La missione oggi nell’orizzonte del mondo

Pubblicato in Missione Oggi

Perché l’annuncio del vangelo sia efficace, le Chiese e le comunità cristiane devono prestare più attenzione al contenuto della proclamazione e alla forma della missione. L’articolo presenta i punti cruciali dei problemi che la chiesa sta affrontando in Europa e negli altri continenti e che rischiano di mettere in crisi fedeltà alle origini e disponibilità al futuro

Le linee della teologia missionaria contemporanea s’intrecciano da una parte, in maniera dialettica, con le scuole missiologiche della prima metà del Novecento e, dall’altra, con le nuove sfide della storia della seconda metà del XX e l’inizio del XXI secolo. Per cui, ad esempio, alla teoria della plantatio ecclesiae di Lovanio (Belgio) si replica con la church inside out («chiesa al contrario») di J.C. Hoeken- dijk1; alla teoria della praedicatio evangelii di Münster (Germania) si contrappone la missione come liberazione dell’America Latina2. E ancora, alla teoria dell’adattamento si risponde con quella dell’inculturazione3, alla teoria della conversione con quella della testimonianza e del dialogo4. Tali correnti attraversano tutto il campo missionario, senza distinzioni confessionali, e si basano sulla svolta antropologica della teologia del Novecento, più disponibile a considerare il mondo e le sfide della storia, le religioni e le culture come luoghi e orizzonti della missione5.

 

Nell’orizzonte del mondo: la missione «senza chiesa»?

1.1. Europa

Una prima rivoluzione dell’idea tradizionale di missione si svolge in ambiente protestante europeo, molto sensibile al fenomeno della secolarizzazione e della morte delle cristianità. Il suo rappresentante più dinamico è il teologo e missionario olandese J.C. Hoekendijk, che polemizza con Münster sul fine (individuale e sociale) della missione. Il processo di cristianizzazione dei pagani, secondo Hoekendijk, non può ridursi alla formazione di una chiesa-popolo (Volkskirche) troppo identificata in senso etnico-culturale-religioso, perché ciò impedireb- be al vangelo di farsi presente alla nuova realtà con tutte le sue virtua- lità rivoluzionarie, che trascendono ogni etnia, cultura e religione.

Egli introduce nel concetto di missione la nozione escatologica di shalom, più ampia di quella tradizionale di salvezza, poiché indica tutti i beni del regno di Dio, compresa l’idea socio-politica di sviluppo. Non si tratta di consegnare la storia e il mondo nelle mani della chiesa, ma di inserire la chiesa nell’orizzonte del mondo, perché essa possa rendere ragione di sé dall’interno della storia. Egli ritiene la plantatio ecclesiae un insopportabile incapsulamento ecclesiastico della missione, incapace di corrispondere alle esigenze del regno di Dio e alle sfide della storia. Perciò auspica una missione senza chiesa, o meglio un assorbimento della chiesa nell’azione missionaria: credo ecclesiam apostolicam significa per Hoekendijk che la chiesa è anzi tutto azione missionaria, non casa sedentaria in Egitto ma esodo.

Il teologo olandese emancipa la missione dalla chiesa, vincolandola strettamente al mondo. In sostanza, la missione è compresa a partire da Dio, come actio Dei, per il mondo: non più missione della chiesa, ma chiesa dalla e nella missione. La tesi ha un grande impatto sulla quarta assemblea del CEC (Consiglio ecumenico delle chiese) ad Uppsala, nel 1968.

In campo cattolico è L. Rütti soprattutto a sviluppare la dimensione missionaria della chiesa nell’orizzonte del mondo6. Secondo Rütti, la vera questione della missione è la costruzione di comunità ecclesiali che trovano la loro identità cristiana nell’accettazione incondizionata della sfida politica del mondo.

Sia Hoekendijk che Rütti ricuperano la missione quale full immersion delle comunità cristiane nel mondo, come nuovo orizzonte ermeneutico della chiesa in permanente tensione tra storia ed escatologia. Resta, in ogni caso, irrisolto il nodo della mediazione ecclesiale: la chiesa deve dissolversi nel mondo oppure deve mantenere la sua valenza sacramentale? Che cosa rispondere, se non che il mondo è un partner ineliminabile della chiesa e che la chiesa non è un mondo a parte e nemmeno la fine della storia, semmai la memoria di una nuova direzione di marcia della stessa? Dissolvendosi nell’orizzonte del mondo la chiesa perderebbe in oggettività, non solo come sacramento del mondo ma anche come memoria dell’incarnazione di Dio.

