CARITÀ E GIUSTIZIA NELLA SOCIETÀ COMPLESSA: DIRITTI UMANI, STATO SOCIALE E SOLIDARIETÀ CIVILE

Pubblicato in Missione Oggi

GIUSEPPE ANZANI

 Magistrato di Cassazione.
Presidente di Sezione del Tribunale di Milano.
Collabora con il giornale “AVVENIRE”. È membro del Comitato Etico dell’Istituto Scientifico “E. Medea” di Bosisio Parini.
Collaboratore della CEI e del Sinodo diocesano di Milano.

 

La giustizia è un’esigenza affermata e condivisa universalmente e teorizzata da tutte le dottrine filosofiche, giuridiche e politiche. Ma alla concordia del pensiero degli uomini su questo fondamento ultimo di ogni sistema sociale risponde l’esperienza concreta e desolata dell’ingiustizia che domina il mondo, annidata nelle vicende individuali e consolidata nei macro - sistemi della convivenza umana.

L’analisi delle situazioni di ingiustizia convince che, in larga misura, essa è il frutto di comportamenti relazionali modificabili, legati all’intuizione della “persona umana”, della sua dignità, dei suoi diritti, rico­nosciuti o ignorati o rinnegati, non meno che alle risposte prescelte in concreto per realizzarli.

Lo scarto fra teoria e prassi incomincia dal dogma dell’uguaglianza, contraddetto dall’esperienza di un mondo di disuguali.

La proclamazione dei diritti umani, così feconda di “Carte” negli ul­timi 50 anni, è un risveglio della ragione di fronte alla modalità selvaggia con cui si regolano spontaneamente i rapporti fra uomini e fra popoli; ma la sfida del mondo all’ingiustizia non è la proclamazione, ma la realizzazione dei diritti umani.

Gli Stati moderni hanno intrapreso questo intento con strumenti legislativi e di governo, volti a rimontare le disuguaglianze, a influenzare il mercato e l’economia, a provvedere ai bisogni, a equilibrare i conflitti, ad aiutare l’autonoma espressione dei diritti dei singoli, delle categorie più deboli; è nata l’immagine dello “Stato sociale”, che interviene nel gioco dei rapporti interumani col peso della sua autorità e con l’apparato delle sue risorse.

Ma poiché nessun diritto di nessun uomo può realizzarsi se non trova il gesto concreto di un altro uomo a soddisfarlo (e reciprocamente, a catena, in una rete relazionale che prende il nome di solidarietà), lo schema dello Stato sociale entra in crisi quando ci si avvede che l’uomo non è un catalogo di bisogni, e che la relazione perso­nale non è sostituibile con la relazione burocratica.

Le antinomie dei sistemi assistenziali poggiati sulla sola forza della legge sono forse insolubili, specie in un periodo di crisi della legalità e di riemergere degli egoismi: la giustizia non è un teorema, ma una virtù, non è il ri­sultato di una coercizione, ma il frutto di una tensione etica. Una concezione quantitativa del “dovere giuridico” assolto porrà sempre frontiere insufficienti alla solidarietà, se si intende che il bisogno dell’uomo non è soltanto di

cibo e di casa, di salute e d’istruzione e di lavoro e d’altre cento numerabili “cose”, ma è infine il bisogno di amo­re. Solidarietà è “prendersi cura”, umanamente, dell’uomo. La sola giustizia del “neminem ledere” ci consegna alla solitudine; la solidarietà è trattare l’altro come un altro me stesso.

Chi sceglie di vivere secondo questo stile di vita incontra orizzonti illimitati, come illimitata è la sollecitudine dell’amore. La traduzione dei propositi nell’impegno della vita può incamminarsi nell’infinita raggiera del disagio umano: a partire da ciò che affligge il corpo (sostentamento fisico, handicap, malattia), a ciò che affligge la psiche (handicap psichico, difficoltà relazionali di tipo individuale, familiare, sociale), fino a ciò che fa soffrire l’uomo nel più profondo del suo essere (perdita di senso, devianza, distruttività); sulle orme delle iniziative che il volontariato sociale ha intrapreso, e di quelle altre che l’inventiva sapienza dell’amore continuamente discopre, esplorando tut­te le marginalità e le “diversità” sociali.

Senza l’utopia di sopprimere dalla terra degli uomini il mistero della sofferenza e del dolore, ma adoperan­dosi perché la cura della sofferenza e del dolore, in partecipata condivisione, riscatti il senso e la dignità di ogni vita.

