio l’Incarnazione, la Trinità, la Passione, la Crocifissione, la Resurrezione, la Redenzione…?

Tutte queste difficoltà culturali, l’egoismo collettivo e la particolarità paranoica s’incontrano sul piano individuale, nel cuore dell’essere umano. Qui la psicologia ci aiuta a trovare la soluzione ai problemi della sociologia e della cultura.

Si può paragonare la mia esperienza romana ad un uomo che esce da un contrasto di luce ed entra in una camera; all’inizio non vede niente, e progressivamente comincia a distinguere le cose, poi nota che c’è una sedia su cui si può sedere, poi scopre un interruttore per accendere la luce, e così vede un libro interessante accanto alla sedia e comincia a leggerlo… e forse aprirebbe la finestra per scoprire un bellissimo giardino nascosto, e così via…

La scoperta del cristianesimo per me non è un Ordo universitario oppure una bella biblioteca pontificia. Certamente i libri e i corsi sono utili e necessari, ma la cosa più importante è l’incontro umano, l’amicizia. È incredibile e affascinante: incontrare una persona di un continente diverso, una lingua diversa, una cultura diversa, una religione diversa…Tutto sembra diverso e insuperabile; nonostante tutto questo, si può non solo comunicarsi ma anche ritrovarsi l’uno nell’altro, scoprire un’unità trascendente che costituisce il nucleo della nostra umanità e divinità. Prendere il Vangelo o il Catechismo della Chiesa cattolica, e dire: questo è il cristiano, è un modo molto riduttivo e mistificante per conoscere il cristiano. C’è tanta diversità e pluralità nel mondo concreto, non solo tra destra e sinistra, conservatori e riformisti, spirituali e canonici, eretici e ortodossi… ma anche tra persona e persona, tra un paese e l’altro… e così si scopre che dietro la classificazione tradizionale delle religioni, c’è un’altra classificazione di religiosità. Ci sono cristiani che vivono la loro fede in un modo rilevante per me, anzi mi danno una dimensione più profonda e un orizzonte più ampio per la mia esperienza religiosa. Invece ci sono altri che mi fanno ricordare alcuni musulmani polemici ed esclusivisti. Comunque si dialoga e s’impara da tutti, con gli aperti s’impara l’apertura, e con i chiusi s’impara l’arte della pazienza.

Ascoltare pienamente l’altro diverso, anche quando parla in modo abusivo, è un esame decisivo e una sfida importantissima per l’uomo religioso, che mostra concretamente che si è liberato dall’egoismo sia individuale che collettivo, che prende spesso forme molto sfumate per non dire religiose. Il dialogo stesso è un modo ascetico di purificazione interiore. Dialogare è un modo per approfondire la nostra religiosità, se capiamo la religione come scoperta continua dei volti di Dio nel cosmo e nell’uomo.

Nella confraternita al-Shiliyya chiedono a al-murd, il novizio, di distribuire acqua nella moschea. E così a Tunisi nella moschea al-Zaytna per esempio, si vedono persone prestigiose che si inchinano davanti alla gente per offrire un calice d’acqua fresca nei giorni estivi caldi. Questo piccolo gesto è molto significativo per togliere il falso orgoglio. Il servizio è il cuore della missione spirituale che impedisce ogni tendenza imperialistica. E non esiste servizio senza l’umiltà dell’ascolto.

Una delle grandi sfide davanti al dialogo è l’educazione. Come si fa per insegnare obiettivamente la religione dell’altro? Certamente l’obiettività è relativa, forse c’è bisogno di una soggettività positiva, un cristiano non può rappresentare l’Islam ai suoi correligionari, e lo stesso per un musulmano che insegna il cristianesimo, senza un minimo di coinvolgimento e compassione, un certo senso d’adesione o d’identificazione parziale, oserei dire.

Dobbiamo anche essere attenti a non generalizzare le nostre convinzioni, soprattutto quando dichiariamo che le intenzioni sono buone. L’umanità ha conosciuto tanti tipi d’imperialismo umanistico, un imperialismo soft che può sembrare antimperialista, o piuttosto contro la versione hard dell’imperialismo. Il dialogo interreligioso non fa eccezione.