Queste considerazioni la teologia missionaria le fa soprattutto per i missionari occidentali sparsi nelle missioni extra-europee. Ma quale missione si sta delineando per la chiesa in Europa? All’inizio del nuovo millennio, l’Europa si trova in balia di una situazione paradossale: se è vero che la sua identità culturale è stata largamente modellata dal cristianesimo, d’altro canto ciò che è stato una salutare emancipazione dal dominio della religione si è lentamente evoluto in una progressiva esclusione della fede dalla vita pubblica relegandola nell’ambito privato delle persone. In tale contesto, la sfida per la missione in Europa è riportare il vangelo nella vita quotidiana delle persone e nei nuovi areopaghi socio-culturali. Ciò richiede un nuovo processo di inculturazione della fede attraverso un approccio più attento alle persone per riconoscere l’intima sete di significato che esse sperimentano, aiutarle a riconoscere tale sete nella loro esistenza, presentare il vangelo come risposta alla loro ricerca7.

1.2. America Latina

Mentre nell’Europa secolarizzata e scristianizzata la missione catalizza la realtà ecclesiale verso il mondo, in America Latina ci si preoccupa di comprendere il linguaggio della salvezza come liberazione8. Il linguaggio, si sa, non è innocente. Espressioni come salvarsi, salvare le anime, salvezza eterna, lasciano trasparire un modo di in- tendere la salvezza come avventura individuale, staccata dalla storia, per concentrarsi nella ricerca di una felicità extra-mondana. Da qui il tentativo di usare un concetto socio-politico come liberazione – a prima vista profano eppure presente nelle Sacre Scritture –, anche se fondamentale per intendere la salvezza secondo le tradizioni ebraica e cristiana. Nasce la teologia della liberazione, «il luogo di maggiore sviluppo della comprensione politica della missione»9. Essa identifica la missione con la prassi di liberazione degli oppressi. Da qui il di- lemma: la missione è annuncio o liberazione?

Il Sinodo del 1971 parla della liberazione come dimensione costitutiva dell’evangelizzazione. L’Evangelii nuntiandi si pronuncia contro ogni riduzionismo politico: l’impegno per la giustizia è parte integrante dell’evangelizzazione10. Non si dice più parte costitutiva. La paura dei riduzionismi aveva quasi cancellato il termine liberazione dal vocabolario cristiano, la teologia della liberazione ne riscatta l’uso biblico, primario nella proclamazione del regno di Dio (cf. Lc 4,18-19). Alla luce della vita e della missione di Gesù, la chiesa latinoamericana comprende in maniera diversa il contenuto e le caratteristiche della salvezza. Il regno di Dio è inteso come una realtà totalizzante, comprensiva di tutte le dimensioni della persona: quella materiale non si oppone alla spirituale, quella personale non esclude la sociale, quella storica non nega la trascendente. Ogni ulteriore distinzione di piani deve por- tare all’unità fondamentale del disegno di salvezza. Le distinzioni sono necessarie, ma – come insegna la grammatica calcedonese – distinguere non significa dividere e meno ancora opporre. La differenza cristiana non consiste nel contrapporre e nemmeno nel giustapporre l’umano e il divino, ma nell’affermare l’unità mantenendo e rispettando la diversità (l’umano nel divino e viceversa). Il luogo dell’esistenza cristiana e della missione è perciò il mondo, la sua materia concreta è la realtà umana. La differenza consiste nel configurare quest’ultima secondo lo spirito cristiano: non è necessario fuggire dal mondo per salvarsi, né c’è bisogno di abbandonare il mondo per incontrare Dio.

In conclusione, le formule della plantatio ecclesiae e della praedicatio evangelii sono criticate, non perché si ritenga superflua l’edificazione della comunità cristiana o non si senta l’urgenza dell’annuncio, ma perché nascondono l’impiantazione di una realtà esclusivamente storica dentro la storia o un annuncio troppo occidentalizzato in un universo profondamente segnato da altre parole. La domanda cruciale è: che cosa significano il vangelo e la chiesa nella storia e per la storia? Se si sottolinea lo spazio ecclesiale e kerygmatico della missione, sembra che si voglia rinchiudere la missione in un limbo irrilevante oppure integrista; se si sottolinea lo spazio mondano – anonimamente cristiano, direbbe K. Rahner –, allora la missione rischia di confondersi con la storia e di dissolversi nel mondo, senza alcuna riserva escatologica e dialettica nei loro confronti.