IL BISOGNO DELLA GIUSTIZIA

Non c’é nulla di così profondo, radicato, universale, come l’idea di giustizia. Un’esigenza insopprimibile, che ha la stessa semplicità del vero, del bene, dell’essere; un bisogno connaturato agli esseri umani, al loro pensa­re e sentire, alle ragioni dell’intelligenza e a quelle del cuore. La saggezza greca ne ebbe intuizione, quando ne fe­ce “criterio di armonia di tutte le virtù” (Platone). Le più antiche dottrine politico – sociali la posero come “fun­damentun regnorum”. E oggi nulla é così concordemente affermato: senza giustizia sono vane le leggi, é precario il rapporto sociale, e soprattutto la vita stessa dell’uomo non trova risposta al quesito sul finalismo o la casualità dell’esistenza. Senza giustizia, senza una “giustizia ultima”, almeno, la nostra realtà intera annegherebbe in un irre­parabile assurdo.

Ma che cosa significa “giustizia”? Nel corso della storia gli uomini hanno continuamente annotato e memo­rizzato infinite regole di comportamento sociale, e le hanno chiamate “leggi”.

Tavole e codici, zeppi di precetti e di divieti; palazzi grigi di pietra, chiamati Palazzi di giustizia, con la gran­de scritta che “la legge è uguale per tutti”, ricchi e poveri, deboli e potenti, ladri di polli e i ladri di mazzette; e simboli scolpiti, in forma di bilancia e di spada, a significare da un lato l’equilibrio e l’uguaglianza, dall’altro la mi­naccia di pubblico castigo ai trasgressori.

Rimane peraltro uno scarto fra il mondo della legge e il bisogno di giustizia. In primo luogo, ciò che sta scritto nei codici serve empiricamente ad evitare che i conflitti si risolvano con la prepotenza, ciascuno a farsi ra­gione da sè, perciò quel che è conforme alla legge si può chiamare “legale”, quel che è conforme alla regola si può chiamare “regolare”. Ma il giusto (cioè quel che è conforme alla giustizia) dov’ è?

In secondo luogo, occorre correggere un diffuso concetto riduttivo, a proposito della legge e dei suoi com­piti in rapporto al bisogno di giustizia. Non si tratta soltanto di frenare le prepotenze, di vendicare i torti, di repri­mere le devianze; si tratta di promuovere i diritti umani, di proteggerli e di svilupparli in modo positivo, di liberare le potenzialità umane, di aiutare la crescita integrale della personalità di ciascuno.

In terzo luogo, non bisogna dimenticare che gli “atti di giustizia” non sono confinati agli indirizzi delle case della legge; la giustizia abita per le strade del mondo, e vi trova casa o ne è cacciata randagia, secondo che gli uomini l’abbracciano o la respingono. E’ strano come l’uomo si accorga del valore (e del problema) di un bene così essenziale solo quando gli manca, quando patisce la sua violazione e deve cercare un rimedio. Accade, per la giustizia così intesa, un poco quel che accade per la libertà, non vi è una “esperienza” di giustizia più di quanto non vi sia un’esperienza di libertà. La libertà più profonda è quella che si vive non in modo riflesso (sulla ricogni­zione dei confini di ciò che ci è possibile) ma in modo primario, allo stesso modo che il respirare, il sorridere, il cantare, l’essere amici. Noi ci accorgiamo della libertà quando ci viene negata o minacciata, quando ci viene a mancare. Similmente, noi ci accorgiamo del valore “giustizia” quando l’esperienza dell’ingiustizia ci brucia sulla

pelle o nel cuore. Questo significa che la giustizia non è solo faccenda di norme, ma di vita; dire la giustizia spet­ta alle norme, fare la giustizia all’uomo.

I DIRITTI UMANI

Le norme intese a realizzare la giustizia nel mondo hanno avuto una straordinaria fioritura nell’epoca mo­derna, con ampiezza di orizzonte e profondità di contenuto quali nessuna civiltà del passato riuscì a concepire. Prendiamo ad esempio la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Essa traccia un cammino “giuridico” alla giustizia di singolare bellez­za. Il mondo era appena uscito dalla più spaventosa tragedia della storia, la guerra che aveva conosciuto l’olocausto e l’ecatombe nucleare.

L’uomo pareva aver smarrito il senso della sua stessa natura. Ma riflettendo appunto sul diritto naturale, che precede ogni legge scritta, ogni ordinamento, ogni regime, ogni ideologia, gli Stati del mondo riaffermarono “la fede nella dignità e nel valore della persona umana e ne proclamarono i diritti fondamentali.