Nel dialogo interreligioso si condanna spesso il pericolo del relativismo, vale a dire la convinzione che ciascuno porta in sé la propria verità, ciò significa che non c’è una Verità assoluta, ma solo delle verità concrete, particolari e private.

Non voglio difendere la filosofia sofistica che annuncia che non c’è verità dietro la retorica. Ma sono consapevole che i nostri contesti, linguaggi, culture… insomma la nostra condizione umana ci limita. La Verità esiste, anzi è unica, ma è plurale nelle sue manifestazioni e concettualizzazioni. Dio è uno in sé, molteplice nei suoi nomi e manifestazioni. Questo c’insegna l’umiltà, l’apertura e la carità ermeneutica. C’è una grande differenza tra il relativismo, la privatizzazione della verità, e l’accettazione della natura pluralistica della verità unica, quest’ultimo atteggiamento stimola il dialogo e la conoscenza reciproca, invece il relativismo appella alla chiusura nel recinto delle piccole verità.



Vorrei darvi due esempi concreti che possano essere ponti di incontro e di comunicazione, partendo sempre dalla mia esperienza. Questi due temi esemplari sono stati per me molto utili e illuminanti per proseguire il mio cammino dialogale:

Il primo ponte è l’Eucaristia. Sembra strano! Si chiede giustamente come un musulmano che non crede nella Crocifissione, la morte e la Resurrezione di Cristo, neanche nella sua divinità, può capire la scenografia eucaristica. C’è un’incompatibilità simbolica e dottrinale, che impedisce alla persona cresciuta nell’immaginario islamico di decifrare il senso che sta dietro la maschera del simbolo, e così di interagire positivamente con la liturgia eucaristica, i simboli diventano semplicemente muti e assurdi. Vediamo qualche esempio:

  1. Nella preghiera islamica non si può mangiare, invece l’Eucaristia è basata sul simbolismo del cibo.

  2. Il vino è vietato nell’Islam, invece nell’Eucaristia il vino si trasforma nel sangue di Gesù Cristo.

  3. Mangiare la carne di una persona è collegato nel simbolismo islamico al peccato di parlarne male in sua assenza (al-ghba).

Sul piano dottrinale, La gran maggioranza dei musulmani, salvo alcune eccezioni oggi, credono che la Crocifissione è negata categoricamente nel Corano, dunque o si crede nel Corano o nella Crocifissione. Davanti a questa contraddizione radicale, sarebbe meglio evitare l’argomento, considerato come tema tabù o una linea rossa da non affrontare.

Nella mia comprensione della religione e del dialogo, non esistono temi tabù da non discutere, soprattutto quando c’è fiducia e amicizia. Non credo che i temi della Crocifissione e della Redenzione siano insuperabili. Quello che li rende così sensibili è il velo della storia e del linguaggio. Ci sono verità che sono “trans-culturali”, sono verità esistenziali che ci spiegano e danno senso alla vita. I temi della sofferenza, la morte, la rinascita spirituale, la speranza… sono temi umani universali, nonostante il linguaggio simbolico usato per esprimerli, anzi sono vite e esperienze al di là della diversità culturale. Capire in questo caso il linguaggio cristiano per un musulmano è possibile.

Altre religioni usano diversi linguaggi per esprimere queste realtà esistenziali. Alcuni Sufi hanno usato il parto di Maria la Vergine come modello di sofferenza redentiva e rinascita spirituale della vera identità umana. La nascita di Gesù Cristo, l’avvento natalizio, ha preso qui una dimensione pasquale di morte e resurrezione. Nello Sciismo, si possono trovare tratti pasquali e redentivi nella morte di al-Husayn il nipote del Profeta Muhammad. A volte i mistici hanno usato un linguaggio erotico per esprimere la comunione e l’unione con Dio.

