Uscire nel mondo: · Gli istituti secolari alla luce dell’«Evangelii gaudium» ·

Pubblicato in Missione Oggi

Evangelii gaudium parte da un principio chiaro: la Chiesa è chiamata ad “uscire” per annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi e in tutte le occasioni, senza ritardi e senza paure. Si tratta di mettersi in una situazione di “uscita”, di andare oltre, di stare lì dove si gioca tutto: la politica, l’economia, l’educazione, la sanità, la famiglia.

Al tempo stesso questa esortazione apostolica riafferma un altro principio importante da tenere in conto: uscire verso le periferie del mondo è una chiamata rivolta a tutto il popolo di Dio. Solo se ogni membro di questo “popolo” accoglie con generosa disponibilità questa esigenza della nuova evangelizzazione si potrà arrivare a «ogni essere umano», senza escludere o dimenticare nessuno, spingendosi fino ai confini geografici e ai margini esistenziali dell’umanità. Solo con l’impegno di tutti si potrà prestare particolare attenzione ai principali destinatari della nuova evangelizzazione: «coloro che stanno lontani da Cristo».

La Chiesa vive nel mondo e in dialogo con esso. Il Signore Gesù ha voluto la Chiesa come sacramento della sua presenza di risorto nella storia. Cristo, anche dopo la sua ascensione al cielo, continua a “precederci nell’amore”. In questo contesto Papa Francesco ci ricorda che la Chiesa è chiamata a prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare. Sono i verbi propri della secolarità. La consacrazione secolare porta a vivere fino in fondo la spiritualità dell’esodo e della ospitalità. Spiritualità dell’esodo che permetterà di cercare in ogni momento i segni, molte volte nascosti, della presenza del Signore nella storia, e, d’altra parte, di assumere l’audacia e la creatività come compagne di cammino, abbandonando il comodo criterio del “si è fatto sempre così”. Spiritualità dell’ospitalità, che spingerà ad aprire il cuore a tutte le vicissitudini dell’uomo e della donna di oggi per poterle illuminare con la luce del Vangelo.

La profezia della consacrazione secolare è incompatibile con il timore di luoghi e situazioni a rischio. Al contrario, sono precisamente queste situazioni a essere propizie a tale consacrazione, in modo che in esse i membri degli istituti secolari possano leggere e collaborare al compimento della storia della salvezza, proprio a partire da esse, dove la persona soffre l’esclusione, la sofferenza, ed è privata della sua dignità.

A questo punto ci si può chiedere: verso quali periferie andare? Non si può dare una risposta precisa a questa domanda. L’uscire passa dal lasciarsi interpellare dalla realtà, aprirsi e mettere in atto processi di discernimento per capire dove e come andare.

Certamente è necessario organizzare l’uscita, darle un senso, un orientamento per evitare che si riduca a un ricordino, ma non si può rimandare sine die. Chi esce può sbagliarsi, ma chi non esce certamente ha già sbagliato. L’uscita può assumere il rischio della provvisorietà e dell’urgenza, implica l’assunzione dell’incertezza del momento e del cammino. In definitiva, l’uscita comporta fede, credere in quello che si fa, improntare di speranza tutto quello che si fa, essere capaci di farsi carico dello stato d’animo degli altri, saper andare avanti armonizzando la tenerezza con la fermezza dei principi per farsi carico della debolezza dei più indifesi.

La consacrazione secolare pone in una situazione costante di “rischio”, chiama ad “abitare” qualunque situazione di “fragilità”, a essere molto attenti a tante fragilità che ci circondano e a trasformarle in spazi di benedizione.

La missionarietà è pienamente inserita nella consacrazione secolare, sapendo che la missione è dedicarsi al progetto di Dio nella storia, mentre la secolarità consiste nell’abitarla. È da questa situazione, che per i secolari è un vero stato di vita, che si deve annunciare il Vangelo anche nelle situazioni sociali di “rischio”. In questo contesto la profezia consiste nel soccorrere senza giudicare; nell’evidenziare il positivo che c’è in ogni situazione; nel «non aver paura della tenerezza»; nel rivalutare le virtù umane che rendono vero ogni tipo di relazione e di impegno per un mondo nuovo.

Per i secolari, il tema delle relazioni nel quotidiano — nella famiglia e nella comunità cristiana, nella vita e nel lavoro, nelle diverse situazioni psicologiche e sociali, e soprattutto nella condivisione della fede e nell’impegno apostolico — è il tessuto sul quale ricamare la ricchezza dei carismi. Senza relazioni tutto si disfa e tutto rischia di risultare una controtestimonianza.

Trasmettere allegria, essere profeta di speranza: sempre, in ogni momento, in ogni circostanza, nei giorni di festa e nei giorni feriali [...] ricordando che «una sequela triste è una triste sequela» e che siamo chiamati a trovare «la perfetta letizia» anche in mezzo alle normali difficoltà della vita: notti dello spirito, delusioni, malattie, declino delle forze dovuto alla vecchiaia.

Ma di quale gioia si tratta? La gioia propria del cristiano e del consacrato, e pertanto la vostra, è anzitutto una disposizione interiore, una affectioche nasce nell’animo di una persona quando si rende conto di essere in presenza di un bene e constata una apertura del cuore. Così si deduce dalla etimologia di gaudium. È principalmente interiore, consiste nella vita nascosta in Dio e trova la sua fonte nella verità, nella bontà, nella bellezza. Questa gioia ha molto a che fare con la consolazione che negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio consiste in un sentimento di intima felicità che infiamma l’anima nell’amore di Dio. Possiamo quindi affermare che la gioia di cui parla Papa Francesco e la gioia propria di un consacrato è un evento intimo, che nasce nel cuore, e coincide con la consolazione spirituale. D’altra parte, certamente quando Papa Francesco parla della gioia, pensa a ciò che Paolo VI, per il quale egli sente una profonda ammirazione, definisce come «la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime» (Evangelii nuntiandi, 75).