 

  1. Nell’orizzonte delle religioni: la missione «senza Cristo»?

Una seconda rivoluzione dell’idea di missione è provocata dall’ingresso nella ricerca teologica del tema del pluralismo religioso e del dialogo interreligioso. Una spia rossa di questo cambiamento è l’uso del termine dialogo con accezioni diverse: antropologica, teologica, pastorale. Ci sono accezioni che minimalizzano il dettato conciliare e l’enciclica di Paolo VI, Ecclesiam suam (1964), e accezioni arbitraria- mente massimaliste. L’impressione è di un uso abusato del termine.

Dopo il concilio si sviluppano teorie che negano l’assolutezza di qualsiasi religione, cristianesimo incluso: nessuna religione dovrebbe considerarsi definitiva, nemmeno il cristianesimo, in quanto forme storiche che rimandano all’unica realtà centrale, indicibile, salvatrice di tutti. Dal cristocentrismo del dettato conciliare si passa a posizione teocentriche e pluraliste, che relativizzano il Gesù della storia rispetto al Logos eterno di Dio.

2.1. Asia

La missione in Asia deve fare i conti con il bisogno vitale di un dialogo che pone il messaggio evangelico di fronte a una concezione dell’uomo e della storia non toccata dal dinamismo messianico proprio della Bibbia. La teologia indiana mette in discussione una missione protesa esclusivamente a salvare le anime o impegnata nella carità esclusivamente al servizio dei proseliti. È così che si sveglia l’interesse per i valori del mondo indiano, cinese, giapponese, ecc., e delle loro religioni. Ci si muove alla ricerca di Dio sia nei diversi risvegli religiosi della prima metà del Novecento, sia nelle sfere secolari dell’attività umana, nel campo della politica e della giustizia sociale.

È da questo clima culturale e spirituale che trae ispirazione anche il grande pensatore indo-catalano R. Panikkar (1918-2010). Egli aspirava alla scoperta di una relazione ontica dell’uomo con Cristo che coprisse spazi più ampi di quelli assicurati dall’effettiva possibilità di costruire e manifestare una vera e propria relazione storica di tutti gli uomini con Gesù di Nazaret. Per cui riteneva che l’attuale cristianità non dovesse essere pensata come l’unica forma possibile dell’epifania di Cristo, che solo alla fine si sarebbe rivelato in tutta la sua pienezza (escatologica). Allora la missione della chiesa non dovrebbe consistere nel fare di tutto per sostituirsi alle altre religioni, bensì nel promuoverne la loro maturazione fino alla manifestazione di quel Cristo che già le abita, anche se nascostamente. Solo percorrendo la via della kenosis la chiesa può essere sale, luce e lievito del mondo11.

Di fronte all’emergere di posizioni pluraliste, come quelle di R. Panikkar, P. Knitter, J. Hick, ecc., prendono posizione altri teologi, alcuni dicasteri romani e lo stesso papa, con l’enciclica Redemptoris missio12. Tra gli altri documenti ricordiamo: Dialogo e missione (Segretariato per i non credenti, 1984), Dialogo e annuncio (Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, 1991) e la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede, Dominus Jesus (2000). Il 3 dicembre 2007 la medesima Congregazione pubblica una Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, che costituisce quasi un compendio del cammino missionario della chiesa cattolica dopo il Vaticano II, sottolineandone i limiti e le imperfezioni che hanno offuscato l’efficacia della missione13.

A questo proposito, negli ultimi decenni, la missione della chiesa cattolica, specialmente in Occidente, ha sofferto di una certa auto- limitazione dovuta a un eccessivo senso di colpa per gli errori commessi nel passato. Ciò ha indebolito la proclamazione del vangelo nell’incontro con la società, le culture e le religioni. In questo contesto, andrebbe riscoperta l’idea della missione come dialogo profetico. Infatti, il riconoscimento dei peccati del passato e del presente, seppure essenziale, non dovrebbe portare alla paralisi della missione, ma alla riscoperta della sua dimensione profetica14.

