La Beatitudine Di Essere Straniero: Un Nuovo Paradigma Di Spiritualita’ Missionaria

Pubblicato in Missione Oggi

 

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Uno dei grandi ideali missionari è sempre stato quello di amare così tanto il popolo che si evangelizza, da amarlo come il proprio, assumerne la cultura, identificarsi con esso e persino di poter morire ed essere seppellito in quella terra.

Pur conservando la validità e bellezza di tutto questo, mi sono chiesto se per caso, in questo tempo di globalizzazione e fluidità delle culture, non sarebbe più appropriato sottolineare quello che potremmo chiamare “l’altra faccia della medaglia”.

Da sempre il missionario è colui che lascia la sua patria e parte per terre lontane per annunciare il Vangelo.  Anche se oggi non si parla più di missione in senso territoriale, rimane nel sentire comune l’idea che il missionario abbia una specie di vocazione ad essere straniero!

C’è chi è straniero per forza, perché’ ha dovuto sfuggire a persecuzioni o povertà. C’è chi è diventato straniero per seguire il cuore e si è sposato con qualcuno di un’altra nazione. C’è chi lascia il suo paese per cercare migliori opportunità economiche o di carriera. Il missionario è uno di quei pochi che diventa straniero per scelta!

 

IL MARTIRIO BIANCO[i]

I monaci irlandesi parlavano di un martirio verde opposto a quello rosso. Il martirio rosso era quello classico, dove si versava il sangue per la fede. Ma in assenza di persecuzioni scegliere la vita eremitica nelle grandi distese erbose dell’isola, era considerato il martirio verde. Ma quei monaci parlavano anche di un martirio bianco. Gli irlandesi erano fortissimamente legati al loro popolo e alla loro cultura, così speciale tra i popoli dell’Europa del tempo. Tra loro alcuni sceglievano di diventare stranieri per tutta la vita e di andare ad annunciare il Vangelo in Scozia, Inghilterra, Francia, Germania, Svizzera, Italia, come san Colombano e san Colomba. E questo esilio volontario dalla loro terra e dalla cultura in cui si sentivano così a loro agio, era per loro il martirio bianco! Non sarà forse questo il paradigma, l’ideale missionario da assumere in questa nostra epoca globalizzata?

Quante volte abbiamo sentito dire dai missionari che sono stati fuori dal loro paese per tantissimi anni: “Sono tornato, però ora, qui, mi sento uno straniero!” E poi adesso che in sempre più istituti le comunità sono internazionali, il missionario rischia di sentirsi straniero all’estero, in patria e a casa propria, e per tutta la vita!

E allora chi siamo? Degli spiantati? Degli sfasati, fuori di sintonia con tutte le culture in cui siamo passati? Gente sempre in ritardo per prendere il treno della civiltà a cui siamo mandati, sempre affannati a rincorrere un mondo che va più veloce di noi? Di quelli costretti a dire: “Noi non capiamo la cultura e la cultura non capisce noi!”?

E se invece fosse esattamente il contrario?

 

TUTTO SCORRE

Con i ritmi vertiginosi del mondo contemporaneo ormai è evidente a tutti che non si può più concepire la cultura come qualcosa di statico, come un museo. Una cultura se non interagisce, se si isola è destinata a poco a poco all’estinzione. La cultura di un popolo è in continuo movimento. Se mi permettete di parafrasare buonanima di Eraclito direi: “Nessuno può bagnarsi due volte nella stessa cultura!” Chiunque viva in un certo popolo è sfidato ogni giorno a immettere elementi nuovi nel suo mondo e a lasciarne fuori altri, a confrontarsi con nuovi paradigmi. Se non sta al passo, rischia di essere tagliato fuori dal suo mondo. Deve fare delle scelte, e anche quella di fermarsi è una scelta, tipo quella degli Amish. Ma perché’ fermarsi al ‘700 o al ‘600 e non invece all’anno mille? Anche questa è una scelta! E anche all’interno del proprio mondo bisogna fare la scelta tra le varie sub-culture! Posso identificarmi con chi mette l’economia al primo posto, con un nazionalismo esasperato, con chi ha scelto solo il godimento del momento presente, coi pacifisti, gli aborzionisti e chi vuole la vita. Ormai tutti sono immersi nell’ansia di un mondo liquido che ci sfugge tra le dita e che ci toglie le sicurezze che un tempo dava la solida cultura della nostra tradizione. Ma scelte bisogna farne, non si può sfuggire. E ogni scelta contribuisce a spingere una cultura in una qualche direzione.

Ce’ stato un tempo di mitizzazione della cultura. Ma la cultura è il frutto dell’attività e delle interazioni umane, e come tale è anche lei intaccata dal peccato originale. Quante volte ho sentito usare l’espressione “Ma la mia cultura…” come se fosse quella coperta che copre una moltitudine di peccati! Se io volessi vivere secondo la cultura dominante in questo momento in Italia, il superiore generale dovrebbe sbattermi fuori dell’istituto hic et nunc, ipso facto, latae sententiae!

