FORMARE A QUALE LITURGIA?

Pubblicato in Missione Oggi

Il titolo dato a queste pagine può sembrare, a un primo sguardo, ovvio o addirittura superfluo: formare a "quale" liturgia? Credo in­vece che nel momento attuale in cui si trova la liturgia romana, tale domanda abbia un motivo in più a essere riproposta.

Ci troviamo con due forme diverse dell'unico rito romano, due forme con un impianto testuale-rituale diverso e con due sensibilità teologiche diverse, anche se con un retroterra tradizionale comune. Penso ai professori di liturgia nei seminari, ai gruppi di laici che frequentano corsi di liturgia e, in genere, al popolo di Dio che assiste, nel conte­sto attuale, a un differenziarsi delle assemblee celebranti. A 'quale' liturgia formare?

 

1. Quale concetto di liturgia?

Dimensione teologica - dimensione antropologica

C'è una lettura univoca del senso teologico della liturgia? Un noto teologo, Brunero Gherardini, non ha esitato recentemente a critica­re non solo la riforma liturgica ma diverse affermazioni della costitu­zione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (= SC). Egli, però, acco­glie volentieri i principi dottrinali della SC, in particolare i nn. 5-13 sulla natura della sacra liturgia e della sua importanza nella vita della chiesa, arrivando ad affermare che in essi vi troviamo «affermazioni non solo stupende e commoventi, ma da tutti condivise e, tutto sommato, estranee a ogni tipo di contestazione».

Non c’è dubbio che la formazione alla liturgia dovrebbe iniziare dai principi che troviamo esposti nei suddetti numeri della SC, dove la liturgia viene presentata in modo ottimale e condiviso.

Molto sinteticamente, ricordiamo che SC colloca la liturgia nella linea storica della salvezza come suo momento sintetico e come sua attuazione ultima per via sacramentale (SC 5-7). Infatti, il piano eter­no di Dio prevede un’attuazione della salvezza che è insieme storia e mistero. È storia in quanto la salvezza diviene realtà nell’evento Cristo; è mistero in quanto la medesima e unica realtà della salvezza
continua a essere presente e accessibile nel ‘sacramento-plḗrōma di Cristo’ che è la chiesa e, in modo specifico, nei segni sacramentali della liturgia.

La costituzione SC, però, subito dopo il discorso teologico, e in stretto rapporto con esso, parla dell’educazione o formazione litur­gica (nn. 14-20): «È ardente desiderio della madre chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva par­tecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia...» (n. 14). È vero quindi che l’attenzione della SC si indirizza subito verso l’uomo o, meglio, verso l’assemblea cele­brante. Perché?

Possiamo affermare che la liturgia è un mezzo di comunicazione o, meglio, di comunione, e cioè esprime in modo efficace e rende accessibile l’azione salvifica di Dio ed è l’alveo attraverso cui ‘scorre’ la risposta umana di lode, ringraziamento e supplica a Dio. La litur­gia è quindi spazio in cui si verifica l’incontro dell’uomo con Dio e luogo del dialogo di salvezza di Dio con il suo popolo2. Con la sotto­lineatura della dimensione antropologica che ha distinto per diversi decenni la riflessione teologica, l’attenzione si è indirizzata verso l’uomo che è chiamato a entrare nel mistero e verso il contributo che questi apporta nella sua risposta all’azione di Dio. Ciò ha condotto a un esame più attento dei rapporti che intercorrono tra l’uomo e la liturgia, dato che la priorità essenziale della gloria di Dio non può contraddire la priorità esistenziale dell’aspetto salvifico. Affermando la dimensione antropologica della teologia (e conseguentemente della liturgia) non si sostiene che Dio debba sottoporsi al capriccio dell’essere umano, ma semplicemente che la persona scopre Dio nel cammino di ricerca della sua propria identità. Il problema non è ontologico ma metodologico.

Dall’attenzione alla liturgia in se stessa, si è passati all’attenzione all’uomo della liturgia. Durante molto tempo si era data più atten­zione alla liturgia in sé che a coloro che la celebrano. Una maggior attenzione alle scienze umane ha favorito uno spostamento dell’at­tenzione verso l’uomo della liturgia e quindi verso l’assemblea cele­brante. Per evitare ogni possibile ambiguità, bisogna partire da una adeguata visione della liturgia come dialogo salvifico, che implica i due protagonisti e sottolinea, nella dimensione della santificazio­ne, l’azione di Dio e, nella dimensione cultuale, quella dell’uomo: l’uomo santificato rende culto a Dio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della duplice dimensione della liturgia cristiana come

risposta di fede e di amore alle «benedizioni spirituali» di cui il Pa­dre ci fa dono (n. 1083).