2.2. America Latina

Anche la teologia della liberazione ha inserito nella sua agenda il confronto con il pluralismo religioso15. A convincerla è stato il richiamo di alcuni teologi pluralisti – come A. Pieris e P. Knitter –, ma soprattutto il dialogo con la sensibilità culturale e religiosa dei poveri dell’America Latina e il contatto con le religioni e le culture negate degli indios e dei neri. Un contributo in questo senso è venuto dalle teologie indie e nere, che alla fine degli anni Ottanta hanno provocato dei mutamenti in campo ermeneutico. Mentre fervevano i preparativi per la celebrazione dei 500 anni della scoperta-conquista dell’America (1492-1992), in controtendenza alcuni missionari e teologi si sono lasciati interpellare dall’alterità culturale e religiosa di milioni di indios e neri, instaurando una prassi dialogica con le loro sintesi spirituali, normalmente ignorate e perfino condannate dalla gerarchia ecclesiastica. Ne derivò un allargamento degli orizzonti teologici, in chiave interreligiosa o macroecumenica, con un’interessante fusione di prospettive religiose, amalgamate dalla fede nel Dio della vita e dall’impegno per la giustizia e la pace.

Così la teologia della liberazione, che fino a quel momento adottava nei confronti della diversità religiosa latinoamericana la stessa critica rivolta alla religione della teologia occidentale, s’inserisce nel dialogo con le religioni indigene, i culti afro-americani e le più svariate forme di cattolicesimo popolare. Con una nuova apertura ermeneutica nei confronti delle religioni indigene, di derivazione precolombiana, e delle sintesi spirituali realizzate nei culti di matrice africana, la teologia della liberazione si impegna a fare l’esperienza spirituale del pluralismo religioso.

Non si tratta di una rivincita del politeismo, dopo cinque secoli di monoteismo imposto dal potere coloniale ed ecclesiastico, e nemmeno di un ritorno archeologico alle tradizioni religiose dei neri e degli indios, ma di una nuova esperienza di Dio nell’orizzonte del pluralismo percepito come volontà positiva di Dio.

La teologia e la missione ritrovano così la via della verità umile, propria del mistero dell’incarnazione di Dio. Non è un caso che i precursori dell’incontro della teologia della liberazione con quella del pluralismo religioso siano dei missionari e studiosi, che – come J. Monchanin, H. Le Saux, B. Griffiths in India – hanno cercato di vivere la loro fede cristiana valorizzando la cultura e la religione indi- gene, a somiglianza di B. Meliá, F. de l’Épinay e delle Piccole sorelle di Gesù. In un’intervista rilasciata al vescovo J.M. Pires, sopranno- minato Dom Zumbi (dal nome del famoso schiavo nero che fondò il quilombo di Palmares), de l’Épinay confessa:

Sono venuto a Salvador per fare una ricerca sulla religione degli Orixás. Ho percepito immediatamente che, come ricercatore, non avrei avuto le condizioni per capire molto. Così ho deciso di entrare in un terreiro16 da iniziato. Da quattro anni sono iniziato. Finora non ho incontrato nulla di contrario alla mia fede di cristiano, nulla di contrario alla mia condizione di sacerdote17.

Si inserisce in questo contesto plurireligioso e pluriculturale dell’America Latina anche la proposta della categoria della «transitorietà», come nuovo metodo missiologico, che vede la chiesa in un permanente stato di missione, in atteggiamento umile di ascolto, incontro e accoglienza del diverso18.

 

  1. Nell’orizzonte delle culture: la missione «con quale cultura»?

Una terza rivoluzione dell’idea tradizionale di missione sta avvenendo nell’orizzonte delle culture. In questo senso hanno avuto un grande ruolo le aperture teologiche del Novecento e, in campo cattolico, il Vaticano II. Da una parte, la nuova auto-comprensione della chiesa nei confronti della storia e del mondo in ordine alla salvezza (ottimismo salvifico rispetto al pessimismo pre-conciliare) e, dall’altra, la scoperta di essere per la prima volta una chiesa mondiale e multiculturale hanno incrementato gli interventi del magistero, locale e universale, sul fenomeno dell’inculturazione, ora per frenare eccessivi entusiasmi, ora per lanciare la missione in avanti verso nuove sfide.

Nel periodo post-conciliare il magistero cattolico si è mosso tra richiami per garantire l’unità della fede e della stessa chiesa e nuovi progetti di inculturazione; tra avvertimenti per salvaguardare il ricco patrimonio del cristianesimo occidentale e appelli per non imporlo sic et simpliciter a tutte le chiese locali.

