L’eucaristia, Il Sacerdozio e La Bellezza Di Dio

Pubblicato in Missione Oggi

La Lettera pastorale che il Vescovo Luciano Monari ha consegnato alla Chiesa di Brescia per l’anno 2010-2011 (Tutti siano una cosa sola, Brescia 2010) ha come tema fondamentale la comunione: in Dio Trinità, col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, fra il Vescovo e i sacerdoti, fra i battezzati tutti e fra la comunità ecclesiale e la famiglia umana, al cui servizio essa si pone come lievito nella pasta. La lettera costituisce un’efficace sintesi di ecclesiologia biblica, di sapore soprattutto giovanneo e paolino: la Chiesa vi è vista come Chiesa dell’amore, modellata sulla comunione trinitaria e continuamente rigenerata dalla Parola e dai Sacramenti, in cui si celebra il memoriale della morte e resurrezione di Cristo e si fa esperienza della Sua presenza salvifica e vivificante. In particolare, è l’Apostolo Giovanni a vedere la fraternità cristiana e il servizio della carità come frutto diretto della comunione con la vita divina realizzata mediante l’incontro col Signore Gesù: punto su cui la Lettera insiste molto.

Si tratta di un motivo espresso con chiarezza dal cosiddetto motivo della “corrispondenza”: “La formula più corrente mediante la quale Giovanni dà espressione alla realtà escatologica della Chiesa è la semplice congiunzione ‘come’ (καθώς). Essa non soltanto stabilisce un legame di somiglianza fra Cristo e i suoi discepoli, ma indica anche che ciò che è in Dio deve essere pure in coloro che gli appartengono”[1]. La comunione d’amore, che lega il Figlio al Padre e agli uomini, è al tempo stesso il modello e la sorgente della comunione fraterna, che dovrà legare i discepoli fra loro: “I testi in καθώς, che affermano una corrispondenza ontologica fra le persone divine e la comunità cristiana, sfociano precisamente in un comando: ‘Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi’ (Gv 15,12; cf. 13,34); ovvero: ‘Che essi siano uno, come noi siamo uno’ (Gv 17,21. 22)”[2]. La Chiesa dell’amore nasce dalla partecipazione alla vita della Trinità, resa possibile dall’incontro col Verbo venuto nella carne e dalla comunione alla Parola e al Pane di vita da lui donati agli uomini.

È qui che si affaccia il motivo della “bellezza”, su cui vorrei insistere nella mia riflessione. Bello è il Pastore che ci ama e offre la sua vita per noi (cf. Gv 10,11): bello è tutto ciò che è amabile (“non possumus amare nisi pulchra”, dice Agostino nel De musica, VI, 13, 38) e perciò bello è Lui, l’Amato dal Padre, l’Amore incarnato di Dio. La Chiesa dell’amore, che nasce dal dono della Parola e del Corpo di Gesù, è per eccellenza il luogo in cui si offre sulla terra la divina bellezza, spesso nel segno conturbante della Croce.  È Agostino a interrogarsi sull’enigma di questa bellezza, inseparabile dal volto sfigurato del Figlio dell’Uomo nell’ora dell’ultimo abbandono:

 

Due flauti suonano in modo diverso, ma uno stesso Spirito vi soffia dentro. Dice il primo: ‘Egli è il più bello tra i figli degli uomini’ (Sal 45,3); e il secondo, con Isaia, dice: ‘Lo abbiamo visto: non aveva né bellezza, né decoro’ (Is 53,2). I due flauti sono suonati da un unico Spirito: essi dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirli, ma cercare di capirli. Interroghiamo l’apostolo Paolo per sentire come ci spiega la perfetta armonia dei due flauti. Suoni il primo: ‘Il più bello tra i figli degli uomini’, ‘benché avesse la forma di Dio, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio’ (Fil 2,6). Ecco in che cosa sorpassa in bellezza i figli degli uomini. Suoni anche il secondo flauto: ‘Lo abbiamo visto: non aveva più né bellezza, né decoro’: questo perché ‘spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana’ (Fil 2,7). ‘Egli non aveva bellezza né decoro’ per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L’amore della carità, affinché tu possa correre amando e amare correndo... Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello (Sant’Agostino, In Iohannis Epistulam, IX, 9).

