La pastorale giovanile alla luce dell’Evangelii Gaudium

Pubblicato in Missione Oggi

 “Si è sempre fatto così…”:
ma lo Spirito apre strade nuove

Nel momento in cui cerchiamo di individuare quali sono le caratteristiche principali della nostra società, la dimensione del cambiamento è certamente una delle più evidenti. Il cambiamento, che prima era una “azione” o una “scelta”, sembra essere diventato un “modo di essere”. La società liquida, così accuratamente descritta da Zygmunt Bauman, non ha forma. L’essere costantemente in uno stato di cambiamento sembra in qualche modo connaturato alla sua identità. Inevitabilmente, una situazione di questo tipo è in profondo contrasto con tutto ciò che la precede. Si può facilmente percepire il graduale indebolimento di tutto ciò che suona “istituzionale”, l’assenza di una logica formata e informata da una scala di valori oggettivi. Chiunque faccia parte di questa società trovandosi equipaggiato solo di strumenti e codici sociali precedenti, si sentirà improvvisamente straniero nello stesso luogo fisico che prima era casa sua.

1. QUESTA È LA NOSTRA CASA

Si è scritto molto su questo tema della transizione e del cambiamento. Io vorrei riprendere alcuni punti che Christopher Dawson propone nel suo libro La crisi dell’educazione occidentale[1]. Questa riflessione di Dawson, sebbene sia stata scritta più di mezzo secolo fa, tratteggia un’anatomia del cambiamento che ha ancora qualcosa da dirci al giorno d’oggi. Partendo dalla sua esperienza di fede come cattolico, Dawson offre delle intuizioni che contengono tuttora una forza profetica. Comincia descrivendo la natura della sfida.

La vera minaccia per il cristianesimo ed anche per il futuro della cultura occidentale […] non è l’ostilità razionale di una minoranza determinata, ma l’esistenza di una grande massa d’opinione che non è anti-religiosa, ma agnostica, così che non è più conscia di nessun bisogno spirituale che il cristianesimo possa appagare. […] Qual è la spiegazione a questo cambiamento? Io credo che esso sia dovuto soprattutto al carattere artificiale della cultura moderna, che è dissimile da qualsiasi altra cosa abbiano sperimentato le età precedenti. La nostra cultura moderna laica è una specie di prodotto cresciuto in serra. Da una parte l’uomo è riparato dall’urto diretto con la realtà, mentre dall’altra è soggetto a una pressione crescente che favorisce il conformismo sociale. Egli ha raramente da pensare a se stesso o da prendere decisioni vitali. Tutta la sua vita viene trascorsa in seno a unità artificiali, altamente organizzate – fabbrica, sindacato, ufficio, servizio militare, partito – ed il suo successo od il suo fallimento dipende dai suoi rapporti con queste organizzazioni. Se la Chiesa fosse una di queste organizzazioni obbligatorie, l’uomo moderno sarebbe religioso, ma poiché essa è volontaria e chiede all’uomo solo il suo tempo libero, è considerata superflua e non necessaria.

Quella che Dawson propone è prima di tutto un’analisi libera da ogni pessimismo o fatalismo. È una spiegazione che contiene un’analisi ma anche il bisogno di guardarsi intorno e identificare le scelte da fare in questo nuovo territorio. Si fa riferimento alla natura artificiale della cultura odierna, chiamata “prodotto cresciuto in serra”, dove le persone danno l’impressione di essere libere e autonome, ma in realtà portano dentro di sé un senso di solitudine profondamente sentito e radicato – una situazione che sta diventando sempre più familiare. Viviamo in una società dove siamo considerati più come clienti che come persone. In questa connessione sempre più virtuale, in realtà ci sentiamo piuttosto dei soggetti “solitari”. Se c’è un denominatore comune che in qualche modo definisce il far parte di questa società, è l’indifferenza. Possiamo perfino dire che tale dimensione è diventata sistemica, trasversale, per cui non c’è realtà sociale che sfugga alle sue tenebre.

Infatti l’indifferenza contemporanea verso la religione è accompagnata dall’indifferenza verso altre cose che sono necessarie al bene della società. È un’attitudine essenzialmente negativa che implica l’assenza di qualsiasi dinamica sociale che non sia causata dalla spinta provocata dall’interesse del singolo individuo. È una specie di vuoto spirituale, che non può produrre alcun frutto culturale.

Se questi sono alcuni degli aspetti della nostra nuova casa, Dawson tenta di definire dei punti fermi che aiutano ad abitare questo territorio nuovo.

Il primo è la convinzione della propria fede. Non appare particolarmente suggestivo, ma è senza dubbio essenziale e assai più impegnativo di quanto possa inizialmente sembrare.

Il secondo è la capacità pastorale di catturare e coltivare spazi di convergenza tra una comunità credente e una indifferente. Ciò che è essenziale non è soltanto il desiderio e la determinazione, ma soprattutto l’impegno, la contemplazione, lo studio, la riflessione e l’ascolto delle nostre radici, così come di quei fiumi sotterranei che si trovano nascosti nel cuore di ogni persona nella nostra società, la nostra nuova casa.

a. Convinzione della propria fede

Come ai tempi della prima comunità apostolica, anche oggi il potere della testimonianza è più cruciale che mai. Una vita coerente, in cui la fede viene proclamata attraverso gesti e azioni prima ancora di essere trasmessa con le parole, rimane l’espressione più potente e incisiva di una comunità credente. A questo proposito Dawson scrive:

Dal punto di vista cristiano non vi è molto da scegliere quando vi sono da una parte l’agnosticismo o l’indifferentismo passivo e dall’altra il materialismo attivo. In effetti, ambedue possono rappresentare sintomi o fasi diverse dello stesso morbo spirituale. Ciò che è vitale è ripristinare le basi morali e spirituali dalle quali dipende l’esistenza sia dell’individuo che della cultura: aprire gli occhi all’uomo medio sul fatto che la religione non è un’invenzione di carattere pio che non ha niente a che fare con gli avvenimenti della vita, ma che ha a che fare invece con la realtà, che è in effetti la strada verso la realtà, e la legge di vita. Questo non è un compito facile, poiché una cultura completamente secolarizzata è un mondo di finzione nel quale i personaggi cinematografici e i cartoni animati appaiono più reali dei personaggi del Vangelo.

