Voglio cominciare dicendovi che da 18 anni sto lavorando nel carcere femminile della città di Santiago del Cile: quando la mia comunità del Buon Pastore mi ha inviato in questo luogo l'ha fatto con l'intenzione di evangelizzare queste donne che erano private della loro libertà.
Quando ho potuto conoscere la realtà in cui vivevano queste persone -erano quasi due mila donne rinchiuse in un carcere pensato per 600, soggiogate dalla povertà e dalla miseria- sono arrivata alla conclusione che non c'erano le condizioni minime per parlare loro di un Dio che ama; prima era necessario conoscere le loro storie. Ho visto drammatici episodi di povertà, abuso e violenza; bisognava superarli per recuperare la loro dignità violata e sminuita.
Assieme a un sacerdote, e ispirati nel celebre episodio del vangelo, abbiamo creato la fondazione "donna alzati" (cf. Mc 5,41), e abbiamo cominciato a lavorare con loro quattro dimensioni importanti per la vita di una persona macchiata da un delitto: la misericordia, l'accoglienza, il perdono e la restaurazione.
È stato necessario aiutare queste donne a rendersi consapevoli di avere in diversi modi fatto del male ad altri ma allo stesso tempo di essere a loro volta vittime di un sistema ingiusto che le calpestava permanentemente perché non dava loro nessuna possibilità, quasi sempre prive di educazione e nella più assoluta miseria.
L'essere con loro, avere qualcuno dalla loro parte permette loro di sentirsi abbracciate dall'amore di Dio e restaurava la loro identità personale: era È primo passo verso il riconoscimento del male fatto.
In Cile i carcerati spesso non sono visibili: le pareti del carcere sono molto alte ma non tanto per evitare che i prigionieri scappino, ma per evitare che siano semplicemente visti. È una sottile forma per cancellare la loro identità. In questo senso è stata provvidenziale la visita del Papa Francesco che ha fatto vedere al Cile e al mondo intero la realtà di queste donne private di libertà.
Per lavorare in carcere bisogna essere coraggiosi, io stessa ho sofferto il rifiuto da parte di alcune persone: è un lavoro per niente valorizzato e riconosciuto.
Personalmente, in occasione della pandemia Covid19, ho deciso di trasferire la mia residenza la dentro perché era l'unica forma per essere presente in quel luogo che improvvisamente era diventato inaccessibile. È stata una esperienza molto positiva dal momento che ho potuto accompagnare da vicino il dolore, l'angustia e anche la paura della morte... loro sapevano che se si fossero ammalate di Covid e sarebbero state portate in ospedale certamente i medici non si sarebbero prodigati per loro.
Potrei dire tante cose sul tema della giustizia riparatrice ma è importante che riconosciate che ricostruire la dignità e la vita di una persona è un processo lento. Quando mi chiedono quante donne si convertono... io sinceramente rispondere di non saperlo: Dio solo sa ed è un processo lungo e che dura tutta la vita. Ma una cosa la so: alzare chi è caduto vale tutti gli sforzi del mondo e anche in carcere si può arrivare a vivere la libertà più vera che è quella del cuore.
Abbiamo lavorato molto per avere leggi che favoriscano processi non di castigo ma di restaurazione; il sogno della fondazione "donna alzati" è quello di un paese giusto con donne libere; è importante essere coraggiosi e lottare per costruire leggi che non schiaccino ma che innalzino le persone. La legge, come ha detto Gesù, non deve schiacciare lo spirito.
* Suor Nelly León dell'ordine di Nostra Signora del Buon pastore, cappellana del carcere femminile di Santiago del Cile.