 L’amore con cui ci ha amati trasfigura “l’uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la faccia” nel “più bello dei figli degli uomini”: Cristo, crocefisso amore, è la bellezza che salva. Bello è il farsi presente del Tutto nel frammento o mediante la proporzione della “forma”, capace di riprodurre nel piccolo l’armonia dell’intero (perciò “formosus” è il bello!), o attraverso lo splendore, in cui si incontrano rapimento e irruzione: “splendida” è la bellezza. Nel Figlio Gesù entrambe queste espressioni della bellezza convergono: in quanto icona del Dio invisibile, egli ne rende presente il volto o la forma nella carne degli uomini; in quanto irruzione dell’infinito Amore nella morte, egli redime la nostra finitudine entrando in essa come luce nelle tenebre. Qui l’anima classica, per la quale il bello è “forma”, riproduzione mondana dei “numeri del cielo”, si incontra con la novità cristiana, che contempla il bello nella consegna d’amore che fa di se stesso Colui davanti al quale ci si copre la faccia, l’infinito Bene che si è offerto per noi nella finitezza dell’abbandono (è significativo che il termine “bello” derivi dal medioevale “bonicellum”, che significa appunto “piccolo bene”, “bene abbreviato”...). Nel Figlio il tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: il Dio Crocifisso è la forma e lo splendore dell’eternità nel tempo. Sulla Croce il “Verbum abbreviatum” - “kènosi” del Verbo eterno - rivela la Bellezza che salva!

Questo mistero di bellezza del Figlio consegnato per noi è reso presente specialmente nell’Ultima Cena, memoriale in cui l’evento del Calvario si attualizza nel tempo per la forza dello Spirito. Nel frammento dei segni eucaristici è il Tutto di Colui che è in persona l’Amore crocifisso e risorto a donarsi: l’eucaristia è il sacramento in cui viene a farsi presente l’eternità nel tempo, la Trinità nella storia, e, proprio così, è l’evento della bellezza che salva. In quanto, poi, dall’eucaristia, “sacramentum unitatis”, nasce la Chiesa, la bellezza che in essa si offre si trasmette all’intera comunione dei santi. Questo passaggio di bellezza in bellezza - dal bel Pastore alla bellezza sacramentale dell’eucaristia e da questa alla bellezza ecclesiale - fa risplendere nella notte del tempo la luce del Sole divino: la Chiesa che celebra l’eucaristia è come la luna piena, radiosa e bella della bellezza del suo Sposo, Cristo. I tre aspetti inseparabili della celebrazione eucaristica - “memoriale pasquale”, “convito sacrificale” e “pegno della gloria futura” - sono allora come tre finestre sull’unica Bellezza che salva, offerta agli uomini nei frammenti del pane di vita e del calice della salvezza: e queste aperture sul mistero gettano luce anche sull’identità e la missione di colui che  presiede la celebrazione dell’eucaristia, il ministro ordinato, e sulla sua missione al servizio dell’edificazione della comunità.

 

  1. a) Anzitutto, l’eucaristia è il memoriale pasquale in cui, obbediente al comando del Signore, la Chiesa fa “memoria” di Lui (cf. Lc 22,19 e 1 Cor 11,24s): in senso biblico il “memoriale” non è il semplice ricordo di un evento passato, paragonabile alla categoria occidentale di “memoria”, che esprime un movimento puramente ideale dal presente al passato per una sorta di dilatazione della mente (“extensio animi ad praeterita”), ma indica esattamente il movimento contrario dal passato all’oggi della celebrazione. I termini ebraici “zikkaron”, “azkarah”, tradotti in greco con “anámnesis”, “mnemósynon”, esprimono il farsi contemporaneo dell’evento unico e definitivo della salvezza per opera della potenza divina attualizzatrice. Il “già” della Pasqua del Signore si ripresenta nella celebrazione del popolo di Dio pellegrino nel tempo per attuare nell’oggi la riconciliazione salvifica. E come nell’evento pasquale è la Trinità ad operare, così nel memoriale eucaristico è l’agire trinitario a farsi presente: la Chiesa invoca il Padre “veramente santo e fonte di ogni santità” perché mandi lo Spirito sui doni del pane e del vino e renda presente in essi sacramentalmente il Cristo sofferente e glorificato (epiclesi consacratoria e memoriale della Cena del Signore). Per la partecipazione a questi santi doni, la Chiesa sa di venire edificata in “un solo corpo e un solo spirito” (epiclesi fruttificante).