Dopo il 1948, le Dichiarazioni di Diritti si sono moltiplicate.

La ricchezza culturale di questo fenomeno non sta nell’affinarsi della scienza giuridica; sta nell’esplosione della coscienza comune sulla dignità della persona umana e sul bisogno di libertà non soltanto in negativo (a non patire violenza o costrizione, o emarginazione), ma ancor più in positivo: libertà di esprimersi, di partecipare, di realizzare in pienezza il proprio progetto umano; di accedere ai beni della Terra, e averne soddisfatti i bisogni del­la vita. E’ venuto finalmente a brillare il principio che la giustizia non si identifica con l’assenza di un male, ma con la realizzazione di un bene.

Sono passati i decenni, il mondo è cambiato, il progresso è diventato l’insegna e il vanto della nuova Terra. Ma i diritti umani? In teoria, sì, sono valori condivisi e indiscussi; ma il traguardo che pareva raggiunto sembra ancora un approdo lontano. Lo scopo dichiarato di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” non ha impedito di contare altre 150 guerre guerreggiate. E conflitti sanguinosi, e tensioni, e ingiustizie, e oppressioni so­no ancora di casa fra noi. La condizione in cui vive il mondo sembra essere quella di una generalizzata pratica di molte ingiustizie, al punto che l’esser giusti pare una irraggiungibile anomalia.

L’esperienza ci mette quotidianamente sotto gli occhi la concretezza delle molte ingiustizie che incontriamo. Sono il segno della contraddizione che insidia l’ascesa dell’uomo, il suo “progresso” anche più vistose, e più co­centi, ora che l’uomo, col progredire della civiltà, si sente sempre più in grado di padroneggiare la Terra. E’ vero, la possiede: la possiede nel senso che potrebbe mandarla in pezzi cento volte, con l’energia dell’atomo premendo un pulsante; però non riesce a sfamare i suoi abitatori e ne lascia a milioni alla morte per fame. Sa frugare gli spazi stellari, ma non riesce a capire se stesso; ha trovato il segreto per accendere la vita nella provetta del laboratorio, ma strappa dal grembo quella che la natura vi ha fatto sbocciare, sa tenere in scacco la malattia del corpo, tra­piantare organi, ingannare la morte, ma è tentato di valutare la vita al suo tramonto come un ingombro. L’ascesa dell’uomo è piena di contraddizioni: la più pungente è l’illusione di diventare padrone della vita, mentre perde il senso e le ragioni della vita.

Dove sono i giusti? Abramo stentava a trovarne nella città antica, abbastanza da contarne sulle dita, Dante ne faceva presenti un paio, nella sua Firenze medievale; oggi, nel cuore del progresso civile, nel paesaggio delle metropoli assiepate come formicai, un romanziere moderno va cercando “l’ultimo dei giusti”.

Come si risolve, dunque, questa contraddizione? Ci si deve rassegnare, ognuno cercando di vivere meglio che può, come se la vita fosse il gioco dei quattro cantoni, con i furbi al riparo negli angoli e gli sventurati nel mez­zo?

Finché venga il turno della rivolta dei miserabili, a farsi giustizia con le proprie mani?

Ci accorgiamo che realizzare la giustizia è una sfida che provoca l’uomo a trovar le strade che conducono a quel difficile traguardo che esige insieme l’impegno dell’intelligenza, quello della volontà, quello della condotta coerente.

UN’IPOTESI DI GIUSTIZIA: L’EGUAGLIANZA

Nel cercare una risposta antagonista alla pratica dell’ingiustizia, la prima strada privilegiata in cui hanno confidato gli uomini è la strada della legge di eguaglianza. Vale a dire se si riesce a scrivere sulle tavole un criterio di comportamento giusto (la regola) e lo si impone a tutti in egual modo (l’uniformità) si otterrà un equilibrio in cui i diritti di ciascuno avranno pari tutela.

Questa intuizione della regola uniforme postula il principio di eguaglianza: la legge è uguale per tutti, tutti so­no uguali davanti alla legge. C’è una grande, indubbia saggezza, nel principio di eguaglianza: non solo perché pa­reggia i diritti, impedendo che alcuni se ne arroghino di maggiori, in nome della forza, della ricchezza, del potere, a scapito degli altri, non solo perché sopprime i privilegi e la loro scontata iniquità, ma soprattutto perché apre la mente dell’uomo all’intuizione che ogni altro uomo è in rapporto di “parità” e di “reciprocità”. Se si sviluppa in profondo questa intuizione, si raggiunge un’esperienza psicologica che aiuta a superare l’istintivo egoismo totaliz­zante dello stadio infantile della coscienza.