Questa gioia nasce dalla vicinanza di Gesù, dall’incontro con lui, dall’accoglienza del Vangelo. Per cui non si tratta di una allegria esteriore, allegria finta, allegria di vetrina, ma di una allegria profonda, autentica, che nessuno può rubare, né la tribolazione, né la persecuzione, né le prove di qualunque tipo. Però questa allegria nasce e si alimenta anche con la vicinanza alla gente.

Perché l’allegria, come Gesù o il Vangelo da cui deriva, è sempre comunicante. L’allegria soffre di solitudine, ha bisogno di comunicarsi e cresce nella misura in cui si comunica. Bonum est diffusivum sui, come affermavano gli scolastici. Nell’esortarci alla gioia Papa Francesco ci chiede due atteggiamenti: accoglierla e condividerla. Accoglierla, perché viene da Gesù, anzi: è Gesù stesso. Diffonderla, condividerla — questo secondo atteggiamento è la missionarietà —, perché la gioia, come il Vangelo, «ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono» (Evangelii gaudium, 21).

Per Papa Francesco la gioia non è una questione di immagine, è contenuto e forma dell’annuncio. La gioia è costitutiva della fede cristiana, Per questo, per un cristiano, soprattutto per un consacrato, la gioia non è una possibilità, ma una responsabilità, una grande responsabilità. Non possiamo privare il mondo della gioia di essere stati trovati dal Signore; non possiamo privare il mondo della profezia della gioia.

Inoltre questa perfetta letizia è un modo straordinario di seminare speranza nei nostri giorni, di trasmetterla ai nostri contemporanei che si trovano in difficoltà anche gravi e dolorose. La perfetta letizia include, offre e sparge la perfetta speranza. In questo modo, speranza e allegria vanno di pari passo e rendono i consacrati profeti dell’una e dell’altra.

La gioia è testimonianza di una vita piena, beata: è come il vertice dell’esistenza, una sensazione di pienezza nella quale la vita appare in tutta la sua positività, come colma di senso e meritevole di essere vissuta. La gioia è determinata dalla scoperta di essere soddisfatti. Testimonianza di una vita che trova nella sequela di Gesù il suo senso. L’allegria trasforma la nostra vita in profezia.

Ilario di Poitiers si fa eco della domanda di molti che gridano ai cristiani: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Anche la speranza è una responsabilità per i cristiani e molto più per i consacrati. Di essa noi cristiani e consacrati siamo chiamati a rispondere a chi ce ne chiede conto. Questa responsabilità al giorno d’oggi è drammatica, particolarmente per i consacrati. E la vita consacrata è in grado di offrire ai suoi contemporanei orizzonti di speranza, o, al contrario, è anch’essa colpita dalla mancanza di speranza che tanti uomini e donne vivono oggi?

L’impressione è che oggi il nemico della speranza tra noi sia la rassegnazione o l’indifferenza, la perdita di senso o quanto meno l’irrilevanza di senso. Indizio di questa grave infermità è l’auto-referenzialità o tante opzioni che si limitano alla gestione del presente senza impegnare il futuro.

Il cristiano e il consacrato trova in Cristo la propria speranza. Per questo motivo possiamo affermare che la fiducia riassume la ricca esperienza della vita consacrata, ma soprattutto segnala il suo orizzonte in Gesù e nel suo Spirito.

Durante l’Anno della vita consacrata il Papa ci ha suggerito di «abbracciare il futuro con speranza». Una speranza che si rende presente dove la vita consacrata è diminuita, e allo stesso modo negli altri luoghi dove fiorisce con persone giovani in numero crescente.

Non bisogna cedere alla tentazione dei numeri e delle opere. La nostra speranza si fonda in Gesù che ci ha chiamato. Alcune situazioni sono umanamente confortanti, ma occorre fondare questa speranza in Gesù, non nei nostri “carri e cavalli”. Altre umanamente sono disperate, per l’incertezza che comportano e che ci fanno compagni di cammino dei nostri contemporanei; anche qui si innalza la nostra speranza, frutto della fede nel Signore della storia.

Per il credente non c’è motivo per la sfiducia, il pessimismo, la disperazione. Non c’è motivo per la «scontentezza cronica», per una «accidia che inaridisce l’anima», non si sono scuse perché il Vangelo rimanga sepolto. In ogni momento siamo chiamati a «vegliare», a «rimanere svegli», a recuperare la nostra vocazione e missione di essere «sentinelle nella notte». Solo così la vita consacrata sarà scuola profetica di speranza per quelli che l’hanno perduta e potrà illuminare il futuro dell’umanità.

Nelle relazioni secolari, le più diverse, il primo impatto viene dalla capacità di irradiare serenità, fiducia, entusiasmo, speranza. La speranza del cristiano e del consacrato secolare non è frutto della fuga dai problemi del quotidiano, ma è certezza, anche nella prova, che l’amore di Gesù ci raggiunge, ci coinvolge e ci salva.

Cristo è la realtà ultima che illumina tutte le realtà e tutte le relazioni. Ancorati nella fede in Cristo morto e risorto, il consacrato secolare è chiamato ad essere profeta di speranza irradiandola e contagiandola. Questo è il volto che Papa Francesco vuole per la Chiesa. In questo gli istituti secolari devono essere in prima linea.

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