         Nell’eucaristia la Chiesa celebra così la memoria potente della sua origine, di quell’iniziativa trinitaria dell’amore, che l’ha posta nel tempo come segno e strumento di unità per tutto il genere umano. Alla luce del memoriale eucaristico si comprende con particolare intensità come “l’amore di Gesù non sia solo un modello da riprodurre, ma anzitutto un dono da ricevere e trasmettere” (L. Monari, Tutti siano una cosa sola, n. 5). In quanto ripresentazione del dono dell’amore infinito, l’eucaristia è evento di bellezza per chiunque la viva nella fede, anzitutto per il sacerdote che la celebra. Mediante la continuità ininterrotta della successione apostolica, nella quale è inserito attraverso l’ordinazione, il presbitero è legato all’unico sommo ed eterno Sacerdote, che nella sera della Cena consegnò ai suoi apostoli e ai loro successori il mandato di celebrare il memoriale della Sua Pasqua per la salvezza del mondo. È questa radicazione apostolica che fa del ministro ordinato l’“alter Christus”, colui che agisce “in persona Christi”.

         La presidenza nella celebrazione del memoriale eucaristico non è, dunque, semplicemente “funzionale”, ma si radica in una realtà ontologica, nel mistero della configurazione sacramentale dell’ordinato al “bel Pastore”, Cristo sacerdote, “in modo che egli possa agire in persona di Cristo capo” del corpo ecclesiale (Presbyterorum Ordinis, 2). È perciò che il presbitero - in forza della sua stessa condizione di presidente dell’eucaristia - è chiamato a porsi per primo ed in maniera esemplare nell’attitudine recettiva del dono di Dio, attraverso lo spirito di azione di grazie e la profondità contemplativa della vita: “presiedere” è in questo senso soprattutto “ricevere”, lasciarsi inondare dalla bellezza di Cristo per irradiarla a tutti. Insieme a colui che agisce “in persona Christi Capitis”, è l’intera comunità da lui presieduta nella celebrazione ad essere chiamata ad accogliere così il dono: si radica qui la vocazione del cristiano ad essere “uomo eucaristico” nella totalità del suo essere e del suo agire, impegnato al tempo stesso a discernere, accogliere e testimoniare nella preghiera e nella vita i segni della bellezza di Dio.

         “Esistenza accolta” nel riconoscimento del dono dall’alto, il sacerdozio battesimale e ministeriale è non di meno “esistenza donata”: la celebrazione dell’eucaristia costituisce i discepoli nella stessa condizione in cui si è posto Gesù nell’ultima cena. I richiami vetero-testamentari dei racconti dell’istituzione dell’eucaristia concordano nel delineare la figura del Cristo agente in essi come quella del Servo sofferente (cf. Is 42,6; 49,8s) e, mentre presentano l’immagine sacrificale dell’agnello (cf. 53,7), insegnano anche l’espiazione dei peccati mediante la sostituzione di una vittima innocente (cf. 53,10-12;Mt 26,28 e Mc 14,24). Le influenze della figura del Servo sofferente sul quadro dell’Ultima Cena vengono confermate dall’evangelista Luca, che riferisce nel contesto della Cena i due detti sul servizio di coloro che hanno autorità (Lc 22,24-27), e da Giovanni, che vede nella lavanda dei piedi l’espressione perfetta del senso interiore dell’eucaristia, di cui non parla (cf. Gv 13,1-20). Il legame fra il Servo e la Cena non è dunque accidentale, ma fa parte del senso stesso del memoriale eucaristico.