Entrare nel cuore della sfida significa capire che «è vitale è ripristinare le basi morali e spirituali». La forza della buona novella è resa evidente solo se diventa un’esperienza, una proposta, che irradia luce nel tempo e nella storia. La stessa riflessione di Papa Francesco, che riprendeva le parole di Papa Benedetto – «La Chiesa cresce per attrazione, l’attrazione della testimonianza che ognuno di noi dà al Popolo di Dio» (Cattedrale di San Rufino, Assisi, venerdì 4 ottobre 2013) – viene così espressa da Dawson:

Finché la Chiesa cattolica sarà libera di condurre la propria vita e di dimostrare con la sua condotta ed il suo insegnamento le verità per cui è stata creata, essa dovrà riuscire ad influenzare la società, anche se la cultura di quest’ultima si è secolarizzata. Ma se l’abisso che separa la Chiesa dalla cultura laica si allarga a tal punto che non può più esservi mezzo di comunicazione o possibilità di comprensione scambievole tra loro, allora si profila il pericolo che il sentimento nei riguardi della Chiesa possa essere di repulsione piuttosto che di attrazione.

Attrazione che trova le sue radici in una vita che è di per sé un messaggio, una vita che crescendo è capace di rispondere alle domande di senso e nel farlo integra queste stesse domande in un processo vitale nutrito dalla fede in Cristo. Una fede che ha familiarità con l’ignoto e alimenta empatia e compassione. Ricordando la Lettera a Diogneto, possiamo prenderne in prestito l’idea e dire che i credenti trascorrono i loro giorni sulla terra, ma sono cittadini del cielo; obbediscono alla legge, ma vivono a un livello che la trascende[2].

b. Coltivare spazi di convergenza

Il secondo punto invita i credenti a coniugare un approccio verso l’interno – ad intra – con un approccio verso l’esterno – ad extra: il tempo e la storia, insieme alla politica e la cultura, hanno grande significato nel processo di incarnazione di una fede abbracciata con gioia e vissuta con coerenza. L’esperienza di fede non è esperienza di esclusività o peggio ancora di isolamento. La fede in Gesù Cristo è una chiamata ad “andare e fare discepoli tutti i popoli” (cfr. Mt 28,19). Questo avviene solo se, come giustamente sottolinea Dawson, ci rendiamo conto che non c’è sempre un legame inscindibile tra la pratica religiosa e lo sviluppo di una cultura in cui si respiri lo spirito cristiano:

Di conseguenza non basta che i cattolici mantengano un livello alto di pratica religiosa in seno alla propria comunità; è anche necessario che essi costruiscano un ponte di comprensione verso la cultura laica e che facciano da interpreti della fede cristiana per la parte del mondo che non appartiene alla Chiesa. Questo lavoro non è limitato ad una attività missionaria ed a una propaganda religiosa nel vero senso della parola. È un’azione che compete a tutti i cattolici ed in special modo a tutti i cattolici provvisti di una cultura. Noi osserviamo che in passato, specialmente sul Continente nel XIX secolo, la secolarizzazione della cultura occidentale non fu imputabile al clero o agli ordini religiosi che compivano bene il proprio lavoro, ma al fallimento ed all’atteggiamento passivo dei laici cattolici i quali lasciarono andare alla deriva il problema riguardante il cristianesimo ed abbandonarono il campo dell’istruzione superiore ai fautori del laicismo.

È precisamente qui che incontriamo una delle sfide centrali per la pastorale giovanile, sfida di cui dobbiamo diventare pratici. Il ministero con i giovani richiede l’arte sottile di ascoltare la loro storia, che spesso inizia nell’ambito di una testimonianza cristiana legata alla parte più profonda del loro cuore – un cuore che, una volta vivo, desidera andare avanti. Camminare insieme ai giovani, riconoscere il loro desiderio di essere accolti e ascoltati non è un mero esercizio di pura simpatia, bensì una chiamata all’empatia, a stare vicino a loro, a cogliere la loro ricerca interiore di un senso che sia autentico e duraturo. Si tratta di un’esperienza empatica pastoralmente intelligente: quell’intus legere capace di cogliere l’aspirazione di un cuore assetato in cerca di senso; quell’intus legere che vede oltre le forme esteriori dell’essere; quell’intus legere che sa come creare un legame onesto, trasparente e compassionevole in grado di superare pregiudizi e idee preconcette.

È questa attitudine pastorale che riesce a promuovere convergenze in cui i giovani non sentono, da un lato, un’invasione dei loro spazi né, dall’altro, di essere dati per scontati. Spazi umani in cui le domande esistenziali più profonde prendono forma, semplice ma non superficiale. Spazi in cui la ricerca di senso viene affrontata con un linguaggio nuovo, talvolta perfino incomprensibile. Spazi di fame e sete del trascendente, che deve essere offerto con profonda umiltà e sempre con atteggiamento di servizio.

Applicando questa logica evangelica alla vita reale, la nostra testimonianza e la conseguente proposta pastorale non sono semplicemente eventi che i giovani gradiscono e consumano. La fede diventa come il fuoco di una fornace che accende nei loro cuori il desiderio di un ascolto più profondo, che li rende liberi di essere sfidati e aperti alla condivisione. È in questa esperienza di pellegrinaggio che spesso viviamo ciò che Dawson ha già descritto:

Pure, per quanto la società moderna possa essere agnostica, priva di cultura spirituale e di consapevolezza dei propri doveri, essa ha veramente un certo rispetto, anche se un po’ nebuloso, per l’istruzione e le sue critiche principali alla ortodossia religiosa sono che il cristianesimo è fuori moda, che la Chiesa assume un atteggiamento reazionario e oscurantistico verso la scienza e la tecnologia moderna e che i cristiani non hanno alcun contatto con il pensiero moderno. Di conseguenza qualsiasi cattolico che sia vivo intellettualmente e nello stesso tempo sia ovviamente convinto della verità della propria religione, dà un colpo terribile alle idee preconcette di chi sostiene tutto ciò.

2. I GIOVANI E LA CHIESA

In questo nuovo scenario è opportuno dire qualche parola sui due attori principali che occupano la scena: i giovani e la Chiesa. Sui giovani abbiamo una letteratura abbondante e variegata. Il quadro che emerge dagli studi degli ultimi vent’anni, oltre a offrirci

informazioni sui giovani, ci invita anche a leggere la loro storia nel più ampio contesto della realtà. Per noi che dedichiamo la nostra attenzione ai giovani con l’animo del buon pastore, la comprensione della loro storia va oltre le dimensioni puramente accademiche e sociologiche. A noi non basta formulare un commento sulla situazione giovanile. Per noi la storia di ogni singolo giovane in questa nuova casa costituisce una chiamata a unirci al suo cammino, come fece Gesù sulla via di Emmaus (cfr. Lc 24,15).