Chi volesse fermare la propria cultura proprio come è vissuta in questo momento rischia di trovarsi isolato. Avete presente il fenomeno degli emigranti che conservano il dialetto come si parlava 100 anni fa, e che ai loro conterranei adesso è difficilmente comprensibile? In 100 anni anche la lingua ha avuto una sua evoluzione, non è rimasta ferma nel tempo.

 

LA CULTURA DI REFERENZA

Tra gli emigranti si nota un altro fenomeno: quello che è chiamato la cultura di referenza. La prima generazione di emigranti vive in una nazione, ma la propria cultura di referenza, i valori, gli usi, i cibi, sono quelli della loro terra di origine. La seconda generazione sebbene in contatto con il mondo dei genitori, fa di tutto per integrarsi nel nuovo mondo. La terza generazione invece è completamente integrata, la cultura di referenza è quella della nuova patria, e a volte non conosce o non vuole conoscere il mondo dei loro nonni!

E allora il missionario? Il missionario è un emigrato speciale. Sebbene abbia nel DNA la cultura della sua terra, la sua cultura di riferimento è quella del Regno di Dio. Quantunque fatichi a integrarsi pienamente nei vari mondi dove opera, non è uno che arranca per afferrare il presente è uno che guarda e vive il futuro! Siccome la sua cultura di riferimento è una che mira a portare ogni cultura alla sua pienezza, è proprio lui che costruisce la cultura del futuro e la guida al futuro. Ma che la guida, usando un’espressione di san Paolo che mi piace tanto, come collaboratore della gioia di quel popolo (vedi 2Cor 1,24). Quindi il missionario vive già la nuova cultura. Non è indietro e neanche in completa sintonia col presente, ma avanti in attesa di essere raggiunto, e indica le scelte culturali che portano alla vita e alla gioia vera. Lui guarda ai popoli “dal” futuro. Il missionario è colui che va oltre la sua zona di conforto per raggiungere il diverso da se’, sia in terre lontane sia a casa sua è straniero per scelta, per uscire da se’ e andare incontro al fratello considerevolmente diverso da se’, ma che lui già riconosce come fratello. Dovunque va, dovunque è, il missionario è colui che è già a casa, mentre in realtà sono gli altri ad essere i veri stranieri, perché’ ancora fuori della logica del Regno, e vivono là dove la loro cultura non è ancora arrivata. Lui è il battistrada della “metacultura”, che non è solo la nuova che si formerà a livello globale, ma di quella escatologica. Un po’ come dice la Lettera a Diogneto: che il cristiano è a casa in ogni luogo e straniero in ogni città.

 

LA SPIRITUALITA’ DELL’ESSERE STRANIERO

Mi sembra che mai come in questa epoca sia necessario assumere la spiritualità dell’essere straniero come il nuovo ideale dell’evangelizzazione:

  • Ci libera dai nazionalismi, e ci libera dal fare sempre riferimento alla nostra cultura di origine.
  • Ci mette in uno stato di povertà psicologica e intellettuale davanti all’altro, perché’ partiamo sempre svantaggiati di fronte a un mondo diverso dal nostro, e ci costringe a cercare forza e sicurezza in qualcosa che non è di questo mondo.
  • Non ci fa stare in attesa che l’altro entri nel nostro mondo ma ci spinge a uscire dal nostro per entrare nel mondo dell’altro.
  • Chiunque sia l’altro, subito ce lo fa riconoscere e cercare come fratello!
  • Ci costringe ad avere come unica ricchezza il Vangelo e a cercare i ”figli della pace” e i semi del Verbo in ogni nazione e tra ogni gruppo di persone che ci si presenta davanti.
  • Ci fa camminare nell’umiltà.
  • Ma ci libera anche dalle costrizioni e condizionamenti della cultura ospite e ci permette di essere critici davanti ad essa e di vederne quegli aspetti che non aiutano le persone a realizzare la loro vocazione di figli di Dio.
  • In una comunità internazionale dove nessuna cultura prevale sull’altra è il Cristo tra noi che deve portarci a creare una nuova cultura del vivere in comune.
  • Nazione, tribù, continente, devono lasciare il posto alla categoria fraternità! La nostra nuova famiglia, il nostro nuovo gruppo di supporto e riferimento sono coloro che Gesù ci ha messo accanto in questo momento.
  • Ci fa esercitare a costruire fiducia reciproca, a comunicarci la vita, le esperienze, il cammino spirituale e non solo le cose.
  • Ci fa cercare tutto quello che include l’altro, ed evitare tutto quello che lo può escludere. Perché’ come straniero ho sperimentato che l’esclusione mi fa male e non crea fraternità.
  • E già il solo nostro vivere insieme è testimonianza e annuncio della fraternità universale.