         La Chiesa, che da questo memoriale è generata ed espressa, deve allora comunicare alla sorte del Servo, diventando essa stessa serva: mangiando il corpo donato deve diventare, per la forza che esso le comunica, corpo ecclesiale donato, corpo per gli altri, corpo offerto per le moltitudini. “È l’eucaristia - scrive Mons. Monari - che trasmette alla Chiesa la forma dell’amore oblativo, quella forma che Gesù ha iscritto nel pane e nel vino quando ha detto: ‘Questo è il mio corpo per voi… è il mio sangue per voi’” (Tutti siano una cosa sola, n. 29). La bellezza che salva, che ci raggiunge nell’eucaristia, si fa eloquente specialmente nel dono della vita quotidianamente offerta per amore: la carità - “agàpe”, in cui il Bel Pastore si fa prossimo ai suoi, non a caso designava nella Chiesa delle origini tanto il memoriale della Cena del Signore quanto la comunità fraterna da esso generata ed espressa. Perciò chi presiede l’eucaristia è chiamato più di ogni altro ad essere icona vivente del dono dell’amore di Cristo. La dimensione più profonda dell’identità presbiterale si manifesta nella carità pastorale del sacerdote, fatta di accoglienza, umiltà e dono di sé senza riserve: dove questa manchi, si appanna l’immagine stessa di Cristo nel Suo ministro. Perciò, “i preti debbono essere sinceramente umili, consapevoli di portare in tesoro di cui non sono proprietari ma solo amministratori… Il tesoro è Cristo… di lui siamo solo sacramento e i sacramenti sono fatti di cose povere proprio perché non venga offuscata la bellezza del dono” (Tutti siano una cosa sola, n. 22).

 

  1. b) Il memoriale eucaristico è indissolubilmente congiunto al secondo aspetto dell’eucaristia, quello di convito sacrificale: la Chiesa nascente testimonia di aver percepito chiaramente questa inseparabile unità: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Cor 11,26). Già sul piano dei segni il pane della Cena è il pane della fraternità, come il calice di vino esprime la condivisione della stessa sorte: nella tradizione giudaica la comunità conviviale è comunione di vita, e il calice è l’immagine della sorte dolorosa di un uomo. La frazione del pane, con la distribuzione di un pezzetto a ciascuno, e la partecipazione allo stesso calice di vino sono segno di una profonda solidarietà nella comunanza di sorte. Gesù lega così esplicitamente l’istituzione dell’eucaristia al banchetto della fraternità: il memoriale pasquale risulta ecclesiale nel suo stesso segno e per suo mezzo. Ne consegue che la celebrazione della memoria del Signore esige e fonda la comunione dei convitati a Cristo e fra di loro: la comunione ai santi doni (“communio sanctorum” nel senso del genitivo plurale neutro) produce la comunione dei santi (“communio sanctorum” nel senso del genitivo plurale personale).

         La Chiesa è la “communio sanctorum”, perché partecipando mediante l’economia sacramentale - di cui è vertice e sorgente l’eucaristia - all’unico Spirito ( “communio Sancti” ), i battezzati sono arricchiti dalla varietà dei suoi doni, orientati tutti all’utilità comune (comunione dei santi). Questi doni incessantemente lo Spirito li distribuisce a ciascuno come vuole. Essi vengono detti “carismi” , doni gratuiti, cioè, frutto della libertà e della fantasia dello Spirito, da Lui elargiti con sovrabbondante ricchezza, e rivolti alla crescita dell’intero Corpo di Cristo: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1 Cor 12,7). In forza del battesimo, che nello Spirito lo configura a Cristo a gloria del Padre, ogni cristiano è un “carismatico” , chiamato a riconoscere e accogliere il dono di Dio e perciò a pronunciare con la parola e con la vita tre “no”e tre “sì”.

         Il primo “no” è al disimpegno, a cui nessuno ha diritto, perché lo Spirito dà a ciascuno dei doni da vivere nel servizio e nella comunione: a questo “no” deve corrispondere il “sì” alla corresponsabilità, per cui ognuno si faccia carico per la propria parte del bene comune da realizzare secondo il disegno di Dio. Il secondo “no” è alla divisione, che parimenti nessuno può sentirsi autorizzato a provocare, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa (cf. 1 Cor 12,4-7): il “sì” che ad esso corrisponde è quello al dialogo fraterno, rispettoso della diversità e volto alla costante ricerca della volontà del Signore. Il terzo “no” è alla stasi e alla nostalgia del passato, cui nessuno può acconsentire, perché lo Spirito è sempre vivo ed operante nello svolgersi dei tempi: ad esso deve corrispondere il “sì” alla continua, necessaria purificazione e riforma, per la quale ognuno possa corrispondere sempre più fedelmente alla chiamata di Dio, e la Chiesa tutta possa celebrarne pienamente la gloria.