Non è facile, la questione mi sembra qualche volta più profonda di una differenza di categorie mentali, la questione è psichica, si radica nel subconscio, e i meccanismi della difesa psichica prendono spesso forme sottilissime e indirette.

Mi ricordo, appena arrivato a Roma, ho provato a partecipare alla messa, senza prendere la comunione ma accompagnando la gente mentalmente verso l’Altare. Ad un certo punto, mi è venuta la voglia di vomitare, era una reazione sorprendente per me stesso, mi pensavo più tollerante! Il mio subconscio ha reagito fortemente e fisicamente per conto suo, senza chiedermi nessun permesso. Questo mi aveva impaurito, la scoperta di corridoi e camere nascosti nella propria anima dà un sentimento strano di instabilità e di incontrollabilità. L’anima è in uno stato di ribellione, forse questa è la pazzia. E così la mia nuova avventura dialogale, appena cominciata, rischiava di fallire.

Forse ho bruciato le tappe, la mia voglia di andare velocemente fino al fondo dell’esperienza cristiana ha scatenato dentro di me gli allarmi psichici, anche l’anima ha i propri anticorpi. Forse ho capito in modo troppo carnale e quasi cannibalesco la dottrina della “transustanziazione”. Non lo so, ma in ogni caso ho deciso di non andare più alla messa finché le cose si fossero chiarite.

Dopo alcuni mesi, ho deciso di andare nuovamente alla messa, mi sono ribellato alla mia debolezza, e la voglia di continuare l’avventura era più forte. Durante la comunione, e in modo impensato come la prima volta, ho cominciato a recitare una preghiera islamica, la preghiera abramica, che si recita alla fine di ogni preghiera rituale per invocare la benedizione di Dio su tutti i figli d’Abramo. Non sono io che ho trovato la soluzione, piuttosto il mio io profondo ha trovato il punto d’incontro tra la mia preghiera, la musica che vibra dentro la mia anima, e la preghiera cristiana, l’Eucaristia.

Nel dialogo uno non cambia la sua religione, ma cessa di guardarla nel modo in cui lo faceva prima, la sua religione si trasfigura davanti a suoi occhi, come se l’altro gli avesse prestato nuovi occhi. Perciò i conservatori da tutte le parti temono il dialogo, perché, nel loro parere, disturba la tranquillità delle anime e rischia di causare la loro perdita. I rischi esistono certamente, ma la vita stessa è rischio.

Capire e apprezzare il cristianesimo non significa necessariamente essere battezzato. Ma nel mio caso, il cristianesimo è diventato ormai una parte della mia formazione e del mio bagaglio culturale, si può dire anche della mia identità, se capiamo l’identità come percorso evolutivo complesso, che abbraccia quello che abbiamo ereditato e quello che facciamo e acquistiamo. Una volta superato il primo choc e presa familiarità con il nuovo linguaggio e i suoi concetti, si può essere anche creativi in questo spazio simbolico.

Il secondo ponte di comunicazione col Cristianesimo è la sua dimensione liberatrice, concernente la giustizia sociale e la solidarietà con i poveri, gli emarginati e gli oppressi. Questa dimensione rende l’aspetto spirituale più attivo e significativo, soprattutto nei paesi del Sud del mondo. Per questo motivo, la Teologia della Liberazione, la Teologia Nera, la Teologia della donna ecc… sono state per me molto utili per discernere un discorso cristiano comprensibile.

In questa linea, il concetto della missione dawa prende altre dimensioni, diventa una cooperazione per la realizzazione o l’umanizzazione dell’essere umano e l’umanità. Che cosa vuole Dio da noi, insieme oggi? E che tipo di uomo vogliamo educare? Forse esagero un po’ quando parlo di una missione interreligiosa, questo sembra lontano, ma vedo i suoi segni da oggi, nonostante le catastrofi che ci circondano.

Per salvare la nostra Casa comune, la Barca celeste, è necessario avere il coraggio di fare un passo decisivo, espressivo e comprensivo verso l’altro, come l’altro ci accoglie e c’invita a casa sua.

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:56

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