“Sono in Debito Verso Tutti”

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La Chiesa considera la missione a servizio del Vangelo come un ‘debito’ verso tutti. Su questo fondamento, l’urgenza dell’annuncio che è innanzi tutto un modo di essere nello stile esigente delle beatitudini. I consacrati, in particolare, sono interpellati in ordine alla povertà evangelica, intesa come una qualità d’essere che si manifesta attraverso il linguaggio efficace di una profezia credibile. Segni tangibili, la “parresia” e la “koinonia”, tra la gente e nella comunità ecclesiale.

Sono in Debito Verso Tutti”

Una povertà credibile per essere Chiesa a servizio del Vangelo

A detta dell’apostolo Paolo, l’annuncio del Vangelo sembra fondarsi sulla consapevolezza d’essere “debitori” verso coloro cui siamo inviati: «Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma» (Rm 1,14-15).

La missione a servizio del Regno è dunque una testimonianza di vita suscitata da un debito contratto con la nostra consacrazione battesimale e religiosa che stimola una continua presa di coscienza, quasi una sfida a rimettersi in gioco ogni giorno: «Il Signore chiama sempre a uscire da se stessi, a condividere con gli altri i beni che abbiamo, cominciando da quello più prezioso che è la fede»[1].

Ciò considerando, cogliamo l’urgenza di rivisitare il mistero stesso della Chiesa, che ostende la sua intima bellezza nella povertà d’essere e d’agire come “debitrice”, avendo ricevuto dal Signore «grazia su grazia» (Gv 1,16), con un preciso mandato: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).

Così compresa, nel circolo perenne della gratuità che alimenta la riconoscenza, la missione della Chiesa e, in essa, di «ogni comunità religiosa come autentica comunità pneumatica del Risorto»[2], è innanzi tutto un modo di essere pregno di autenticità evangelica, nello stile esigente delle beatitudini. La freschezza giovane e schietta di questo stile, ben lontana dall’apatia di una fede stanca e abitudinaria, non può che mettere in moto un radicale interiore “fare del cuore”[3], veicolando atteggiamenti di coerenza e fedeltà, e proponendo con criticità propositiva un più efficace dinamismo dello spirito che dia forza persuasiva all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo.

Certo, si tratta di far fruttificare «con rinnovato stupore di fede»[4] talenti ed energie personali sottratti magari nel tempo alla generosità dell’offerta iniziale, e d’investire con audacia nella «fedeltà creativa» al carisma di fondazione per un rinnovato radicamento del Vangelo nella trama quotidiana della vita[5]: una vera e propria conversione, talvolta faticosa o addirittura dolorosa, ma in fondo liberante e satura di speranza. Soprattutto possibile, se fissata ad una convinta certezza: il Vangelo è la forza di Dio che penetra nella storia e cambia radicalmente il cuore dell’uomo, intercettandolo lì dove si trova.

La povertà evangelica: una qualità d’essere

Senza cedere alla sterilità di toni polemici e graffianti, raccogliendo piuttosto con pacatezza il maturare di un’esperienza di vita religiosa che si nutre della Parola di Dio ruminata e condivisa all’ombra di una Chiesa locale, nell’intrecciarsi fecondo di relazioni familiari con la gente e il territorio, mi sembra di poter individuare, specialmente in ordine ad una vita povera scelta liberamente in forza della sequela Christi, alcuni imperativi indispensabili per essere Chiesa a servizio del Vangelo, ben consapevoli che la povertà è essenziale e imprescindibile qualità d’essere poiché rende credibile la nostra appartenenza a Cristo e l’aver riconosciuto in Lui l’Unico Necessario[6]: «Non accumulate per voi tesori sulla terra […] accumulate invece per voi tesori in cielo […]. Perché dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,19-21).