         Attraverso questo triplice “no” e questo triplice “sì”, in maniera dunque dinamica e mai del tutto compiuta, la Chiesa si presenta come riflesso luminoso ed irradiante della bellezza di Dio, casa e scuola di quella comunione, rispettosa delle diversità, che è veramente buona novella per tanti uomini e donne prigionieri della solitudine e dell’incapacità di amare. Ne consegue lo stile di una Chiesa aperta allo Spirito e alle sue sorprese: sempre impegnata nella vittoria sulla tragica resistenza del peccato personale e sociale, “semper reformanda et purificanda” , essa deve essere docile nel discernimento dei doni del Signore, specialmente in coloro che hanno ricevuto il carisma proprio del discernimento o del coordinamento dei carismi: i ministri ordinati. “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, ritenete ciò che è buono” (1 Tess 5,19-20). In questa luce, il ministero, ricevuto con l’ordinazione sacramentale, è veramente non la “sintesi dei ministeri”, ma il “ministero della sintesi”, che deve dimostrare con la vita come “nessuno possa vivere in modo equilibrato la sua vocazione se non accetta e valorizza la presenza delle vocazioni diverse che lo Spirito suscita accanto a lui” (Tutti siano una cosa sola, n. 27).

         Chi annuncia autorevolmente la Parola di Dio e celebra “in persona Christi Capitis” il sacrificio, presiedendo l’eucaristia, è chiamato a discernere e coordinare i carismi di tutti, servendo in tal modo l’unità del Corpo, che è la Chiesa. Diverso essenzialmente da ogni altro ministero, perché rende presente il Cristo come Capo del Corpo ecclesiale, il ministero ordinato è propriamente il ministero dell’unità, come mostra efficacemente proprio la celebrazione eucaristica. La “communio” nata dall’eucaristia si esprimerà, pertanto, nella comunione vera e vitale di ciascun battezzato - ed in primo luogo del presbitero - col Vescovo, con la Chiesa locale e con la “Catholica”, presieduta e significata dal Vescovo della Chiesa che presiede nell’amore: questa comunione - per quanto possa essere a volte sofferta - è il segno della bellezza di Dio che unisce i cuori di quanti ne hanno fatto profonda esperienza e può offrirsi veramente come buona novella in un mondo che - specialmente nel tempo post-moderno - appare spesso come una folla di solitudini!

         Chi, come il sacerdote, è chiamato a presiedere l’eucaristia, è per questa stessa vocazione e missione chiamato a servire l’unità del Corpo ecclesiale di Cristo come segno e servo di comunione: egli sarà tanto più testimone della bellezza di Dio quanto più porrà la sua vita al servizio della comunione della Chiesa nella fede e nell’amore, quale strumento e profezia per l’unità della famiglia umana nella giustizia e nella pace, in unità profonda col Vescovo e con gli altri sacerdoti. Scrive ancora Mons. Monari: “Il ministero di un prete è autentico solo se si salda realmente con il ministero degli altri preti e quindi con il ministero del vescovo che è centro dell’unità del presbiterio diocesano. E la comunione sacramentale sarà tanto più credibile ed efficace quanto più sarà accompagnata da un’effettiva fraternità” (Tutti siano una cosa sola, n. 19). L’impegno di comunione, sgorgante dall’eucaristia, riguarda in modo specialissimo l’intero collegio dei presbiteri: “Un presbiterio funziona bene se tutti vivono al meglio la legge della comunione; diventa pesante e grigio se ciascuno cerca una sistemazione personale e non si accolla la sua quota parte di fatica (o di umiliazioni, o di rinunce)”(ib., n. 21). Anche fra i presbiteri la bellezza di Cristo risplende se li unisce la comunione da Lui voluta e donata!