Ci sono alcuni aspetti che ci aiutano a capire meglio la storia dei nostri giovani oggi. La loro è una storia segnata dall’assenza dell’istituzione, di qualunque istituzione intesa come punto di riferimento fisso. Questa assenza ha lasciato spazio alla proliferazione di punti di riferimento legati unicamente alle esigenze personali: non è che queste ultime stanno scomparendo, ma piuttosto che i primi sono cambiati drasticamente e si sono moltiplicati come funghi, creando una serie di sistemi intricati e complessi.

Il giovane oggi è in cerca di appartenenza. Il suo essere orfano con genitori viventi lo ha reso nomade, ma non privo del desiderio di avere una dimora che possa chiamarsi “casa”. Sprovvisto di punti di riferimento stabili, manca di tempi e spazi per stare con se stesso. Il risultato finale è il rischio che il giovane tenti di costruirsi un’identità con i tanti frammenti disponibili, non necessariamente collegati o compatibili. Il tempo viene consumato, ma senza l’opportunità di assaporarlo. Senza casa e senza appartenenze, i giovani sentono l’assenza di adulti che possano aiutarli a gestire la loro esistenza in maniera coerente. La loro è una vita in cui i vari pezzi si mettono insieme a caso e non secondo un progetto.

Questa assenza di visione priva i giovani dell’opportunità di pianificare e progettare il futuro. Senza la prospettiva del “domani”, l’“oggi” non contiene la speranza necessaria per costruire un progetto futuro.

È in questa prospettiva più ampia che dobbiamo vedere la difficoltà con cui la dimensione spirituale e l’esperienza religiosa trovano spazio e si rendono visibili. Senza entrare nell’importantissima distinzione tra lo spirituale e il religioso, dobbiamo riconoscere il fatto che questa generazione, a suo modo, è in cerca dell’esperienza spirituale e non rifiuta affatto qualsiasi esperienza religiosa in maniera categorica. Essendo estranei all’immaginario spirituale e religioso nonché privi del vocabolario corrispondente, i giovani non sono in grado di dare un nome a ciò che stanno cercando.

D’altro canto, per quanto riguarda la Chiesa, il nostro approccio deve per forza essere esteso. In un recente discorso intitolato Crisi e futuro della Chiesa[3], questo è ciò che scrive il cardinale Walter Kasper:

Questa Storia, talvolta, è complicata, ma è anche enormemente confortante. Poiché indica che la Chiesa non si trova solo oggi in difficoltà, ma che si è trovata in difficoltà, per così dire, fin dall’inizio e che ha già superato molte crisi, da cui è uscita, di solito, rafforzata. L’intera Storia della Chiesa è una storia di crisi e Gesù non ha preannunciato niente di diverso ai discepoli: «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!». (Gv 16, 33).

In questo suo acuto commento, Kasper indica tre sfide con cui la Chiesa deve fare i conti. La prima consiste in quelle “difficoltà e crisi concrete, diverse secondo i Paesi”. La seconda è quella di una Chiesa in Europa che “si trova attualmente in una difficile fase storica di transizione”. E la terza è quella che Kasper vede come “la sfida vera e più profonda, nella nostra situazione secolarizzata e pluralistica”: lui la chiama “la questione di Dio”. Sulla stessa lunghezza d’onda di Christopher Dawson, Kasper dice:

Non s’intende solo e neanche, in prima linea, il nuovo ateismo aggressivo, che esiste, ma l’indifferenza verso Dio, l’oscuramento della consapevolezza di Dio e l’apparente assenza di Dio. Molti, nella nostra società, vivono come se Dio non esistesse e pensano, così, di poter vivere benissimo. Oltre a ciò, ce ne sono anche molti, più numerosi di quanto pensiamo, che si definiscono agnostici, ma sono per così dire agnostici devoti che interiormente sono alla ricerca, sono in un certo senso pellegrini, e si trovano, per così dire, nell’atrio dei gentili. Essi non s’interessano alle questioni strutturali interne alla Chiesa, come quelle del celibato, dell’ordinazione delle donne e simili, che attualmente sono di solito gli insider a mettere in primo piano. Essi chiedono se e che cosa la Chiesa abbia da dire sulla questione basilare della loro esistenza, cioè in ultima analisi sulla questione di Dio che indelebilmente è impressa nei cuori degli esseri umani creati a immagine di Dio. Sono convinto che il futuro della Chiesa nelle nostre società dipende da ciò: se siamo o no capaci di rispondere a questa domanda e se non ci pronunciamo solo con la bocca, ma possiamo testimoniare credibilmente anche nella vita.

Qui ci ritroviamo a chiudere il cerchio al punto di partenza: la necessità assoluta di acquisire familiarità con questa nuova dimora, questo territorio sconosciuto, i suoi abitanti e i suoi attori principali. Riprenderemo questo tema dopo aver studiato attentamente dove risiede il cuore della Chiesa, quella stessa Chiesa che, pur portando le cicatrici delle sfide che ha dovuto affrontare, sarà sempre una Chiesa che non smette mai di credere, sperare e amare.

3. I PILASTRI CENTRALI DELL’EVANGELII GAUDIUM

L’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (EG) ci offre la mappa e la strada per questa seconda parte della nostra riflessione. È utile ricordare che qui abbiamo il punto di vista privilegiato della pastorale giovanile. Dobbiamo studiare l’EG tenendo al centro dei nostri cuori e delle nostre menti la profonda convinzione che ogni esperienza di pastorale giovanile è ecclesiale. Dobbiamo resistere alla tentazione di pensare di dover prendere qualcosa dall’EG e portarlo nell’esperienza della pastorale giovanile. Qui non si tratta di portare o aggiungere. La posta in gioco qui è come rafforzare quell’esperienza ecclesiale originale della comunità credente nel cui ambito si svolgono cammini di fede, si fanno scelte di fede, si propongono percorsi di impegno e avviene una crescita di maturazione.

