World Meeting on Human Fraternity 2024

La seconda edizione del Meeting Mondiale sulla Fraternità Umana (World Meeting on Human Fraternity 2024) si è svolto a Roma nei giorni 10 e 11 maggio per rinnovare la ricerca di alternative alle guerre e alla povertà, ricordarci che siamo tutti fratelli nell’appartenenza alla comune radice umana, e “generare un movimento di fraternità in uscita”, come ha ricordato Papa Francesco durante l' Udienza ai partecipanti, giunti da ogni lato del pianeta. Perciò il titolo scelto quest’anno è “BeHuman”.

Organizzato dalla Fondazione Fratelli Tutti, il Meeting ha visto ben dodici tavoli tematici ai quali hanno partecipato in dialogo 30 Premi Nobel per la Pace, scienziati, economisti, sindaci, medici, manager, lavoratori, campioni dello sport e semplici cittadini provenienti da tutto il mondo. Riflettendo sulla “fraternità” come base di un mondo nuovo, fatto di relazioni umane e sociali belle, hanno tentato di trovare proposte concrete per cominciare a cambiare la storia, stimolare le riforme che mancano, comprendere dove il principio di fraternità è già presente nella vita sociale e discernere i parametri necessari per misurarlo.

L’evento è avvenuto in Vaticano e in altri  luoghi simbolo, come il Palazzo del Campidoglio, il Palazzo della Cancelleria, l’Accademia dei Lincei, Palazzo Rospigliosi, il Cnel, il Salone d’onore del Coni. Ha avuto inizio il 10 Maggio con il tavolo della Pace aperto da Sua Eminenza il Segretario di Stato Cardinale Pietro Parolin. Insieme ai vertici delle maggiori Organizzazioni Internazionali, sono stati presenti tra gli altri: Graça Machel Mandela (moglie di Nelson Mandela), Ibrahim Mayaki, inviato dell’Unione Africana per i sistemi alimentari, e i Premi Nobel per la Pace: Dmitrji Muratov, Jody Williams, Tawakkol Karman, Maria Ressa, Leymah Gbowee, Rigoberta Menchù Tum e Muhammad Yunus.

20240512Fraternity3

Papa Francesco incontra i partecipanti al "World Meeting on Human Fraternity". Foto: Vatican Media

Sabato 11 Maggio mattina, i membri dei Tavoli e i delegati hanno incontrato Papa Francesco nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, ove i Premi Nobel hanno consegnato le prime riflessioni conclusive del tavolo della Pace. Durante l’incontro il Santo Padre ha detto: “In un pianeta in fiamme, vi siete riuniti con l’intento di ribadire il vostro no alla guerra e  alla pace, testimoniando l’umanità che ci unisce e ci fa riconoscere fratelli, nel dono reciproco delle rispettive differenze culturali. In proposito, mi vengono alla mente le parole di un celebre discorso di Martin Luther King, quando disse: Abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci, ma non abbiamo ancora imparato la semplice arte di vivere insieme come fratelli (Martin Luther King. Discorso in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Pace, 11 dicembre 1964).

Il gruppo, poi, si è recato al Quirinale per incontrare il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella. La delegazione era guidata dal cardinale Mauro Gambetti, presidente della Fondazione Fratelli Tutti, Graca Machel Mandela, vice presidente di The Elders, e Muhammad Yunus, premio Nobel per la Pace nel 2006. Al termine dell’incontro, i premi Nobel per la pace Rigoberta Menchu' Tum e Maria Ressa hanno consegnato al capo dello Stato il documento redatto quale Dichiarazione Finale della sessione dei premi Nobel partecipanti a questa seconda edizione del World Meeting on Human Fraternity.

Anche Papa Francesco, in vista della Giornata Mondiale dei Bambini che si terrà il 25 e 26 maggio a Roma, è intervenuto al tavolo di riflessione “Bambini: generazione futuro” presso l’ Aula nuova del Sinodo nella Città del Vaticano. Nel pomeriggio si sono avuti altri vari  Tavoli tematici per approfondire il principio di fraternità nell’ambito dell’ambiente e delle imprese, dello sport e del terzo settore, dell’informazione e del lavoro, della salute e del digitale, dell’educazione, delle amministrazioni locali e della sicurezza alimentare.