 

  1. c) Il memoriale, che Gesù confida ai Suoi Apostoli, è, infine, pegno della gloria futura, “panis viatorum”, pane dei pellegrini e nutrimento della speranza, che non delude. Nell’ultima Cena, infine, Gesù annuncia che non berrà più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrà nuovo con i suoi nel Regno del Padre suo (cf. Mt 26,29; Mc 14,25), finché cioè il Regno non venga (cf. Lc 22,18). Mangiando il pane e bevendo al calice dell’eucaristia i discepoli annunziano la morte del Signore fino a che Egli ritorni (cf. 1 Cor 11,26). Il banchetto della nuova Pasqua rimanda a un altro banchetto, quello definitivo del Regno, di cui è anticipazione e promessa e verso il quale fa lievitare la storia. L’eucaristia è, in tal senso, il sacramento della speranza del mondo, l’anticipazione della bellezza senza tramonto promessa alla creazione intera! L’eucaristia come “pegno della gloria futura” viene così a segnare in vario modo la vita del discepoli: in primo luogo, in quanto il banchetto eucaristico fa lievitare il “già” verso il “non ancora”, esso comporta in chi lo celebra una profonda e continua purificazione e un incessante rinnovamento.

         In questo senso, San Bernardo non esita ad affermare: “Amaritudo Ecclesiae sub tyrannis est amara; sub haereticis est amarior; sed in pace est amarissima” - “L’amarezza della Chiesa è amara quando la Chiesa è perseguitata dai tiranni; è più amara ancora quando la Chiesa è divisa dagli eretici; è amarissima, quando la Chiesa se ne sta tranquilla e in pace” (Sermones super Cantica Canticorum 33,16). Il “panis viatorum” mette la Chiesa continuamente in stato di via, liberandola dall’illusione di essere già ora “in patria”, nel compimento della Gerusalemme celeste riservato a quando il Bel Pastore tornerà nella gloria: in quanto “viatico”, cibo che alimenta la fatica del cammino, il banchetto eucaristico sostiene l’esodo del tempo presente e lo illumina della promessa di Dio, costituendo una sorta di “riserva escatologica” che spinge la Chiesa alla continua riforma e al rinnovamento incessante e la rende vigile e critica di fronte a ogni presunta grandezza di questo mondo. Il sacerdote che presiede l’eucaristia è perciò chiamato più di ogni altro ad essere il testimone della continua purificazione e riforma, la sentinella della novità di Dio da tirare ed accogliere continuamente nel presente degli uomini.

Proprio così, il pane eucaristico, nutrimento dei pellegrini verso la città di Dio, è pane della speranza (“fármakon athanasías” – “medicina di immortalità”, dicevano i Padri greci) che rende il discepolo libero nella fede rispetto a ogni potere terreno e lo fa servo per amore. Il richiamo della fine, costituito dal memoriale eucaristico, insegna alla Chiesa a relativizzare le grandezze di questo mondo: nella forza del pane di vita, tutto va sottoposto al giudizio della Croce e della Resurrezione del Signore. In nome della sua meta più grande, la Chiesa generata dall’eucaristia dovrà essere sovversiva e critica verso tutte le miopi realizzazioni di questo mondo: presente ad ogni situazione umana, solidale con il povero e con l’oppresso, non le sarà lecito identificare la sua speranza con una delle speranze della storia. Questo non significherà certo disimpegno o critica a buon mercato: la vigilanza che è chiesta alla Chiesa è ben più costosa ed esigente. Si tratta contemporaneamente di assumere le speranze umane e di verificarle al vaglio della Resurrezione, che da una parte sostiene ogni impegno autentico di liberazione dell’uomo, dall’altra contesta ogni assolutizzazione di mete terrene. In nome della speranza più grande, di cui si nutre nel pane eucaristico, la Chiesa tutta, ed in particolare il sacerdote, non potrà identificarsi con alcuna ideologia, con alcuna forza partitica, con alcun sistema, ma di tutti dovrà saper essere coscienza critica, richiamo dell’origine e della fine, stimolo affinché in tutto si tenda a sviluppare tutto l’uomo in ogni uomo.