Mi spiego: ciascun uomo avverte di essere un “io”, e la centralità di questa autocoscienza dà un’emozione senza eguale. L’unicità e l’irripetibilità di questo ”essere”, la sua importanza per il soggetto, rispetto ad ogni altra realtà, che è appunto qualcosa di “altro” (una specie di “resto” dell’universo) é un’emozione sulla quale si può costruire facilmente il concetto dei diritti (i “miei” diritti). Ma è impossibile costruire, e persino immaginare, il con­cetto di giustizia, finché non si scopre che l’altro, l’altro uomo, è anche lui un “io”. Cioè, egli è per lui quello che io sono per me. Fino a quando si percepisce l’io in solitudine, ciascuno si può illudere di essere un assoluto. Invece la giustizia è rapporto, esattamente come la vita è dialogo; e l’io non vive se non si apre al “tu”.

Mi ha sempre incuriosito il modo con cui il bambino si imbatte con il concetto di giustizia per la prima volta; questo non gli accade quando tutto l’universo attorno a lui è unicamente suo (nutrimento, carezze, cure). Gli ac­cade quando un altro, un fratellino, viene a spartire cure, carezze, nutrimento: viene a spartire con lui, alla pari, l’importanza dell’essere. Il concetto di giustizia nasce in modo conflittuale: se l’altro è semplicemente un “non - io” può essere percepito come un concorrente ostile; allora la giustizia del rapporto postula una regola uniforme che viene intuita come formula di pacificazione del conflitto.

Ma ciò che fa la differenza fra una regola subita con rassegnazione (perché limita il mio desiderio) e una re­gola abbracciata con gioia (perché lo armonizza col desiderio dell’altro) è il capire, il capire a fondo col cuore che l’altro è un identico essere umano, esattamente come me. E quando si riesce a pensare all’altro come qualcu­no che ha dentro di sé questa “unica” preziosa essenza, non si può non amarlo, come si ama se stesso.

Sembra una cosa banale, ovvia; eppure ha la profondità di un mistero. É in questo senso che intendo la pedagogia dell’uguaglianza: la giustizia incomincia quando l’altro è con me.

OLTRE L’EGUAGLIANZA, LA SOLIDARIETÀ

Ma non così è stata intesa l’eguaglianza degli uomini davanti alla legge. Più sbrigativamente, si è detto che la vita ci mette in corsa tutti, con le stesse regole, e dunque con le stesse chances.

L’equilibrio si raggiungerebbe da sé, basta “lasciar fare”; successo e sconfitta copierebbero lo schema ra­gione - torto, o persino virtù - vizio.

Si tratta di un umore culturale che periodicamente ritorna in auge e che fatalmente si scontra con il suo limi­te, dato dal divario fra la teoria e la realtà concreta. Perché in realtà gli uomini non sono affatto uguali.

Siamo abituati a proclamare la verità formale che gli uomini nascono liberi ed uguali. Ed è verissimo, se in­tendiamo che tutti hanno l’identica dignità, i medesimi diritti. Ma se questo vuole significare che la giustizia è trat­tare tutti alla stessa maniera, accettando come sufficiente il principio di libertà e di eguaglianza formale, ci intrap­poliamo in una mistificazione.

Siamo diseguali, è stolto negarlo. Non è la stessa cosa nascere sano e nascere storpio, trovarsi in una fami­glia felice o in un contesto senza amore, nella ricchezza o nello stento: non è la stessa cosa la sazietà e la fame, il lavoro o la disoccupazione, la doppia casa o lo sfratto, l’istruzione e l’analfabetismo. Là dove la condizione uma

na è diseguale, la regola dell’uguaglianza teorica, che dà a ciascuno lo stesso, rappresenta una giustizia appros­simata, che può rivelarsi come la conservazione della disparità e conduce in vicoli ciechi di rafforzata ingiustizia. Forse è per questo che un puro criterio di pari libertà fa diventare i Paesi ricchi sempre più ricchi e i poveri sem­pre più poveri.

Alcune diseguaglianze sono un dato di fatto originario, ineluttabile, che appartiene agli enigmi della condi­zione umana, al mistero della sofferenza e del dolore (come l’handicap, la malattia). Altre sono il frutto del com­portamento stesso degli uomini, come il solco che divide la ricchezza di gaudenti minoranze dalla miseria di ster­minate moltitudini. Se “lasciamo fare“ in nome del dogma egualitario, la giustizia anziché approssimarsi si allonta­na. L’eguaglianza delle regole favorisce la forbice della diversità.