2. Formazione all’intelligenza della liturgia

La formazione alla liturgia dovrebbe dare al cristiano le chiavi di lettura indispensabili affinché il suo non sia un celebrare inconsa­pevole. La formazione alla ‘partecipazione attiva’, voluta dal con­cilio, richiede anzitutto la formazione a un’adeguata comprensione o ‘intelligenza’ della liturgia : la partecipazione alla celebrazione liturgica avviene «con una comprensione dei riti e delle preghiere»

 

Quale comprensione? Non basta la conoscenza o comprensione dei principi teologici a cui accennavamo sopra, validi per ogni tipo di tradizione o rito liturgico. Come dice Romano Guardini, «la liturgia non riguarda la conoscenza, ma la realtà». La liturgia si incarna in
una celebrazione, anzi non esiste al di fuori di una celebrazione concreta. L’ingresso nella tradizione simbolica che costituisce ogni sistema cultuale matura attraverso un processo di socializzazione durante il quale si viene iniziati al linguaggio simbolico di una de­terminata comunità. Occorrerà quindi formare al linguaggio di una determinata tradizione liturgica, nel nostro caso quella romana: for­mare alla comprensione dei suoi testi e dei suoi riti. Il rito non è solo una parte integrante del patrimonio ecclesiale, ma la forma stessa della tradizione ecclesiale del mistero della salvezza.

In uno studio recente, il giovane liturgista Juan José Silvestre ha affermato: «La distinzione tra forma ordinaria e forma straordinaria [del rito romano] non presuppone nessuna differenza teologica...». Detto in parole più povere: tra la liturgia anteriore al Vaticano II e quella posteriore allo stesso non c’è nessuna differenza teologica. Se con ciò intendiamo dire che i due ordinamenti liturgici esprimono una stessa fede cattolica, l’affermazione è assolutamente condivisibi­le. Non mi sembra invece che sia questo il senso da dare alla teolo­gia, che viene in genere intesa come la fede che ricerca l’intelligenza o comprensione di ciò in cui crede (fides quaerens intellectum). Se abbiamo presente che la liturgia non è solo ‘oggetto’ della teologia, ma anzitutto fonte, sorgente di teologia, allora ci possiamo domandare – sempre nel rispetto del progresso nella continuità – se i due ordinamenti liturgici o forme celebrative di cui sopra non esprima­no, nell’ambito dell’unica fede cattolica, delle sensibilità teologiche differenti in particolare sul piano antropologico ed ecclesiologico e, quindi, se non rappresentino di fatto un piccolo problema in ordine alla formazione alla liturgia e nell’ambito della pastorale liturgica in genere. A quale ‘comprensione’ della liturgia romana formare?

3. Formazione all’esperienza della liturgia

L’‘intelligenza’ della liturgia, nel senso di intus-legere conduce all’‘esperienza’ della liturgia. In quanto esperienza misterica di in­contro tra il divino e l’umano, la liturgia non è solo ciò che appare. Quanto è percepito è simbolo, segno realissimo di una realtà di incontro tra la Trinità e la persona e/o l’assemblea, attraverso la me­diazione celebrativa della chiesa.

Il Vaticano II afferma che i sacramenti «non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobu­stiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati sacramenti della fede» (SC 59). La sacramentalità deve essere quindi in sintonia sia con la fede ‘creduta’ che con la fede ‘vissuta’. La fede è l’atteg­giamento per cui «l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela” e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui» (Dei Verbum 5).

Il rito in quanto azione simbolica «può dirsi compiuto e perfetto solo quando riesce a ‘mettere insieme’ e a far coincidere il contenuto del segno, l’esperienza del comunicante e quella del destinatario». Nella liturgia Dio ci si dona attraverso la fragilità dei segni sacra­mentali, come nella vita quotidiana si rende presente nei segni della storia e della creazione. Rimane sempre il velo della fede. Solo nel rapporto di un’intensa vita teologale possiamo crescere nella co­noscenza e nell’esperienza delle cose invisibili attraverso le cose visibili.