Dando una rapida occhiata ai titoli principali dei cinque capitoli dell’EG, possiamo subito notare un programma pastorale molto preciso. Comincia dalla Chiesa (capitolo 1), come una comunità impegnata nel dialogo con il mondo e alle prese con le sfide che ne conseguono (capitolo 2). L’annuncio del Vangelo (capitolo 3) è una missione che ha necessariamente una forte dimensione sociale (capitolo 4). Infine, la Chiesa assume questa missione riconoscendo che i suoi sforzi sono sostenuti dallo Spirito e sulle orme di Maria (capitolo 5). Chiesa – Vangelo – Società – sotto la guida dello Spirito a immagine di Maria: questa è la sintesi.

a. La Chiesa

Il punto di partenza è la Chiesa. Questo concetto illumina e accompagna tutta la pastorale giovanile. È qui che poggiano le nostre fondamenta. È qui che i nostri piani e progetti trovano la loro raison d’être, solo così aiutano la Chiesa a fiorire e a portare frutti abbondanti.

L’EG presenta la Chiesa come un’esperienza di gioia, di vicinanza, un non essere mai lontani: «L’intimità della Chiesa con Gesù è un’intimità itinerante, e “la comunione si configura essenzialmente come comunione missionaria” (Christifideles laici, 32)» (EG, 23).

Sarebbe un errore enorme per qualunque esperienza di pastorale giovanile se questa concezione di fondo fosse compromessa o presa superficialmente. Uno dei principali pericoli della pastorale giovanile è proprio questa tentazione. Per paura, negligenza o vergogna, o rischiamo di offrire ai giovani eventi e servizi che semplicemente occupano il loro tempo senza un progetto né una visione che possa migliorare la loro vita, oppure proponiamo esperienze spirituali che finiscono per gratificare il loro bisogno di intimità ma non promuovono un cammino di maturazione integrale. Non c’è molto da scegliere tra le due opzioni!

In secondo luogo, non dobbiamo limitarci a dire semplicemente qual è la nostra missione: dobbiamo assicurarci che essa sia tradotta in un processo di conversione pastorale. Non basta parlare di “conversione missionaria” se questo “uscire” non illumina e non orienta tutto il nostro cammino: «Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una “semplice amministrazione” (Documento di Aparecida, 201).Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione” (Ibid., 551)» (EG, 25).

In terzo luogo, la dimensione ecclesiale ha un disperato bisogno di un cuore aperto e intelligente. Andare verso gli altri non è mai un gesto improvvisato o un’azione artificiale. Incontrare gli altri è un’eminente iniziativa di una «Chiesa “in uscita” […] una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza difficoltà» (EG, 46).

Avere una “direzione” e un “obiettivo” nelle esperienze di pastorale giovanile significa anche avere ben chiaro dove si vuole arrivare e quali contenuti bisogna approfondire. Un ministero ecclesiale privo di un percorso chiaro rischia di offrire esperienze pastorali frammentarie, individualistiche, improvvisate, in cui il Vangelo finisce come il seme piantato in un terreno arido e superficiale, lasciato morire.

Infine, la missione ecclesiale invita tutti e ciascuno a mettere al centro il grido dei giovani che nel silenzio della loro esistenza hanno perfino perso la capacità di dare un nome alla loro sofferenza, di esprimere le loro fragili speranze. Dobbiamo dargli attenzione, ascoltarli e accoglierli: «Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37)» (EG, 49).

La chiamata a essere Chiesa è stata magnificamente descritta dal Beato Paolo VI nel suo diario personale, quando ha scritto: «La Chiesa, da amare, servire, sopportare, edificare con tutto il talento, con tutta la dedizione, con inesauribile pazienza e umiltà, ecco ciò che resta da fare sempre, cominciando, ricominciando, finché tutto sia consumato, tutto ottenuto (sarà mai?), finché Egli ritorni». In questa Chiesa Gesù condivide con noi l’intimità del Pellegrino – un’intimità itinerante – che dà vita e forza al processo di conversione, pastorale e missionaria, al quale ciascuno deve necessariamente sottoporsi. Un processo che viene arricchito da un cuore aperto e intelligente, pronto a entrare in sintonia con il grido dei giovani.

b. Una comunità che annuncia il Vangelo

Un aspetto essenziale che è opportuno richiamare è che l’annuncio del Vangelo presuppone la conoscenza sia dei metodi che dell’ambiente culturale, sebbene alla fine li travalichi. Ciò che Papa Francesco descrive come «un “eccesso diagnostico”, che non sempre è accompagnato da proposte risolutive e realmente applicabili», va di pari passo con «uno sguardo puramente sociologico, che abbia la pretesa di abbracciare tutta la realtà con la sua metodologia in una maniera solo ipoteticamente neutra ed asettica» (EG, 50). Questo pericolo è presente ogniqualvolta nella pastorale giovanile manchi un «discernimento evangelico», cioè quello «sguardo del discepolo missionario che “si nutre della luce e della forza dello Spirito Santo” (Pastores dabo vobis, 10)» (EG, 50).

Perciò il secondo punto da sottolineare è che “un discernimento evangelico” deve incontrare il «bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze» (EG, 71). Non è un processo che viene dal nulla; deve essere espressione di uno sforzo comune, va programmato, sostenuto e promosso. Le nostre esperienze pastorali ci insegnano che «nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso, ma che riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il Vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. […] Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane» (EG, 73).

In terzo luogo, dobbiamo anche riconoscere il fatto che pure quando esiste il discernimento evangelico, rimane sempre quella sfida che tocca la profondità del cuore di ogni operatore pastorale. Nella sezione che tratta delle Tentazioni degli operatori pastorali (EG 76-109), troviamo parole che possono e forse dovrebbero costituire la base di un esame di coscienza sulle varie realtà di pastorale giovanile. Questi paragrafi riguardano infatti l’impegno personale e comunitario di ogni persona che si occupa di pastorale giovanile; le tentazioni alludono a sfide che prima sono identificate e riconosciute e meglio possono essere affrontate.

Senza entrare nello specifico dei diversi punti di questa sezione, può essere utile concentrarsi sulle due sfide che rappresentano l’essenza di ciò che deve essere affrontato.

La prima: «Oggi si può riscontrare in molti operatori pastorali, comprese persone consacrate, una preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità» (EG, 78). Parole che mettono a nudo il pericolo costante che si nota in molte realtà di pastorale giovanile, un pericolo che lascia sui giovani un impatto più profondo di qualsiasi altra cosa si possa dire o fare.

La seconda sfida: «la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione» (EG, 78).