Essenziale, la solitudine ‘abitata’: un luogo spirituale, ricercato talora anche fisicamente, che ci conduce alla verità di noi stessi: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, …per sapere quello che avevi nel cuore» (Dt 8,2). Il deserto, e in esso la lotta fra le tenebre e la luce, ci libera dall’autosufficienza opulenta e ci abilita a riporre ogni fiducia nella potenza di Dio, sgombrando il cuore dal desiderio di possedere e arraffare avidamente beni materiali, affettivi, intellettuali e persino spirituali. Immersi nell’austera essenzialità del silenzio che ci espropria d’ogni sicurezza, appoggio e attaccamento, e custodendo la cella del cuore con zelo ed afflato nuziale, sperimentiamo che «la solitudine è il crogiolo dell’amore»[7] e che nella ricerca incessante dell’Unico Necessario s’infrange ogni fantasia narcisistica, mentre si dilata la possibilità di amare senza pretese, di «sentire la parola che risuona al di là di tutti i linguaggi» e «divenire voce che comunica il messaggio di Colui che vive nel silenzio»[8].

I ‘segni credibili’ di una vita evangelica autentica

Alimentando «la vita nascosta con Cristo in Dio»[9] senza infingimenti né spiritualismi disincarnati, si testimonia visibilmente la necessità di bandire ogni inutile affanno e di sottrarsi agilmente alle pesantezze della vita senza tergiversare nelle complicazioni di rapporti interpersonali contorti, servili o addirittura interessati ed ipocriti. Anche l’interloquire si semplifica, si fa schietto: «”Sì,sì”, “No,no”» (Mt 5,37), fuori da ogni astuzia e raggiro. L’altro, – il prossimo, il vicino, ma anche il diverso, il lontano – non è più l’estraneo da cui mi devo difendere, ma l’amico che, come me «straniero e pellegrino»[10], cerca squarci di salvezza nel provvisorio del tempo.

In questo dinamismo d’essere ci si allena a cogliere con gratitudine il senso della provvida paternità del Signore tra le pieghe dei giorni e a gettare in lui ogni preoccupazione senza scadere nella banalità della pigrizia e del calcolo. Anzi, via via si acquisisce e si affina il gusto delle cose piccole, fatte e accolte con amore, nella semplicità e nella gioia. Muta in particolare il criterio con cui le si valuta: si apprezza come indispensabile ciò che è efficace, essenziale alla causa del Regno e si ridimensiona come relativo tutto ciò che è accessorio, rifiutando decisamente l’apparenza e il luccichio dell’effimero che abbaglia ma non illumina.

Tra ‘i segni’ tangibili e i valori non commutabili, la necessità di lavorare per guadagnarsi da vivere, rifiutando nettamente il ‘ruolo’ di mendicante o l’alibi del parassita che si trascina in «una vita disordinata, senza fare nulla e in continua agitazione» (2Ts 3,11). La Provvidenza infatti ama andare a braccetto con il nostro lavoro, nel ritmo equilibrato di una quotidianità vissuta con costante spirito di sacrificio, non solo per partecipare all’opera del Creatore e per contribuire al sostentamento della comunità, ma per soccorrere i deboli, «ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!”» (At 20,35). Una gioia e un dovere cui non ci si può sottrarre, neanche con il pretesto di dover attendere esclusivamente alla contemplazione.

Così inteso e vissuto, il lavoro è un impegno vitale e non si riduce ad una pratica burocratica senz’anima, né si corre il rischio di lasciarsi risucchiare dalla frenesia di una routine magmatica che destabilizza fino a far deragliare su percorsi di vera e propria dissipazione fuorviante; le competenze acquisite diventano un’opportunità da condividere, un’opportunità per tutti, e non l’occasione per ostentare una supponenza presuntuosa che snobba chi fa meno o più modestamente.

Anche l’inevitabile tensione pastorale, che Paolo quasi lamenta come «il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2Cor 11,28), nell’ottica della consegna confidente a Dio s’allenta, si ridimensiona, si placa, creando in noi una sorta di ‘zona a traffico limitato’, un angolo di quiete imperturbabile alimentata dalla preghiera, in cui sì, si continua a soffrire con chi soffre e gioire con chi gioisce[11], ma con la certezza pacificante che «tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28).

Poveri, tra la gente: il linguaggio efficace di una profezia credibile

Se così intesa e vissuta la povertà riesce ad essere profezia dei beni futuri, ancor più lo diventa, soprattutto nel contesto della vita religiosa, se rivisitiamo lo stile d’essere e d’agire delle nostre comunità, innestandole in modo più vitale nel territorio in cui operano, tra la gente, in un unico respiro con la Chiesa locale, la sua storia, la sua cultura.