E tutto questo non solo in paesi lontani, ma proprio come una spiritualità del relazionarsi con ogni uomo! È il martirio bianco scelto come modello di vita!

 

Se vogliamo tornare al paragone del migrante, il cristiano mediocre è quello della seconda generazione che ha come riferimento il Regno ma ancora guarda indietro al mondo lasciato. Il santo è quello della terza generazione che ormai vive solamente dei valori del Regno. Questo è l’ideale di santità del missionario! Vivere come straniero nel mondo e come cittadino nel Regno!

Abramo accetta di diventare straniero per obbedire a Dio e ricevere la terra promessa (Gen 12,1). Mosè ha fatto la più grande crescita spirituale quando era straniero. Diceva: “…sono un emigrato in terra straniera” (Es 2,22). E il salmo 44 dice alla sposa del Re di dimenticare il suo popolo e la casa di suo padre, ora tutta la sua vita è in funzione del Re (Ps 44,11). San Paolo si sente straniero persino nel suo corpo (Gal 2,20). Questo tipo di essere straniero è paradigma del progresso spirituale, del cammino da questo mondo al Padre!

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STRANIERO PERCHE’ TU SIA MIO FRATELLO

Chi di noi ha sperimentato la missione nell’Asia del Nord Est ha fatto l’esperienza di una barriera invisibile ma ben palpabile: quella di avere addosso una specie di peccato originale indelebile comportata dal fatto che siamo stranieri! Per quanto ci sforziamo di apprendere bene la lingua e la cultura rimaniamo sempre degli “outsider”! Queste culture sembrano non sapere integrare il “diverso”. Un anziano gesuita spagnolo, missionario in Giappone, una volta ci disse: “Gli altri missionari parlano di quello che fanno per gli emarginati. In Giappone l’emarginato sono io!”

Eppure la gente ci accoglie, ci vuole bene! La nostra posizione di debolezza tira fuori il meglio della bontà che è presente in questi popoli. E viene fuori quel cuore che Dio ha creato “buono” in ogni persona sulla terra, al di là di tutti i condizionamenti culturali! La nostra sola presenza rompe gli schemi tradizionali, facendo fare loro l’esperienza del “diverso” e portandoli a farsi domande su qual è la direzione migliore da prendere nella cultura di adesso! E poi l’annuncio intacca qualcosa, il Vangelo già si fa strada, crea la nuova cultura, come il lievito che fa fermentare tutta la massa. Fa desiderare la direzione nuova. Quanti da noi, in Corea, vengono spontaneamente a cercare il battesimo perché’ dicono: “Voglio trovare la pace del cuore!”.

Se per noi cristiani la persona non è solo quello che è ma anche quello a cui è chiamata ad essere, lo stesso vale per la cultura: cosa è chiamata ad essere ogni cultura, pur nella sua unicità? Non si tratta di cambiare una cultura ma di accompagnarla a diventare ciò che è chiamata ad essere alla luce della rivelazione!

In un mondo globalizzato, dove il desiderio di frammentazione sembra prevalere con tanti nazionalismi, tribalismi e settarismi che dividono e distruggono vite e società, l’annuncio della fratellanza universale è l’unica via di uscita per il pianeta. Il missionario è il costruttore di una nuova cultura, di un nuovo sistema di relazioni basato sull’amore è il riconoscersi tutti figli di uno stesso Padre, che provoca un cambiamento nel mondo.

Il missionario non è uno spiazzato ma è l’uomo del futuro, che fa la vera rivoluzione e tocca il cuore di tutte le culture ogni volta che insegna a dire: PADRE NOSTRO!

 

[i] Vedi: Giampietro Casiraghi, Diversità e comunione nell’unica fede. La chiesa irlandese dei primi secoli.  in:  Ad Gentes 3/1 (1999) p. 33-50.

 

 

 

 

 

Per contestualizzare questa riflessione potrebbe aiutare conoscere un po’ del mio background.

Io sono p. Gian Paolo Lamberto, italiano, missionario della Consolata.

Nato nel 1959, sono entrato nella comunità IMC nel 1981. Nell’ ’84-’85 sono stato in Inghilterra. Dall’ ’85 all’ ’89 in Kenya per la teologia. Dopo l’ordinazione dall’ ’89 al ’92 negli USA. E dal ’92 fino adesso nella Corea del Sud.  Dall’ ’83 vivo in comunità internazionali e dall’ ’84 all’estero . Nel nostro gruppo in Corea siamo in 11 missionari di 9 nazioni e 4 continenti, divisi in 3 comunità.

Ultima modifica il Lunedì, 24 Ottobre 2016 14:08
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