Bisogna quindi formare a una liturgia che conduca i partecipanti a una vera esperienza spirituale. La liturgia offre sempre una sola e identica proposta celebrativa a tutti i credenti indistintamente, che si ripete nel ciclo annuale della celebrazione del mistero di Cristo, ma la concreta esperienza dei partecipanti è chiamata a percorrere un cammino personalizzato. Il ripetersi delle celebrazioni, anno dopo anno, offre ai fedeli l’opportunità di un continuo e ininter­rotto contatto con i misteri del Signore che ognuno compie con modalità e intensità diverse: «Come una strada corre serpeggiando attorno a un monte, allo scopo di poter raggiungere a poco a poco, in graduale salita, la ripida vetta, così noi dobbiamo ripercorrere su un piano più elevato la stessa via, finché non sia raggiunto il punto finale, Cristo stesso, nostra meta». L’immagine del circolo, usata da Odo Casel, è congruente: nel circolo non si dà né prima né dopo, né più grande né più piccolo; esso ritorna in se stesso e nel contempo è in tensione verso ogni direzione. Le celebrazioni dell’anno liturgico però, pur muovendosi all’interno in forma circolare, non creano un circolo chiuso, ma un circolo ‘a spirale’, ossia un circolo che rimane aperto a nuove e progressive esperienze10. La formazione a una liturgia che diventi esperienza del mistero la si può realizzare nel contesto del ciclo delle celebrazioni dell’anno liturgico.

4. Riflessioni conclusive

Non si può negare che nell’ambito della formazione unitaria dei cristiani, in cui si deve collocare la formazione alla liturgia, quest’ultima rappresenta oggi un’emergenza pastorale in più. Da una parte, abbiamo i documenti della Santa Sede, che giustamente stigmatiz­zano certi modi distorti di celebrare la liturgia sorta dalla riforma voluta dal concilio Vaticano II; dall’altra parte, abbiamo due forme celebrative dell’unico rito romano. Come districarsi in questa situa­zione?

Anzitutto bisognerà dare una formazione che non contrapponga le due diverse forme rituali, ma cerchi di mettere in rilievo quegli elementi o caratteristiche che emergono dalla comune tradizione romana. Si potrebbe ricordare qui – pur con i dovuti aggiornamen­ti – che, secondo Edmund Bishop, il ‘genio’ della liturgia romana classica è caratterizzato da alcuni elementi formali: la precisione, la sobrietà, la brevità, la scarsa concessione al sentimento, la disposi­zione generale trasparente e lucida, come pure la grandezza misu­rata del suo stile letterario. Questi criteri vengono in qualche modo ripresi da SC 34: «I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni». Questa sobrietà e austera dignità dell’espressio­ne romana contrasta con lo stile più emotivo, lirico e anche prolisso delle liturgie orientali. La giusta richiesta di una maggiore ‘sacralità’ nel celebrare, che proviene da alcuni ambienti, non la si risolve con una ricercatezza nei paramenti, ornamenti, merletti, pizzi e altre suppellettili del culto.

In ogni caso, non si può dimenticare che la formazione alla litur­gia passa attraverso l’azione rituale, nel cui ambito il credente è chiamato a fare una vera esperienza spirituale. Il pensiero postmoderno enfatizza, tra altri aspetti, la soggettività, e cioè la mentalità che fa dell’autorealizzazione il valore principale della vita. Si enfatiz­za la dimensione del ‘cuore’ in contrasto con il momento ‘ecclesia­stico’ - istituzionale. C’è al potere una mentalità che, nel nome della libertà, ha eliminato la forma. Ma la perdita della forma è la perdita della sostanza. L’enfasi data alla soggettività e alla libertà individuale comporta immancabilmente la tendenza all’accantonamento delle varie forme di mediazione che sono l’elemento costitutivo della struttura sacramentale della salvezza e, consequenzialmente, del dato liturgico, per ridurre il tutto a un livello di rapporti ‘diretti’ e individualistici con Dio. Questa visione della religiosità può quindi condurre a un deprezzamento globale della ritualità ecclesiale in quanto il rito ha sempre una dimensione istituzionalizzata e co­munitaria. Il celebrare, come il commemorare (etimologicamente: ricordare insieme), è proprio della comunità, del gruppo (cfr. Lu­men gentium 10). «Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della chiesa...» (SC 26). Romano Guardini afferma: «Un comportamento veramente liturgico è possibile solo se si pos­siede una coscienza vigile e piena della chiesa, e sfuma non appena il concetto di chiesa si dissolve nell’individualismo oppure decade a formazione con finalità pedagogiche».

In ogni caso, non ci si deve scordare che la liturgia è celebrazione del mistero, ma non pretende di sostituire il mistero, che resta sempre ‘accessibile’ solo attraverso la fede. Perciò la formazione alla liturgia richiederà sempre la formazione a una fede forte e matura,

che conduca a «sentire cum ecclesia orante».

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:39

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