Sono parole tanto forti quanto vere. Più raccogliamo la sfida che nasce da questi pericoli, meglio maturiamo come servitori dei giovani. L’ultima frase di questo paragrafo riassume l’intera questione: «Così, si possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore. Sono tre mali che si alimentano l’uno con l’altro» (EG, 78).

c. Il Vangelo nella realtà odierna

I capitoli 3 e 4 dell’EG mostrano un panorama che vorrei presentare come un insieme unico per il seguente motivo: la vera evangelizzazione educa in modo integrale. Il vero annuncio del Vangelo (capitolo 3) ha necessariamente una dimensione sociale (capitolo 4). I punti seguenti propongono una riflessione che evidenzia ulteriormente le dimensioni ecclesiali e comunitarie finora illustrate.

Il primo punto è che proclamare la buona novella è compito di tutti, perché chi appartiene alla comunità dei credenti, cioè «ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione» (EG, 120). La vita del cristiano richiede impegno: «La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati» (Ibid.).

Per la pastorale giovanile questa consapevolezza sgombra il campo da ogni falsa interpretazione che veda questa missione come un qualcosa finalizzato e riservato solo ad alcuni e non per tutti. Annunciare Gesù ai giovani, fare pastorale per loro e con loro, è una missione affidata a tutta la comunità dei credenti.

Il secondo punto riguarda i contenuti. In ogni progetto di pastorale giovanile non può mancare l’attenzione al kerygma, così come a tutti quei processi che incoraggiano e favoriscono la maturità spirituale di cui la libertà di ogni giovane è capace. Non dovremmo avere paura di chiamare questi processi con il loro nome: percorsi mistagogici. Il primo annuncio del Vangelo – «“Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti” […] è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi» (EG, 164). Questo annuncio della buona novella rimane fondamentale. Richiama sempre e ovunque, da un lato, a un atteggiamento di rispetto per la verità ricevuta e, dall’altro, alla libertà di coloro ai quali testimoniamo questa bellezza. In questa delicata fase della pastorale giovanile, ci sono «alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (EG, 165).

L’iniziazione mistagogica, l’attenzione a ciò che sta maturando in molte esperienze di pastorale giovanile, è una missione che ci invita a esaminare il modo in cui questa proposta viene presentata e vissuta. Si tratta di processi sistematici e graduali in cui va curata la dimensione comunitaria per non cadere nel pericolo di uno sterile intimismo spirituale. L’esperienza mistagogica non è un privilegio di pochi ma un invito rivolto a tutti, sebbene possa sussistere la percezione che possono accoglierlo solo pochi scelti.

Un terzo punto che in questo ambito deve essere messo sempre più in rilievo è quello dell’accompagnamento personale. Una solida esperienza di pastorale giovanile deve considerare seriamente come accompagnare i giovani a costruire il loro futuro. L’assenza di questo aspetto, a lungo andare, rende la pastorale giovanile un’esperienza priva di orizzonte, senza futuro. L’arte dell’accompagnamento è un dono a cui gli operatori pastorali devono essere introdotti. Imparare «a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cfr. Es 3,5)» (EG, 169) significa dare al nostro accompagnamento «il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (Ibid.). Questo è un invito, rivolto a tutti gli evangelizzatori ed educatori dei giovani, a lasciarsi guidare dallo spirito missionario diventando così quei «discepoli missionari [che] accompagnano i discepoli missionari» (EG, 173).

Il quarto aspetto è quello della dimensione sociale dell’evangelizzazione. In questa sede non possiamo apprezzare pienamente la ricchezza dell’EG su questo tema, ma è importante sottolineare che questa sezione deve essere studiata e approfondita ulteriormente: essa possiede una forza che può spargere luce su tutti i nostri progetti di pastorale giovanile, sul modo in cui essi sono programmati e possono essere attuati.

Lasciamo che la seguente citazione, riguardante un solo punto in particolare, ci aiuti a completare questa parte. È un appello che Papa Francesco condivide con la Chiesa intera:

«Ora vorrei condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale dell’evangelizzazione precisamente perché, se questa dimensione non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice» (EG, 176).

Sono parole che ci incoraggiano fortemente a impegnarci nell’indispensabile dimensione sociale del kerygma: «nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità» (EG, 177). È nostra responsabilità come operatori di pastorale giovanile non perdere mai la convinzione che «dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e svilupparsi in tutta l’azione evangelizzatrice» (EG, 178). Questo impegno è espressione del fatto che «come la Chiesa è missionaria per natura, così sgorga inevitabilmente da tale natura la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove» (EG, 179).

In questa dimensione sociale dell’evangelizzazione, Papa Francesco indica in particolare due ambiti: l’inclusione sociale dei poveri e il dialogo sociale come contributo alla pace.

Sarebbe sicuramente utile verificare se e come i nostri itinerari di pastorale giovanile offrono ai giovani un’esperienza di fede in cui l’attenzione verso i poveri e i bisognosi sia vissuta, condivisa e al centro delle preghiere, piuttosto che essere semplicemente limitata al livello di attività sporadiche. Lo stesso si può dire riguardo al tema del dialogo.

Bisogna che ci interroghiamo su come le nostre attività di pastorale giovanile aiutino i nostri giovani ad affrontare le sfide che incontrano nei loro crocevia esistenziali, su come li stiamo aiutando a confrontare lo spazio della fede con quello della scienza, della pluri-religiosità, dell’indifferentismo e dell’agnosticismo. In un contesto sociale in cui la fede nella migliore delle ipotesi è una questione privata, siamo tutti chiamati a offrire esperienze di pastorale giovanile in grado di dare significato alla scelta di fede di una persona.

d. Con la forza dello Spirito

A questo punto il Papa sembra chiudere il cerchio della sua riflessione, tornando al punto da cui era partito, come per metterci il sigillo dello Spirito: «Evangelizzatori con Spirito vuol dire evangelizzatori che si aprono senza paura all’azione dello Spirito Santo. A Pentecoste, lo Spirito fa uscire gli Apostoli da se stessi e li trasforma in annunciatori delle grandezze di Dio, che ciascuno incomincia a comprendere nella propria lingua» (EG, 259).