Viene da pensare, dunque, che la giustizia non è un teorema da scrivere o da proclamare, ma piuttosto un obiettivo da raggiungere con l’azione. Fare giustizia significa che la giustizia è appunto qualcosa da “fare”.

Il mondo della legge, in effetti, si preoccupa di correggere il puro criterio egualitario. Ad esempio, nel mon­do del lavoro, la legge non accetta lo schema teorico di considerare questo campo dell’esperienza umana alla stregua di un “libero mercato delle braccia” a condizioni neutre; è molto diversa la “sofferenza”, poniamo, di chi rischia che rimanga temporaneamente incolta una parte dei suoi latifondi se le braccia altrui si rifiutano ad un sala­rio di fame, rispetto a quella di chi vedrebbe i suoi bambini alla fame se la fabbrica fa la serrata contro uno scio­pero.

È molto diversa la condizione di chi ha il problema di far fruttare i suoi molti appartamenti sul mercato delle locazioni, rispetto alla condizione di chi cerca un buco per metter su famiglia e non lo trova.

Ma gli esempi si possono moltiplicare. È vastissimo il campo della legislazione dove il principio di pura ugua­glianza è abbandonato come inadatto, e sostituito da un principio che chiamerei “di equalizzazione delle situazioni sperequate”. La legge aggiusta il tiro, insomma: non è più “a ciascuno lo stesso”, la giustizia diventa “ a ciascuno il suo”.

Che cosa vuol dire “a ciascuno il suo”? C’è una norma, nella Costituzione italiana, che traccia una specie di programma; “ rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Siamo al trapasso tra l’ideale dello Stato liberale ottocentesco, gendarme dei diritti astratti, e l’ideale dello Stato democratico che interviene positivamente a promuovere i diritti umani concreti. E di fatto, oggi lo Stato in­terviene a tutto campo nell’economia, prende a suo carico determinati oneri sociali, nazionalizza alcuni servizi, le­gifera per un’equa redistribuzione dei redditi, e in genere manifesta la tendenza ad inserirsi profondamente nella vita economica e sociale.

ASSISTENZIALISMO E RIFLUSSO

Orientati all’ideale del benessere, al welfare state, ci si è spinti infine a teorizzare un modello di “sicurezza sociale”, copiato in parte dall’esperienza di alcuni Paesi del nord-Europa. Il motto che “il cittadino ha diritto al benessere, e lo Stato glielo assicura dalla culla alla bara” rappresenta il culmine di questa teorizzazione. È venuto prepotentemente alla ribalta lo schema dello Stato

onnipresente: il panorama assistenziale pubblico si è dilatato. Si è moltiplicata l’attenzione ai bisogni, e ci si è pro­posti di appagarli, di soddisfarli, di corrispondervi, in un contesto di cultura dei diritti, forte di enunciazioni teo­riche. Il proposito contenuto nell’art. 38 della Costituzione, fondato sul diritto all’assistenza, si è precisato in formule assicurative e previdenziali, calandosi poi nella specificazione minuta dei bisogni affrontati e delle provvi­denze disposte, fino a disegnare una cornice sistematica, teorizzata nella formula felice della sicurezza sociale.

Di volta in volta, dunque, sono affiorati i capitoli dei bisogni umani non saturati; quelli generali (la vita, la sa­lute, il lavoro, l’istruzione, la casa, il salario, la pensione ecc.) e quelli specifici, o per così dire “categoriali”: i biso­gni dell’infanzia e della vecchiaia, della minorazione fisica e della malattia mentale, delle crisi familiari, della riedu­cazione dei devianti, del recupero dei drogati e così via. In un primo periodo lo Stato ha costruito una griglia mol­teplice di strutture dedicate all’assistenza, spesso con funzioni e competenze sovrapposte: lo Stato s’è dato veste

di assistente sociale primario e tuttofare, accentrando i compiti e confidando nelle sue capacità organizzative e ri­solutive.