Nell’evoluzione piuttosto accidentata del concetto di inculturazione si utilizzano termini diversi, a volte in maniera indistinta, causando confusione e deformando la comprensione del fenomeno, che è contemporaneamente di natura teologica, sociale e culturale. Le varie denominazioni dipendono dai differenti punti di vista19.

Comunque, si tratta di una sfida che tocca tutti i continenti, Europa compresa. Infatti, anche il vecchio mondo, con la morte delle cristianità politico-confessionali, è clamorosamente costretto a fare i conti con quello che Paolo VI definì, nel 1975, «il dramma della nostra epoca», cioè «la rottura tra vangelo e cultura» (EN 20).

3.1. Africa

In campo missionario, l’istanza è stata avanzata un po’ ovunque attraverso l’esigenza dell’adattamento, ma è l’Africa a far sentire in maniera più articolata la sua voce, come reazione al modello di civilizzazione che aveva affiancato la missione, soprattutto durante il periodo coloniale.

L’insufficienza della teoria dell’adattamento appare in forma dirompente durante il Sinodo del 1974, quando i vescovi africani affermano la necessità di passare dall’adattamento all’incarnazione. È criticata anche la plantatio ecclesiae, perché troppo legata a una concezione universalista (occidentalista) della chiesa, in base alla quale l’attività missionaria consisterebbe nel trapiantare negli altri continenti la chiesa come si è già storicamente (teologicamente, liturgicamente, canonicamente) configurata in Europa. È indicato un nuovo paradigma di cattolicità, quello conciliare di Lumen gentium n. 13, che lascia spazio alle diversità anzi le favorisce in ordine all’unità del popolo di Dio. Il passaggio dall’adattamento all’incarnazione pone una serie di problemi di carattere teologico, non sempre adeguatamente articolati, poiché spesso intrecciati a rivendicazioni di carattere socio-culturale e, in qualche caso, anche politico20. Da una parte si invoca la de- occidentalizzazione del cristianesimo, per renderlo più disponibile alle altre culture, senza la mediazione della cultura coloniale, dall’altra si sente tutta la difficoltà dell’operazione di distillazione dello stesso, poiché non si è mai raggiunto lo stato puro, essendo il vangelo originariamente avvolto in panni carnali-culturali ebraici.

Si giunge così al cuore dell’inculturazione: come può un evento storico particolare, seppure con valore universale, essere emancipato da ciò che lo ha reso possibile e dalle sue molteplici ricezioni storiche, che sono le uniche vie di accesso per conoscerlo? L’Evangelii nuntiandi fa propria questa istanza quando pone l’accento sull’evangelizzazione delle culture: il vangelo non s’identifica con alcuna cultura, ma offre criteri per elaborare sempre nuove sintesi, nuovi umanesimi. Il criterio fondamentale è quello della priorità veritativa del vangelo rispetto alle culture, visto che nessuna è perfetta, anzi tutte sono abitate dall’ambiguità, dalla morte e dal peccato21. Il cristianesimo adempie alla sua missione quando rimane consapevole che la salvezza, il tesoro che porta in vasi di creta, non è di sua proprietà, ma è il dono di Dio per tutta l’umanità, che deve essere consegnato con urgenza e possibilmente non rovinato dai missionari.

3.2. Asia

Tale processo veritativo avviene mediante la chiesa (cf. LG 13). Se così non fosse, non si potrebbe parlare di conversione, che riguarda non solo le persone, ma anche le culture22.

A questo proposito, il teologo indiano M. Amaladoss parla dell’esigenza di andare addirittura oltre l’inculturazione23, sia nel sen- so che il vangelo è provvisto sempre anche di una carica di esplosivo controculturale – che non ha come fine la distruzione della cultura, ma la sua trasformazione24 –, sia nel senso che nessuna religione può avere un rapporto esclusivo con una cultura, soprattutto in un paese come l’India, dalle molteplici religioni, «tutte chiamate ad animare la cultura congiuntamente, in dialogo».

Nel contesto indiano è evidente che

la cristianizzazione della cultura, o l’incarnazione del vangelo nella cultura, non è il solo modo in cui il vangelo può porsi in relazione alla cultura. Al contrario, i cristiani, mediante la loro testimonianza, possono spingere la cultura al cambiamento, senza dominarla e senza pretendere di avere una relazione esclusiva con essa25.