Qui troviamo il nostro orientamento, il nutrimento e la sorgente della nostra speranza che non ci abbandonerà mai. Non c’è dubbio che la pastorale giovanile possa trarre beneficio dalla ricerca, lo studio e una seria riflessione. Siamo tutti convinti che non possiamo evangelizzare in un mondo che rimanga perlopiù come un vicino di casa sconosciuto. Ma se ci limiteremo a questi strumenti, per quanto indispensabili, il nostro percorso avrà vita breve. Già il beato Paolo VI ha indicato questo rischio nell’Evangelii Nuntiandi:

Le tecniche dell’evangelizzazione sono buone, ma neppure le più perfette tra di esse potrebbero sostituire l’azione discreta dello Spirito. Anche la preparazione più raffinata dell’evangelizzatore, non opera nulla senza di lui. Senza di lui la dialettica più convincente è impotente sullo spirito degli uomini. Senza di lui, i più elaborati schemi a base sociologica, o psicologica, si rivelano vuoti e privi di valore.[…] Si può dire che lo Spirito Santo è l’agente principale dell’evangelizzazione: è lui che spinge ad annunziare il Vangelo e che nell’intimo delle coscienze fa accogliere e comprendere la parola della salvezza (cfr. Ad Gentes, 4). Ma si può parimente dire che egli è il termine dell’evangelizzazione: egli solo suscita la nuova creazione, l’umanità nuova a cui l’evangelizzazione deve mirare, con quella unità nella varietà che l’evangelizzazione tende a provocare nella comunità cristiana. Per mezzo di lui il Vangelo penetra nel cuore del mondo, perché egli guida al discernimento dei segni dei tempi – segni di Dio – che l’evangelizzazione discopre e mette in valore nella storia (EN, 75).

Queste parole sono un forte richiamo a non dimenticare mai che «occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività. Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne. La Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera» (EG, 262). Questa solida esperienza spirituale vissuta in maniera coerente ci aiuta a essere sempre più consapevoli che «non si può perseverare in un’evangelizzazione piena di fervore se non si resta convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare la sua Parola, non è la stessa cosa poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, o non poterlo fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione» (EG, 266).

L’esperienza ci insegna che quando non si dà la dovuta importanza a questo concetto basilare, l’evangelizzatore perde quell’autenticità che i giovani percepiscono immediatamente: «una persona che non è convinta, entusiasta, sicura, innamorata, non convince nessuno» (Ibid.).

4. EVANGELII GAUDIUM PORTARE LUCE NELLA PASTORALE GIOVANILE

Nell’ultima parte di questa riflessione, dopo aver parlato della nostra nuova casa con i suoi protagonisti principali, cioè i giovani e la Chiesa, e dopo aver presentato gli elementi centrali che emergono dall’EG, passo a proporre quattro dimensioni che si spera possano illuminare il cammino dell’operatore di pastorale giovanile e dei giovani. Queste quattro dimensioni affondano le loro radici nella EG.

a. Radicati in un’esperienza mistica – Fede

Chiunque sia chiamato a vivere la vocazione del responsabile di pastorale giovanile deve essere misticamente radicato. Su questo solitamente c’è un consenso generale. Eppure, sappiamo anche che il rischio che con il tempo questa identità si indebolisca è concreto. E ciò non avviene in seguito a una precisa decisione in tal senso, ma a causa delle varie forme e modalità che la pastorale assume.

Riferendosi al pericolo della “mondanità spirituale”, Papa Francesco scrive: «La mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale. È quello che il Signore rimproverava ai Farisei: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44). Si tratta di un modo sottile di cercare “i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo” (Fil 2,21). Assume molte forme, a seconda del tipo di persona e della condizione nella quale si insinua. Dal momento che è legata alla ricerca dell’apparenza, non sempre si accompagna con peccati pubblici, e all’esterno tutto appare corretto. Ma se invadesse la Chiesa, “sarebbe infinitamente più disastrosa di qualunque altra mondanità semplicemente morale” (Henry De Lubac, Méditation sue l’église, Paris, 1968, p. 321)» (EG, 93).

Quanto è vero questo!

I giovani sono in cerca di autenticità. A tutti noi chiedono soltanto di essere dei testimoni, così che la loro “sete di autenticità”, come il beato Paolo VI la chiama nell’Evangelii Nuntiandi, possa essere soddisfatta. Le parole di Paolo VI esprimono ancora lo spirito di colui che le ha scritte: «Si ripete spesso, oggi, che il nostro secolo ha sete di autenticità. Soprattutto a proposito dei giovani, si afferma che hanno orrore del fittizio, del falso, e ricercano sopra ogni cosa la verità e la trasparenza. Questi “segni dei tempi” dovrebbero trovarci all’erta. Tacitamente o con alte grida, ma sempre con forza, ci domandano: Credete veramente a quello che annunziate? Vivete quello che credete? Predicate veramente quello che vivete? La testimonianza della vita è divenuta più che mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda della predicazione. Per questo motivo, eccoci responsabili, fino ad un certo punto, della riuscita del Vangelo che proclamiamo» (EN, 76).

Questa riflessione di Paolo VI è profetica, specialmente alla luce di ciò che oggi ci viene chiesto di vivere. Il suo è un appello a tutti noi, che contiene speranza e coraggio: «Il mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente dolorosamente il bisogno, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio, che essi conoscano e che sia a loro familiare, come se vedessero l’Invisibile. Il mondo esige e si aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti e specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza questo contrassegno di santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda» (EN, 76).

b. Visione profetica – Comunità

Nei paragrafi 105-109, Papa Francesco parla espressamente della pastorale giovanile. È bene sottolineare gli elementi principali di questi paragrafi, che contengono una breve sintesi di una pastorale giovanile profetica, prevalentemente caratterizzata dalla dimensione comunitaria.

Prima di tutto, il Papa indica l’urgente bisogno di un ascolto paziente e di un linguaggio adeguato ai giovani: «La pastorale giovanile, così come eravamo abituati a svilupparla, ha sofferto l’urto dei cambiamenti sociali. I giovani, nelle strutture abituali, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, necessità, problematiche e ferite. A noi adulti costa ascoltarli con pazienza, comprendere le loro inquietudini o le loro richieste, e imparare a parlare con loro nel linguaggio che essi comprendono» (EG, 105).

Il secondo elemento profetico è la determinazione a entrare «in sintonia con le loro aspettative e con la ricerca di spiritualità profonda e di un senso di appartenenza più concreto» (Ibid.). Se il profeta è colui che parla in nome di Dio, allora deve coltivare queste capacità e sviluppare un linguaggio che sia sulla stessa lunghezza d’onda dei giovani. Solo così rispondiamo pienamente alla nostra vocazione di educatori ed evangelizzatori, assumendoci l’impegno di far parte della loro storia, aiutandoli nella loro ricerca di senso e nel loro profondo desiderio di appartenenza.