Contemporaneamente ha preso l’avvio una legislazione, in settori pur diversi da quello specifico dell’assistenza, disseminata di norme occasionali di carattere assistenziale. Ciò ha interessato il settore del lavoro e della previdenza (terreno privilegiato di una pioggia ininterrotta di norme protettive, spesso non ben coordinate in un piano organico e costante); della casa e dell’edilizia residenziale (e non sono estranee allo scopo assistenzia­le talune norme sulla locazione e sugli sfratti); della scuola (a partire dagli asili nido, fino agli insegnanti di sostegno per i disabili); della famiglia (consultori familiari); della sanità (servizio sanitario nazionale, disciplina contributiva e dei ticket); della devianza (riforma dell’ordinamento penitenziario, affidamento in prova, reinserimento sociale); della tossicodipendenza (presidi assistenziali, comunità terapeutiche); dei minori (adozione e affido); e via discor­rendo. La varietà del quadro si è enormemente arricchita con l’inclusione dei programmi di assistenza regionali e comunali, dopo il D.P.R. 24.7.1977 n. 616.

La sintesi ideale di questa tensione normativa può esprimersi così di fronte all’astratto egualitarismo di ma­trice illuministica; in una tendenza “equalizzatrice” rispetto agli spontanei squilibri che la diversità di condizione ge­nera nel corpo sociale. A trarre fuori dal disagio le condizioni umane sottoprotette è stato adoperato lo strumento giuridico del privilegio compensativo. Nella pratica, poi, lo specifico risultato assistenziale è stato cercato con lo schema concentrativo delle “istituzioni” pubbliche e gli Enti e le sigle hanno cominciato a pullulare.

Ma una volta compreso che la giustizia non é “dare a tutti la stessa cosa”, bensì “dare a ciascuno il suo”, diviene evidente che quel dare deve tradursi in gesti e azioni, e gesti e azioni non possono appartenere ad altri che a persone fisiche determinate.

Si parla di continuo di compiti delle istituzioni, ma non si deve dimenticare che le istituzioni, in sé, sono co­struzioni concettuali, e che in rerum natura non esistono che “uomini”, non esistiamo che noi, i nostri gesti, le no­stre azioni.

Nei decenni trascorsi, si é tentata la formula di un onnipresente “Stato sociale”, totalizzando nelle sue mani l’intero progetto assistenziale. Oggi viviamo il disincanto e la delusione: oggi brucia la polemica sull’assistenzialismo e le sue ambiguità, sugli aspetti negativi di insufficienza e di velleità, per ipotizzare una diversa soluzione, o una soluzione più integrata. Oggi sappiamo, in primo luogo, che l’assistenza non è primariamente un problema di organizzazione e neppure soltanto di risorse, ma un problema di qualità umane di chi vi si dedica, e un problema di motivazioni profonde. L’assistenza può essere una selva di sigle e di Enti, ma assomigliare a un deserto, se chi varca quella soglia (che può essere un ospedale o un ambulatorio per il malato, una scuola, un consultorio, un ufficio di assistenza, un Ente case, un ufficio di collocamento, un tribunale) è ricevuto come una “pratica da sbrigare” da parte del funzionario addetto, anziché essere accolto semplicemente come un essere u­mano. Il suo dialogo, fisicamente, non è con l’Ente, ma con l’uomo che sta di là dello sportello e della scrivania. A nulla gioverebbe un’efficienza senza cuore, se non a innescare un curioso gioco antagonista, fra una ressa di queruli postulanti incontentabili e un’amministrazione infastidita che deve “sbrigarli”.

Per questo lo Stato assistenziale va riflettendo, oggi, sulle avvisaglie del suo fallimento. La relazione assi­stenziale, fra uomini, non può essere meramente burocratica. E’ illusorio trasferire in tale campo in modo mecca­nicistico il principio che ha trasformato la società moderna in un enorme casellario di “funzioni” dove l’uomo è i­dentificato dal “ruolo” soltanto, che ne connota il “mestiere”, e ne livella la fisionomia. Se il mestiere (e l’orario, e il salario) è l’unica motivazione per la quale un uomo si occupa di un altro uomo, il risultato massimo che si può sperare sarà l’efficientismo. Neppur facile a raggiungersi, se ci guardiamo attorno con una minima spregiudicatez­za.

Ma quand’anche si raggiungesse un’efficienza perfetta il problema umano non è risolto. Il problema della sanità non è la malattia, ma il malato; il problema della terza età non è l’ospizio perfetto, ma l’anziano; si può con­tinuare. Vi sono organizzazioni perfette entro le quali l’uomo può sentirsi morire.