Ma, di fronte all’insuccesso del cristianesimo in Asia, sono molti a chiedersi che cosa frena il vangelo di fronte alle grandi religioni, nonostante i numerosi ed eccellenti tentativi di inculturazione, quali quelli di Matteo Ricci26 e Roberto De Nobili.

  1. Pieris sostiene che i modelli finora attuati scaturiscono dalla prassi del cristianesimo latino di separare la religione dalla cultura. Ma ciò che è realmente necessario non è l’inculturazione, ma l’irreligionizzazione, com’è avvenuto per il buddhismo, che si è adattato non solo alle diverse culture, ma anche alle diverse religiosità dei popoli asiatici. La missione cristiana, al contrario, è stata una disincarnazione: non avremmo dovuto trapiantare il cristianesimo in Asia senza prima rompere il vaso in cui era contenuta la pianta. Pieris stigmatizza come febbre dell’inculturazione l’attuale ossessione di dare una parvenza asiatica a una chiesa che non è ancora riuscita a radicarsi sul suolo del continente. Purtroppo, continua, nessuno ha mai avuto il coraggio di rompere il vaso greco-romano in cui il cristianesimo sopravvive da secoli in Asia... come uno striminzito bonsai27. Bisogna andare oltre, ma che cosa significhi questo oltre non è così immediatamente chiaro, soprattutto ai missionari occidentali in Asia.

Il modo in cui la chiesa in Asia può comunicare il vangelo è, secondo il vescovo filippino L.A. Tagle, intraprendere un dialogo esistenziale con gli altri, assumendo la kenosis di Cristo come suo atteggiamento fondamentale, in solidarietà con le minoranze emarginate, mostrando come Dio si trovi a suo agio con le persone in tutte le situazioni. Sicché in Asia va accettato come una benedizione e non come una sgradita necessità lo status di «piccolo gregge», che si affida totalmente alla forza fragile del vangelo28.

Oggi l’inculturazione è chiamata anche all’arduo confronto con il processo di globalizzazione, che relativizza il rapporto del vangelo con le singole culture ed enfatizza la mondializzazione delle stesse attraverso l’imposizione di modelli transculturali, snobbando le culture locali e il rapporto interculturale.

D’altra parte anche l’eccessiva contestualizzazione della teologia rischia derive localistiche e tribalistiche che mettono in crisi l’apostolicità e la cattolicità della fede cristiana, cioè la sua fedeltà alle origini e la sua disponibilità nei confronti del futuro.

 

  1. Conclusione

Se in un mondo globalizzato è importante individuare i nuovi areopaghi della missione, tuttavia, perché l’annuncio del vangelo sia efficace, la chiesa – le comunità cristiane, i missionari – deve prestare più attenzione all’articolazione del contenuto della proclamazione (secondo il modello dell’incarnazione kenotica) e alla forma della missione (vivendo la kenosis in dialogo con i poveri, con le diverse religioni e culture)29.

 

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

Mario Menin

docente di missiologia, ecumenismo e teologia delle religioni presso lo Studio teologico interdiocesano di Reggio Emilia, direttore delle riviste «Ad Gentes» e «Missione Oggi»

Oltre ai saggi citati nell’articolo, per ulteriori approfondimenti si rinvia a M. Menin, Il vangelo incontro alle culture, PUG, Roma 2008; Id., Missione, EMI, Bologna 2010.

 

 

 

 1 Cf. J.Ch. Hoekendijk, The church inside out, Westminster Press, London 1964.

2 Cf. G. Gutierrez, Teologia della liberazione. Prospettive, Queriniana, Brescia 19922.

3 A.A. Roest Crollius, What is so new about inculturation?, in «Gregorianum» 59 (1978) 721-738.

4 Cf. P.F. Knitter, Una terra molte religioni: dialogo interreligioso e responsabilità globale, Cittadella, Assisi 1998.

5 Cf. S.B. Bevans - R.P. Schroeder, Teologia per la missione oggi. Costanti nel contesto, Queriniana, Brescia 2010, pp. 449-623; G. Colzani, Missiologia contempora- nea. Il cammino evangelico delle chiese: 1945-2007, San Paolo, Cinisello B. 2010, pp. 121-318.8

6 Cf. L. Rütti, Zur Teologie der Mission. Analysen und neue Orientierungen, Kaiser-Grünewald, Mainz-München 1972.

7 Cf. l’intervento di A.-P. Rethmann, New Life in Jesus in the Aeropagus of a Glo- balized World. A European Perspective, in occasione della IV Conferenza dell’IACM (International Association of Catholic Missiologist) tenutasi a Tagaytay City (Filippine) dal 27 luglio al 2 agosto 2010.