Tra gli altri, vi hanno partecipato: il Sindaco di New York Eric Leroy Adams, l’economista Jeffrey Sachs, il commissario tecnico della Nazionale Italiana, Luciano Spalletti, il CEO di FIAT Olivier François, il giovane banchiere Victor Ammer, il Chairperson del Comitato globale per la sicurezza alimentare Nosipho Jezile, il CCO di Dentsu Gordon Bowen, il direttore esecutivo del distretto dell’area di innovazione quantica del Quebec Richard St-Pierre, l’influencer Mattia Stanga, il campione di football americano Tom Brady e il segretario del Dicastero per la Comunicazione vaticana Mons. Lucio Ruiz.

20240512Fraternity1

Meeting Mondiale sulla Fraternità Umana 2024. Foto: Vatican Media

L'evento conclusivo, presentato da Eleonora Daniele, si è svolto presso il portico della Basilica di San Pietro con la presenza del compositore Giovanni Allevi, del cantautore Roberto Vecchioni, di Nek, Garth Brooks e altri. Con il World Meeting on Human Fraternity 2024, grazie ai gruppi di lavoro dell’edizione corrente, la Fondazione Fratelli Tutti intende rinnovare un patto mondiale sulla Fraternità, avviare l’elaborazione di un nuovo codice dell’essere umano e annunciare un grande evento programmato per il 12 e 13 Settembre 2025, durante l’ anno giubilare.

Vorremmo concludere con alcune delle parole del Santo Padre Papa Francesco pronunciate durante l’Udienza ai partecipanti: “[...] E vi invito a non scoraggiarvi, perché il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto (Fratelli tutti, 198).

Antonella Rita Roscilli è giornalista e scrittrice, Direttore Responsabile Sarapegbe - Rivista italiana Bilingue di Dialogo Interculturale. Pubblicato originalmente in: www.sarapegbe.net

“Voi direte (parlando ai giovani) abbiamo tempo a farci santi … No, cominciamo subito: la montagna della santità è molto alta e non ci arriverete mai alla cima; non c’è mai stato alcun santo che si sia lamentato d’essersi fatto troppo santo, o troppo presto” (Beato Allamano, Conf. IMC I, 385-386)

Dal 24 luglio al 6 agosto 2023 si terrà in Portogallo la Giornata Mondiale della Gioventù (GMG). Noi Missionari della Consolata, come abbiamo fatto in edizioni precedenti (soprattutto in Spagna, Brasile e Polonia) vorremmo preparare l’accoglienza e diverse attività per coloro che, legati ai nostri gruppi giovanili, saranno presenti in Portogallo. 

Per noi della Consolata la GMG è composta da due momenti: una prima settimana che faremo fra di noi e una seconda che faremo con tutti a Lisbona. La prima settimana la vorremo dedicata alla formazione e alla celebrazione missionaria: d’accordo al numero di partecipanti staremo in tre delle nostre comunità in Portogallo, poi due giorni tutti assieme a Fatima e da li tutti a Lisbona per la celebrazione ufficiale.

A preparare l’accoglienza sono i nostri missionari animatori insieme ad un folto gruppo di giovani Laici della Consolata e volontari di diversi servizi missionari. Sarà un’occasione di ritrovo e crescita personale, di cammino di fede e di incontro di culture. Ci saranno momenti di festa, dialogo, incontro con missionari, testimonianze di altri giovani del mondo, momenti di ascolto e confronto. Fu il santo papa Giovanni Paolo II a fondare, nel 1984, la GMG. I giovani dovevano essere al centro ed è quello che vogliamo fare nella settimana della Consolata.