UNA STRADA DIVERSA: LA CIVILTA’ DELL’AMORE

La via della giustizia ha in realtà un altro percorso: quello che non corre verso l’oggetto (il bisogno), ma verso il soggetto (l’uomo). Chi è l’altro? L’altro è, per lui, quel che “io” sono per me. E’ un altro me stesso. Questa intuizione è il complemento della stessa autocoscienza soggettiva, che si fa consapevole della sua identità e della sua capacità relazionale quando si apre al dialogo con un “tu”. Questa dimensione psicologica dell’eguaglianza, che coglie in ogni altro uomo quel profilo di dignità, di libertà, di diritto, di bisogno d’amore che ciascuno rivendica giustamente a se stesso, tramuta la regola primaria della giustizia “da fare” nella norma del “fa­re agli altri quel che vorresti fosse fatto a te stesso”.

Io credo che metta radice in questo terreno l’impegno di ogni scelta di “volontariato”. Non lo concepisco come una facoltativa stravaganza di anime belle, fuori catalogo. Il catalogo giuridico dei diritti e dei doveri può ben compendiarsi nel principio di solidarietà, pur scritto nella legge umana; e la regola della solidarietà esprimersi sinteticamente, in ogni occasione, con la grande unica norma dell’amore del prossimo. La fioritura di innumerevoli associazioni di volontariato esprime oggi la crescente consapevolezza degli uomini che la costruzione di uno Stato fondato sulla giustizia non dipende dall’ingegneria costituzionale delle riforme, ma da un mutamento culturale co­mune, che sostituisca all’illusoria fiducia nella civiltà tecnologica la speranza nella civiltà dell’amore.

La via della legge conduce solo alle soglie di questo nuovo cammino. Per quanto la parola “amore” non sia sconosciuta ai codici (è contenuta, ad esempio, nella dichiarazione ONU dei diritti del Fanciullo), non è per l’auspicio dei preamboli normativi, né per giuridica costrizione che s’impara ad amare.

Vi sono, nella saggezza accumulata dal pensiero umano, principi accessibili all’intelligenza e al cuore; come il “non fare agli altri quel che non si vorrebbe fosse fatto a se stesso”. Ma il puro adempimento del dovere, alla resa dei conti, non raggiunge la giustizia. Non una giustizia sufficiente, almeno, se la relazione tra gli uomini non s’appaga di essere uno “scambio”(sempre zoppicante, nonostante gli equilibrismi dei giuristi, come la storia insegna, e come la realtà del mondo ci mette sotto gli occhi), ma vuol essere soccorso e dialogo, vicinanza e fraternità solidale, in uno stile di gratuità che esprime la gioiosa libertà di donare.

Illuminante, in questo cammino, è il pensiero di Dio. Un orizzonte puramente terrestre non corona un suffi­ciente umanesimo, perché l’uomo è più grande dell’uomo. L’uomo è immagine di Dio. L’altro, l’altro uomo che io posso istintivamente avvertire come un avversario o un concorrente, con reazioni di paura o di ostilità, l’altro uomo, che io posso intuire come un altro io, superando ostilità e paura, fino a sentirlo compagno e fratello; l’altro uomo, col quale posso decidere di dialogare; l’altro che posso soccorrere; l’altro che posso amare come me stesso; l’altro, infine, rivela che la fonte ultima della sua dignità profonda e inalienabile, che lo fa bersaglio di un amore incondizionato, è il suo essere figlio dell’unico padre.

Le intuizioni che lo spirito umano, con la sua razionalità, appena sfiora, diventano un’onda lunga per chi ha fede in Dio. E nella fede cristiana irrompe un altro mistero illuminante, quello di Dio fattosi uomo. Un Dio che si fa uomo non è più lontano, appartiene alla famiglia umana, è “dei nostri”, insomma. Comune fratello, ha per fratelli noi e tutti gli altri diversi da noi, alla stessa maniera. Scavalcando le lunghe strade delle dottrine giuridiche, socio­logiche e politiche affaticate a definire che cos’è un popolo, e dentro quali confini circola il principio di solidarietà, noi conosciamo immediatamente che siamo popolo perché è Lui, che ci fa popolo.

Non possiamo più separare, allora, gli appartenenti all' in group (i nostri familiari, i nostri amici, i nostri clienti, i nostri concittadini, i nostri connazionali, i nostri corregionali ecc.) dall’out group (gli altri, i diversi, i non nostri); la risposta al quesito su “chi è il mio prossimo” si trova sulla strada di Gerico, dove l’uomo assalito dai la­droni è soccorso dal samaritano,

dall’uomo del tradizionale e odiato out group.