         Infine, il richiamo della fine offerto nel pane di vita riempie la Chiesa di gioia: essa esulta già nella speranza, che il pegno della gloria promessa ha acceso in lei. Essa sa di essere l’anticipazione militante di quanto è stato promesso nella Resurrezione del Crocifisso. Non c’è sconfitta, non c’è vittoria della morte, che possa spegnere nella comunità dei credenti la forza della speranza: l’ultima parola è garantita nella vicenda di Pasqua come parola di gioia e non di dolore, di grazia e non di peccato, di vita e non di morte. Come i pellegrini di Sion, i cristiani sanno di essere in cammino verso una meta che è bella, e alla quale giungeranno per la grazia del Signore: “Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore!” (Sal 122,1). Dio ha tempo per l’uomo e costruisce con lui la sua casa! La Gerusalemme, sospirata ed attesa, scende già dal cielo: ai credenti, nutriti del pane di vita, resta il compito di vivere il mistero dell’Avvento nel cuore della vicenda umana. E al sacerdote, che presiede l’eucaristia, sarà giustamente richiesto di essere il testimone della gioia e della speranza del Regno che viene, il segno vivo e credibile di Colui che ha vinto il mondo nell’amore, a cui la Chiesa anela con tutto il suo cuore: “Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!”. A lei egli risponde: “Sì, vengo presto” (Ap 22,17.20).

Così, grazie all’eucaristia, anche nella vita del cristiano - e del presbitero in particolare - i due flauti della bellezza, di cui parla Agostino, suonano insieme: ed egli, condotto dall’unico Spirito che soffia in essi, può veramente “correre amando e amare correndo”. La verifica della nostra vita sugli orizzonti evocati del rapporto fra eucaristia e bellezza si fa, allora, interrogazione e preghiera: vivo nell’eucaristia e a partire da essa il primato della dimensione contemplativa della vita? Esercito il mio ministero di presidenza dell’eucaristia come un “ricevere”, che si esprime e si attua nell’azione di grazie ininterrotta della mia vita? Mi impegno alla scuola del mistero della fede, che è l’eucaristia, a vivere il discernimento della bellezza di Dio, ovunque essa sia rivelata o nascosta? Esprimo la ricchezza del dono ricevuto nel memoriale pasquale attraverso la carità del mio agire? Vivo la comunione di cui l’eucaristia è scuola e sorgente? Attingo al sacramento dell’incontro con Cristo missionario del Padre lo slancio e la fedeltà del mio impegno missionario? Mi sento spinto dalla celebrazione eucaristica alla continua riforma della vita e alla vigilanza critica nei confronti di qualunque preteso assoluto mondano? Sono testimone della speranza e della gioia che dall’eucaristia vengono al cuore e alla vita? Consapevoli della fragilità delle nostre risposte, ci rivolgiamo con fiducia a Colui che nel pane di vita ci offre continuamente la bellezza del Suo dono, aiuto e caparra di vita vera e piena, e a lui diciamo dal profondo del cuore:

 

Ti rendiamo grazie, Signore Gesù Cristo,

che hai voluto confidare alla Tua Chiesa

il memoriale della Tua Pasqua.

Concedici di celebrare nella vita e nella storia

la memoria potente della Tua passione e della Tua resurrezione

per il dono dello Spirito,

che compie nel tempo la santa promessa.

Fa’ che, docili a Lui,

sappiamo lasciarcene trasformare,

e, uniti in Lui per il mistero del Tuo Corpo e del Tuo Sangue,

sappiamo vivere in comunione

e crescere in comunione,

dando ai nostri atti un respiro di Chiesa

secondo la missione, che Tu affidi a ciascuno.

E il banchetto santo di questo giorno presente

sia per noi il pegno vivo e gustoso

del banchetto in cui mangeremo per sempre

il pane cotto del Regno.

Amen! Alleluia!

 

     [1] P. Le Fort, Les structures de l'Église militante selon Saint Jean. Étude d'ecclésiologie concrète appliquée au IVe évangile et aux épitres johanniques, Genève 1970, 172.

     [2] Ivi.

 

 (Brescia, Agorà della Diocesi, 31 Agosto 2010)

+ Bruno Forte

Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto

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