Il tema di quest’anno mi sembra specialmente missionario: “Maria si alzò e andò in fretta!” ...per andare dalla cugina Elisabella. (cfr. Lc 1,39) Sono tre gli spunti missionari: la fretta, il cammino e l’incontro.

Iniziamo con la fretta che, funge proprio da apripista della missione. La fretta appartiene alla missione soprattutto dei missionari che sono chiamati a correre, ad incontrare e camminare per arrivare prima possibile a tutti. La fretta di non disperdere e di non sprecare, la fretta di chi vuole solo amare e far crescere le persone.

Il cammino: la missione come viaggio 

L’immagine che caratterizza la missione di Gesù, fin dall’inizio del suo ministero pubblico, è l’itineranza. Lui “percorreva i villaggi d’intorno insegnando” (Mc 6,6). È impossibile riconoscere il suo volto, cogliere realmente i suoi gesti, lasciarsi raggiungere dalle sue parole senza essere per strada con Lui. Da qui, dalla strada, occorre cominciare. 

Se le realtà della fede ci sembrano sfocate, poco significative, di poco impatto sulla nostra vita quotidiana, forse dobbiamo cessare di accusare i tempi cattivi e di puntare il dito sulla mancanza, oggi, di una testimonianza credibile. La causa è più vicina a noi di quanto pensiamo; anzi, è dentro di noi: ci siamo tirati fuori, ci siamo seduti e abbiamo cominciato a fare le nostre analisi per tirare le nostre conclusioni. 

Eppure, l’insegnamento di Gesù, ancora oggi, è inseparabile dalla via polverosa su cui muove i suoi passi. La strada non è diversa da quella su cui ci troviamo quando siamo in movimento con Lui oppure siamo fermi ai margini con la pretesa di capire tutto quello che succede ancora prima di muovere un passo. 

Come interpretiamo lo smarrimento del tempo che stiamo vivendo? Come camminiamo? Chi sono i miei compagni di viaggio? Che posto occupano i poveri, gli ultimi nel mio viaggio? Non possiamo entrare in relazione con Gesù e il suo insegnamento senza aprirci ai “villaggi d’intorno” e alla “gente” che Lui amava, cercava ed evangelizzava.

20230712Stefano2

L’incontro: l’esercizio della fraternità 

L’impegno che immediatamente segue è la chiamata inseparabile dall’esercizio della fraternità: “Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due” (Mc 6,7). Mi piace pensare al duplice gesto di Gesù come generatore di una tensione permanente, impossibile da sciogliere. Lasciarsi attirare individualmente da Gesù oppure curare il rapporto con l’altro? In realtà, il movimento è duplice: il Signore ci chiama a Lui e, nel medesimo tempo, dà fondamento nuovo al rapporto con il fratello e la sorella con cui mi trovo immediatamente inviato nel mondo. 

Dobbiamo riconoscere umilmente la grande difficoltà a vivere questa dimensione: quante belle iniziative finiscono prima o poi per arrancare o addirittura morire, solo perché la missione viene pensata come impresa individuale, come opera costruita dal singolo, come impegno in solitaria. È vero che lo Spirito distribuisce i carismi a piene mani e tutti sono portatori di una ricchezza unica e insostituibile ma l’esperienza però dimostra che la loro genuinità finisce per essere adulterata quando non vi è confronto costante con il fratello o la sorella mandati con noi dal Signore. 

Questo è un punto di partenza insostituibile anche se spesso arriviamo con una rapidità impressionante a trascurare il rapporto costitutivo che ci lega all’altro a partire da Gesù che invia. Basta un’incomprensione, un litigio, un’insofferenza per un modo di fare, di parlare o di ragionare, che subito lasciamo perdere e non c’è più spazio in noi per pensarci indissolubilmente legati, nella missione evangelizzatrice, a chi è stato inviato con noi nella stessa direzione. 

È vero, molte volte è difficile trovare la modalità concreta per collaborare. Siamo di origini diverse e le nostre impostazioni sembrano incompatibili, per età, cultura, lingua e formazione. Sembra quasi di vivere in mondi diversi, destinati a non incontrarsi mai. 