Noi possiamo moltiplicarci come formiche, essere folla e restare estranei. Affollare insieme il deserto delle nostre metropoli, e ignorarci; neppure vederci gli uni gli altri; e continuare l’indifferente e solitario cammino, men­tre il disperato trascina le suole a rintanarsi nel suo cantuccio, o mentre la ragazza è violentata nel sotterraneo del­la metropolitana, o mentre il drogato agonizza di overdose tra i cespugli del giardino pubblico. Paghi nel nostro ri

spetto della legge e di quel che impone e che è già stato assolto, paghi di scansarne i castighi, perché abbiamo soddisfatto l’etica del dovere che ci riguarda.

Quanto conta, per noi, l’altro? Bisognerebbe chiederci quanto conta, per noi, Dio. Ogni creatura umana è immagine di Lui.

Se ci fosse presente l’immagine di Dio nei conflitti della vita quotidiana, la fisionomia dell’uomo muterebbe disegno. Eppure è proprio così: “L’avete fatto a me”, “l’avete negato a me”.

Una solidarietà così intesa, non consente più di chiederci “che cosa mi spetta” di fare? A chi tocca? Tutto mi spetta, tutto mi tocca. Allora si comincia a comprendere perché in molte organizzazioni di volontariato spontaneo affiori uno stile e una motivazione che si nutrono, nel profondo, di un’altra ricchezza sapienziale che quella della legalità. E perché i principi dell’Evangelo siano la via della giustizia, della giustizia diversa da quella dei dottori della legge; la chiave della porta del Regno, come ricorda il cap. 25 del Vangelo di Matteo.

LA SEMPLICITA’ DEL MIRACOLO

Possiamo allora spendere quella grande parola che si chiama carità, in luogo dell’abusata, e frequente­mente divenuta equivoca, solidarietà?

La solidarietà può essere lunga o corta, a seconda dei confini prescelti a definire l ’in group, cioè l’appartenenza. La carità non ha confini.

Le strade della carità sono, per ciò stesso, senza confini, e i percorsi che la carità offre all’impegno concre­to dell’uomo si offrono alle capacità e alla genialità di tutti. Il disagio umano, infatti, incrocia la vita di ciascuno; chi non se ne avvede non ha occhi, chi non se ne cura non ha cuore. C’è il campo infinito del disagio fisico: il pro­blema del sostentamento, non sconosciuto affatto alla società del benessere, che annovera nel suo seno, accanto all’opulenza, legioni di poveri; nella stessa Italia ce ne sono nove milioni. Il problema degli immigrati, dei diversi, degli emarginati. Il problema della malattia, un campo dove l’ospedale non è tutto, dove il volontariato può col­mare le lacune dell’assistenza, non tanto sul versante tecnico, ma umanizzando la vicenda della malattia e del do­lore, collegando la vicinanza con l’amicizia, con la frequentazione domiciliare, con la comune ricerca di un senso al dolore. C’è il campo dell’handicap fisico, dove non basta occuparsi delle barriere architettoniche, se non ci si cura di eliminare le barriere umane. E c’è quello del disagio psichico, oggi misteriosamente esploso, quasi in for­ma epidemica, soprattutto fra i giovani; le difficoltà relazionali, i disturbi della personalità, i conflitti familiari, la paura di vivere o più subdolamente la perdita del senso della vita, lo smarrimento della volontà, il disadattamento, l’incomprensione, il calo di speranza. C’è in una parola, l’infinito elenco della sofferenza del cuore. È questo cu­mulo di dolore che, come una cenere impercettibile che si sedimenta nell’anima, produce una situazione di ingiu­stizia che non si scioglie dentro il mondo della legge, ma anzi - abbandonata a se stessa - prepara rischi di distrut­tività e di devianza. Né le iniziative “istituzionali” appaiono finora in grado di dare risposta ad un siffatto bisogno di giustizia che si impasta con l’opacità culturale della vita vissuta dentro i miti della nostra epoca, dove l’immagine dell’avere sovrasta quella dell’essere. Dentro questo smisurato orizzonte che chiede “attenzione all’uomo” ognu­no, se vuole (ed è puro e semplice dovere di giustizia che lo voglia) può trovare il suo spazio, il suo tempo, il suo gesto di partecipazione sino a farne uno stile di vita, uno stile normalizzato, uno stile di carità.

La vita dei santi (come don Monza) in fondo è fatta così: è semplice; noi rincorriamo un sogno di giustizia attraverso ricorrenti promesse di miracolo economico; loro, i santi, non parlano di miracoli; semplicemente li vi­vono: il miracolo della giustizia è il frutto della carità.

 

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:39

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