Illuminante al riguardo un episodio della vita di Carlo Carretto. Giunto nel deserto, a contatto con la miseria dei Tuareg, fu quasi tentato – racconta – «di rovesciare il mio camion con le cose europee davanti agli africani: io ho, vi do, prendete poveracci». Ma alla vista di un gruppo di poveri in fila davanti ad un convento di suore per prendere un po’ di zuppa con la gavetta, intuì che il Cristo gli chiedeva di stare lì, accanto al fratello che soffre, a condividerne la sofferenza e il disagio. Così, presa anch’egli una gavetta, si mise in fila con gli altri, considerando in cuore come «Non è solo importante fare per loro, ma essere come loro»[12].

 Una comunità, qualunque sia il suo carisma, se s’innesta in un territorio, se sposa veramente la causa di un popolo, a qualunque latitudine si trovi, deve innanzi tutto scegliere di mettersi in fila con i suoi poveri. Non basta analizzare e conoscere il contesto culturale e sociale nel quale si opera, non è sufficiente dare con generosità e tradurre la solidarietà in gesti concreti: «occorre essere stati feriti dalla ferita degli altri»[13], patirla, prenderla su di sé. In una situazione di concreta precarietà, in cui ad esempio lo Stato è assente e il territorio in abbandono, una Chiesa veramente povera non può e non deve bussare di soppiatto alle Istituzioni per ricercare “privilegi di casta”, agevolazioni, né ci si può concedere alle scorciatoie del compromesso. Guai a far leva sulla propria capacità d’influenza o sul prestigio dell’istituzione che rappresentiamo per ottenere favori e raccomandazioni. Nel torbido di una simile incongruenza non solo si smentisce la povertà evangelica professata, ma ci si allinea a certi ricchi che «si impadroniscono per primi dei beni comuni, e poiché li hanno occupati prima, li ritengono propri…come se un tale, andando a teatro volesse impedirne l’ingresso agli altri, pretendendo che debba appartenere a lui soltanto quello che è a disposizione di tutti»[14].

Scrive in proposito Bartolomeo Sorge: «Il prestigio, la forza il potere sono stati sempre uno schermo per la testimonianza della Chiesa nel mondo. La forza trasformatrice del Vangelo risplende nella debolezza e nell’umile povertà dei santi, veri cristiani, che non hanno esitato a mettere in discussione certi criteri umani, ai quali troppo spesso si ispirano gli stessi uomini di Chiesa»[15].

La miseria e l’ingiustizia si affrontano dal basso, con i poveri. Innanzi tutto con la “parresia” – parola franca audace e libera – di un annuncio che talora può esprimersi sotto forma di denuncia costruttiva e propositiva, fugando la paura di perdere consensi. Chi è veramente povero non teme l’impopolarità né retrocede codardamente di fronte al male. Lo affronta con dignità e rasserenante fiducia: «Il Signore è il mio pastore […] Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (Sal 22, 1.4).

Denunciare però non basta, anzi talvolta è preferibile e più proficuo che si attivino strategie concrete di sviluppo possibile suscitando un agire operoso, carico di dignità, tra la gente che amiamo e serviamo, tra quei poveri che – non dimentichiamolo! - sono sempre con noi[16], lì a pungolare la nostra credibilità.

Ci riferiamo in particolar modo alla fantasia di una carità intelligente e progettuale, ben lontana dall’assistenzialismo senz’ali che atrofizza energie e sotterra talenti. Ma consideriamo anche, anzi prioritariamente, che «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace»[17].

 Poveri, nella comunità ecclesiale: la sfida di una koinonia possibile tra i diversi carismi

Appartenendo inseparabilmente alla vita della Chiesa[18], una comunità religiosa, «assicurata la fedeltà alla missione e alle opere proprie»[19] ben vigilando sull’insidia di un’autoreferenzialità mortifera, non può limitarsi a restare ai margini della Chiesa locale in cui vive, prega e lavora, né sottrarsi al confronto e alla reciprocità con gli altri carismi, in particolar modo congregazionali, specie lì dove la compresenza di vari Istituti suggerisce una fattiva integrazione per offrire risposte pluriformi e unanimi a servizio dell’unità della missione apostolica, garantita dalla chiesa particolare[20].