Il profeta non spegne, ma porta la luce. Non chiude, ma apre orizzonti ancora nascosti e inesplorati. Come Chiesa dobbiamo potenziare questi processi che incoraggiano i giovani ad esercitare “un maggiore protagonismo” (EG, 106). Il settore del volontariato deve essere visto sempre più in relazione con altre esperienze pastorali all’interno della Chiesa dove i giovani «partecipano alla vita della Chiesa, danno vita a gruppi di servizio e a diverse iniziative missionarie nelle loro diocesi o in altri luoghi. Che bello che i giovani siano “viandanti della fede” (callejeros de la fe), felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra!» (EG, 106).

Terzo elemento di profezia sono la vita fraterna e le esperienze comunitarie. In una società che porta il marchio dell’individualismo, la comunità credente nella sua quotidiana interazione comunitaria è già di per sé un messaggio. In questo contesto il Papa approfondisce il tema delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Papa Francesco insiste sul bisogno di comunità che siano testimoni di un fervore apostolico tale da diventare contagioso. Solo una vita contraddistinta da relazioni fraterne è capace di attirare e di accendere i cuori dei giovani: è infatti «la vita fraterna e fervorosa della comunità che risveglia il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se tale vivace comunità prega insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di speciale consacrazione» (EG, 107).

c. Empatia pastorale – Esperienza umana

Nella EG la missione di annunciare la buona novella non ha come punto di partenza la nostra risposta alla chiamata di Dio, ma piuttosto il riconoscimento della misericordia che Dio riversa su di noi. È la misericordia di Dio ad avere il primato, tutto il resto viene dopo:

«La salvezza che Dio ci offre è opera della sua misericordia. Non esiste azione umana, per buona che possa essere, che ci faccia meritare un dono così grande. Dio, per pura grazia, ci attrae per unirci a Sé (cfr. Propositio, 4)» (EG, 112).

Nella logica della misericordia, la risposta del credente è una risposta al bene riconosciuto, ricevuto e accolto. Più riconosciamo il dono d’amore di Dio e ci rendiamo conto della sua iniziativa, più cresce il nostro desiderio di vivere e condividere questo dono. Nella EG troviamo una citazione di Papa Benedetto XVI che spiega che «questo principio del primato della grazia dev’essere un faro che illumina costantemente le nostre riflessioni sull’evangelizzazione»: «È importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire – con Lui e in Lui – evangelizzatori[4]» (Ibid.).

Empatia pastorale significa, allora, che ogni operatore si impegna seriamente nel progetto d’amore di Dio per l’umanità. Siamo chiamati a «essere il fermento di Dio in mezzo all’umanità. Vuol dire annunciare e portare la salvezza di Dio in questo nostro mondo, che spesso si perde, che ha bisogno di avere risposte che incoraggino, che diano speranza, che diano nuovo vigore nel cammino. La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (EG, 114).

Su questo aspetto, l’Evangelii Nuntiandi contiene delle intuizioni molto pertinenti. L’empatia pastorale è conseguenza di quell’amore, sentito nel profondo e fatto proprio:

«L’opera dell’evangelizzazione suppone nell’evangelizzatore un amore fraterno sempre crescente verso coloro che egli evangelizza. […] Quale è questa affezione? Ben più di quella di un pedagogo, essa è quella di un padre; e ancor più: quella di una madre. Il Signore attende da ciascun predicatore del Vangelo e da ogni costruttore della Chiesa tale affezione. Un segno d’amore sarà la cura di donare la verità e di introdurre nell’unità. Un segno d’amore sarà parimente dedicarsi senza riserve, né sotterfugi all’annuncio di Gesù Cristo» (EN, 79).

D. Metodologia pastorale – Missione

La quarta e ultima dimensione è quella della metodologia pastorale. Se come accompagnatori dei giovani crediamo fermamente che il loro futuro si forma e matura giorno dopo giorno, questo significa che la nostra proposta non può soffrire di genericità o superficialità. Il nostro non può essere un percorso pastorale caratterizzato dalla mancanza di sinergia o dall’improvvisazione. Chiunque abbia a cuore il futuro dei giovani guarda al momento presente come a quello spazio sacro in cui la vita è chiamata a crescere in fede, speranza e carità mediante un’esperienza comunitaria.

Uno dei principi che sta gradualmente guadagnando terreno è quello di far sì che le nostre proposte di pastorale giovanile siano il frutto di preghiera, riflessione e programmazione. Varie esperienze confermano che ogniqualvolta le equipe di pastorale giovanile si impegnano con umiltà e intelligenza pastorale a studiare i segni dei tempi, ne emergono proposte pastorali che non mancano di identità, non sono generiche e ancor meno improvvisate o individualistiche.

I giovani oggi hanno diritto a un domani dignitoso. Nessuno dovrebbe privarli della speranza, né intenzionalmente né per omissione.

La pastorale giovanile che emerge dalla fornace della fede è alimentata da una catechesi mistagogica e kerigmatica. È una pastorale graduale, che rispetta la storia dei giovani, ma si impegna pienamente anche a far affiorare le domande di senso e il desiderio di trascendenza nascosti nei loro cuori.

Bisogna promuovere una metodologia pastorale che offra e incoraggi processi di crescita attraverso l’accompagnamento personale. Il vero sviluppo integrale dei giovani non avviene da solo, deve essere seguito. I giovani sono in cerca di autentici testimoni capaci di accompagnarli e di aprirgli nuovi orizzonti con saggezza. Sono in cerca di profeti che incarnino in se stessi quel che viene offerto e proposto come cammino.

Insieme a queste due scelte pastorali, non dovremmo mai dimenticare che la parola di Dio è al centro, non semplicemente in forma strumentale o decorativa. La parola di Dio non è un qualcosa da trasmettere, un prodotto da pubblicizzare. La parola di Dio è luce sul nostro cammino, come fu per i discepoli sulla via di Emmaus. La parola di Dio è il pane che quando viene spezzato ci aiuta a ritornare a Gerusalemme. La parola di Dio è il messaggio che sgorga dai nostri cuori a beneficio di tante persone.