8 Cf. I. Ellacuria - J. Sobrino (edd.), Mysterium liberationis. Conceptos funda- mentales de la Teología de la Liberación, voll. I-II, Editorial Trotta, Madrid 1990 (tr. it., Mysterium liberationis, Cittadella-Borla, Assisi-Roma 1992).

9 G. Canobbio, La teologia della missione dal Vaticano II ad oggi, in «Ad Gentes» 1 (1997/2) 143.

10 Cf. Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (8.12.1975) (EN), n. 29, in Enchiridion Vaticanum, vol. 5, 1621 (EDB, Bologna 198011).

11 Cf. R. Panikkar, Il Cristo sconosciuto dell’induismo, Jaka Book, Milano 2008.

12 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio circa la permanente validità del mandato missionario (12.7.1990), in Enchiridion Vaticanum, vol. 12 (EDB, Bologna 19932).

13 Cf. M. Menin, Ritrovare il coraggio dell’annuncio. A proposito della Nota dottri- nale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, in «Ad Gentes» 12 (1/2008) 121-124.

14 Cf. l’intervento di R.P. Schroeder, Mission as Table Fellowship in the Areopagus of Today’s World, in occasione della citata IV Conferenza dell’IACM.

15 Cf. M. Barros - L.E. Tomita - J.M. Vigil (edd.), I volti del Dio liberatore. Le sfide del pluralismo religioso, EMI, Bologna 2004.

16 Il terreiro è il luogo di culto del Candomblé, una religione afrobrasiliana che mescola riti indigeni, credenze africane ed elementi cristiani (n.d.r.).

17 Atabaque-Asett, Teologia afro-americana. II Consulta Ecumênica de Teologia e Culturas Afro-Americana e Caribenha, Paulus, São Paulo 1997, p. 20.

18 Cf. l’intervento dell’équipe di riflessione permanente dell’Instituto latino- americano de misionología (Cochabamba-Bolivia), La transitoriedad desde la hondura-anchura como método misionológico, in occasione della citata IV Conferenza dell’IACM.

19 Per le diverse denominazioni, rimandiamo a M. de França Miranda, Incultu- razione della fede. Un approccio teologico, Queriniana, Brescia 2002, pp. 43-51.

20 Si veda la vicenda della Rivoluzione dell’autenticità nel Congo RD (ex Zaïre), all’inizio degli anni Settanta, con il gen. Mobutu, presidente del paese, in conflitto con l’arcivescovo di Kinshasa, card. Joseph-Albert Malula.

21 Anche la Redemptoris missio riprende la questione, stigmatizzando il rischio di «passare acriticamente da una specie di alienazione dalla cultura a una supervalutazione di essa, che è un prodotto dell’uomo, quindi è segnata dal peccato» (n. 54).

22 Cf. J.A. Scherer - S.B. Bevans (edd.), New Directions in Mission and Evan- gelization. 3: Faith and Culture, Orbis Books, Maryknoll-New York 1999, pp. 17-28. 54-75. 159-174.

23 Cf. M. Amaladoss, The Challenges of Mission Today, in W. Jenkinson - H. O’Sullivan, Trends in Mission toward the 3rd Millennium, Orbis Books, Maryknoll- New York 1991, p. 368.

24 Cf. M. Amaladoss, Oltre l’inculturazione. Unità e pluralità delle chiese, EMI, Bologna 2000, p. 31.

25 Ibid., pp. 31-32.

26 Per una buona sintesi si veda la monografia intitolata: Matteo Ricci: tra vangelo e cultura, in «Rivista Liturgica» 2 (2010).

27 Cf. A. Pieris, Per una teologia asiatica di liberazione, Cittadella, Assisi 1990.

28 Cf. L.A.G. Tagle, New Life in Jesus in the Areopagus of a Globalized World: Some Reflections from Asia, in occasione della citata IV Conferenza dell’IACM.

 

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