Se comunione e dialogo con le varie componenti ecclesiali sono un’opportunità di reciproco arricchimento e di una più incisiva efficacia nella missione[21], la condivisione dei beni, soprattutto spirituali, – sentiamola come provocazione! – resta però un obiettivo importante da raggiungere, superando gli steccati degli interessi individuali e di gruppo. Non è forse ai piedi degli apostoli che ciascuno deponeva i propri beni perché nessuno fosse nell’indigenza[22]? Ma chiediamoci: tale condivisione è realmente ipotizzabile? Se sì, in che modo? Forse, come la stessa comunità primitiva, per mentalizzarsi, di più, per educarsi anche alla condivisione dei beni, sarebbe opportuno lasciarsi plasmare, e per certi aspetti anche convertire, dall’icona biblica del Cristo che depone le vesti e lava i piedi dei discepoli, chiosando: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14). Nel catino dell’umile amore in cui ognuno si fa servo di tutti, la povertà di ciascuno è condivisa e diventa bene comune, “koinonia” che annuncia la Buona Novella: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno […]. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» (At 2,44-47).

Perciò, allo specchio terso della stessa povertà di Cristo, «Non dite: “Ho perduto tutto!. Dite piuttosto: “Ho tutto guadagnato!” Non dite: “Mi si prende tutto!”. Dite piuttosto: “Ricevo tutto”. […] Disinteressatevi della vostra vita, perché è ricchezza preoccuparsene così tanto, allora la vecchiaia vi parlerà della nascita, e la morte vi parlerà di resurrezione; il tempo vi sembrerà una piccola piega sulla grande eternità, e voi giudicherete tutte le cose secondo le loro tracce eterne»[23].

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Sr Rossana Leone
Comunità Monastica Diocesana “Sorelle di Gesù”
Piccolo Eremo delle Querce
C.da Crochi snc
Tel 0964.80409
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.www.piccoloeremodellequerce.it

 

 

 

 

 

[1]          GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missio, 49.

[2]          CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Congregavit nos in unum Christi amor, 58.

[3]          Cfr. C. M.MARTINI, Che cosa dobbiamo fare? Meditazioni sul Vangelo di Matteo, Piemme, Casale Monferrato 20023, p. 24.

[4]          GIOVANNI PAOLO II, Tertio millennio adveniente, 32.

[5]          Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata, 37 (d’ora in poi VC).

[6]          Cfr. Lc 10,42.

[7]          D. VASSE, Uno sguardo umano: dall’isolamento alla solitudine, in AA.VV., La solitudine: grazia o maledizione?, Qiqajon, Magnano 2001, p. 25.

[8]          G. VANNUCCI, Pellegrino dell’Assoluto, Cens, Milano 1985, p. 91.

[9]          Cfr. Col 3,3.

[10]         Cfr. 1Pt 2,11.

[11]         Cfr. Rm 12,15.

[12]         P. RICCI SINDONI, Carlo Carretto. Al di là delle cose, in Horeb. Tracce di Spiritualità 1 (1996), p. 37.

[13]         ABBÉ PIERRE, Confessioni, Queriniana, Brescia 2003, p. 14.

[14]         SAN BASILIO MAGNO, Hom. In illud LucaeDestruam horrea mea” 2 (PG 31,263).

[15]         B. SORGE, Uscire dal tempio, Marietti, Genova 1989, p. 174.

[16]         Cfr. Mt 26,11.

[17]         BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 9.

[18]         Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, 44.

[19]         Sinodo dei Vescovi, Instrumentum laboris, La Vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo (20 giugno 1994), 78.

[20]         Ibidem.

[21]         Cfr. VC 74.

[22]         Cfr. At 4,34-35.

[23]         Stralcio di un testo poetico di Madeleine Delbrêl citato da A.M.SICARI, Laici e consigli evangelici, OCD, Rodengo Saiano 1999, p. 104.

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