CONCLUSIONE

È giusto concludere tornando a ripetere che non dobbiamo mai perdere di vista il cammino della Chiesa. Queste riflessioni mirano a rafforzare il desiderio di ciascuno di noi di continuare a camminare come una comunità credente, come Chiesa. Seguendo il sentiero tracciato in questi anni con tanto impegno e riflessione, raccogliamo i frutti di secoli di amore e dedizione laboriosa. Moltissimi seguaci di Gesù con la loro testimonianza hanno condiviso la luce spirituale che hanno ricevuto. È la luce della fede accolta con gioia e credibilmente tradotta in atti di carità.

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica c’è una frase del Credo che riassume tutto questo: «La Chiesa non ha altra luce che quella di Cristo. Secondo un’immagine cara ai Padri della Chiesa, essa è simile alla luna, la cui luce è tutta riflesso del sole» (CCC, 748).

Abbracciare la bellezza della Chiesa, primo tema della EG, rimane il punto di partenza che prepara l’incontro con l’“Altro” e in seguito con tutti gli “altri”, vicini e lontani. Solo così evitiamo veramente il rischio di cadere in una delle trappole della pastorale: la “autosecolarizzazione”. È un argomento che Papa Benedetto XVI ha trattato in una delle sue riflessioni con i Vescovi brasiliani: «Nei decenni successivi al Concilio Vaticano II, alcuni hanno interpretato l’apertura al mondo non come un’esigenza dell’ardore missionario del Cuore di Cristo, ma come un passaggio alla secolarizzazione, scorgendo in essa alcuni valori di grande spessore cristiano, come l’uguaglianza, la libertà e la solidarietà, e mostrandosi disponibili a fare concessioni e a scoprire campi di cooperazione. Si è così assistito a interventi di alcuni responsabili ecclesiali in dibattiti etici, in risposta alle aspettative dell’opinione pubblica, ma si è smesso di parlare di certe verità fondamentali della fede, come il peccato, la grazia, la vita teologale e i novissimi. Inconsciamente si è caduti nell’autosecolarizzazione di molte comunità ecclesiali; queste, sperando di compiacere quanti erano lontani, hanno visto andare via, defraudati e disillusi, coloro che già vi partecipavano: i nostri contemporanei, quando s’incontrano con noi, vogliono vedere quello che non vedono in nessun’altra parte, ossia la gioia e la speranza che nascono dal fatto di stare con il Signore risorto»[5].

Essere Chiesa è ciò che dobbiamo fare e vivere. E questo può realizzarsi fintanto che siamo radicati nel Corpo mistico di Cristo, la Chiesa. È per questa Chiesa che diamo tutti noi stessi con gioia e speranza.

Nel suo discorso di apertura della III Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi il 27 settembre 1974, il beato Paolo VI concluse con le seguenti parole: «E, infine, mantenete un sano ottimismo, sorretti da una duplice, salda fiducia, sulla quale, come su due ali, si deve librare il vostro lavoro verso nuove conquiste dell’Evangelo: fiducia nella vostra fatica, perché lavorate per la Chiesa; e fiducia, soprattutto, in Cristo che è con voi, vive con voi, si serve della vostra collaborazione ed esperienza per estendere nel mondo i confini del suo Regno di giustizia e di santità, di amore e di pace» [6].

Che queste parole possano essere la preghiera che rivolgiamo al Signore, che i nostri sforzi siano sempre sostenuti da Lui e che tutte le nostre esperienze di pastorale giovanile siano costantemente guidate dal suo Santo Spirito.

 

Note:

[1] [Citazioni tratte da: http://www.documenta-catholica.eu/d_1961-%20Dawson,%20Christofer%20-%20La%20Crisi%20dell%27Educazione%20Occidentale%20-%20IT.pdf; vedi il volume La crisi dell’istruzione occidentale, 2013, D’Ettoris Editori http://www.ibs.it/code/9788889341414/dawson-christopher/crisi-dell- istruzione.html.] Quest’opera è stata pubblicata per la prima volta nel 1961 da Sheed and Ward, New York.

[2] Cfr. Lettera a Diogneto, nn. 5-6.

[3] Crisi e futuro della Chiesa, Lectio Magistralis del card. Walter Kasper all’Accademia Cattolica di Brescia, Il Regno – Documenti 21, 2012, pp. 652-658.

[4] Meditazione durante la prima Congregazione generale della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (8 ottobre 2012) : AAS 104 (2012), 897.

[5] Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile in visita “ad Limina Apostolorum” (7 settembre 2009).

[6] Paolo VI, Allocuzione di apertura della III Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi (27 settembre 1974).

Gli ultimi articoli

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

15-07-2024 Missione Oggi

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

La Corte di Giustizia dello Stato del Paraná (Brasile) ha tenuto dal 3 al 5 luglio l'incontro sulla Giustizia Riparativa...

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

14-07-2024 Missione Oggi

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

I rappresentanti dei popoli nativi dell'Amazzonia peruviana, insieme ai missionari, si sono riuniti nella Prima Assemblea dei Popoli Nativi, che...

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

13-07-2024 Notizie

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

La comunità di Casa Generalizia a Roma festeggerà, il 18 luglio 2024, il 25° anniversario di ordinazione sacerdotale di padre...

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

13-07-2024 Allamano sarà Santo

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

L'11 maggio 1925 padre Giuseppe Allamano scrisse una lettera ai suoi missionari che erano sparsi in diverse missioni. A quel...

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

11-07-2024 Allamano sarà Santo

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

In una edizione speciale interamente dedicata alla figura di Giuseppe Allamano, la rivista “Dimensión Misionera” curata della Regione Colombia, esplora...

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

10-07-2024 Domenica Missionaria

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13 La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata...

"Camminatori di consolazione e di speranza"

10-07-2024 I missionari dicono

"Camminatori di consolazione e di speranza"

I missionari della Consolata che operano in Venezuela si sono radunati per la loro IX Conferenza con il motto "Camminatori...

Un faro di speranza per le persone che vivono per strada

10-07-2024 Missione Oggi

Un faro di speranza per le persone che vivono per strada

I Missionari della Consolata dell'Argentina accompagnano le “Case di Cristo” a “Villa Soldati” Nel cuore di Villa Soldati, a Buenos Aires...

Santo (in punta di piedi)

09-07-2024 Allamano sarà Santo

Santo (in punta di piedi)

Il 23 maggio scorso la sala stampa del Vaticano annunciava che papa Francesco aveva approvato l’avvenuto miracolo della guarigione dell’indigeno...

onlus

onlus