Eppure, la sfida del Vangelo si misura proprio qui. Non è vinta con sorrisi di facciata o linguaggio mellifluo per nascondere i rancori, ma con il coraggio di andare in profondità, di raggiungere la radice delle relazioni e, all’occorrenza, di riconoscerci poveri e mendicanti proprio nella nostra capacità di avvicinarci gli uni agli altri, di guardarci in faccia, di ascoltarci anche quando siamo infastiditi da quello che viene detto e il dialogo ci sembra diventato improduttivo. 

C’è da purificare la memoria da ogni residuo negativo di esperienze passate, di percorsi interrotti, di fallimenti. Il Signore ci sta chiamando ora a prenderci cura gli uni degli altri, a intessere relazioni significative, a fare delle differenze tra noi un’occasione di apertura alle novità di Dio. 

20230712Stefano3

Conclusione

Noi rimaniamo “quelli della Via” anche in questo tempo di generale incertezza. Tendiamo l’orecchio alla Parola, sappiamo che in mezzo a noi c’è Qualcuno che corrisponde così intimamente alla Novità che desideriamo, da essere sempre Colui che non conosciamo ancora (cfr. Gv 1,26) e perciò incessantemente può sorprenderci. 

Non perdiamoci di coraggio davanti alla lentezza dei nostri progressi, alla diminuzione dei nostri effettivi, alla fragilità dei nostri progetti e delle nostre iniziative. La missione non è un’impresa mondana da portare a termine con successo secondo i nostri criteri. È il viaggio da compiere con quello che siamo, sulla terra che ci è stata affidata, con questi fratelli sorelle che abbiamo incontrato sui sentieri della storia. Non cessiamo di impegnarci, di lavorare, di cercare, di credere e di pregare per scoprire insieme l’abbondanza di grazia racchiusa in questo nostro umile vaso di argilla (cf. 2 Cor 4,7).  

A tutti e a ciascuno: Coraggio e avanti in Domino! Buona missione, buon incontro buona GMG! 

*Padre Stefano Camerlengo ha da poco concluso il suo servizio come Superiore Genereale dei Missionari della Consolata

 

Io credo che se vuoi stare con gli ultimi, devi diventare ultimo; se vuoi riuscire a stare con i poveri, devi diventare povero; se vuoi riuscire a guarire le ferite, devi attraversare le ferite. Charles de Foucauld, che a me piace da morire, diceva a un certo punto della sua vita che si sentiva come uno che moriva di fame. E da quel momento cominciò a cambiare qualcosa. 

Nel mio caso tutto è nato in mezzo a una crisi che si è presentata dopo sette anni di ordinazione sacerdotale. Ho chiesto un anno al vescovo; ho preso lo zaino e ho fatto tre mesi in Bolivia dai campesinos, di villaggio in villaggio, e tre mesi in Algeria sulla via di Charles de Foucauld, in mezzo ai Tuareg. Poi sono tornato dal vescovo e gli ho detto che avrei continuato a fare il prete e a lui ho chiesto questa Pieve perché volevo farne uno spazio per raccogliere quelli che stavano vivendo un momento di crisi. Allo stesso tempo mi sono accorto che non avrei potuto aiutare gli altri se non capivo il vero motivo delle mia crisi. 

Un motivo della mia crisi era la timidezza; non riuscivo a guardare nemmeno uno agli occhi e i miei occhi erano sempre bassi. L’altro motivo erano le mie condizioni fisiche: queste mani e queste dita incomplete, questa gamba fatta male e più corta dell’altra. Mia mamma aveva preso il talidomide, quella medicina che le donne incinta prendevano per la nausea prima del parto. Risultato: migliaia di bambini senza braccia e senza gambe; a me è andata ancora benino. Ma quando ero bambino mi mettevano il costumino come a tutti i bambini e mi buttavano in spiaggia; tutti a ridere e a prendermi in giro: “guarda questo zoppo”, “guarda questo monco”. 

Un giorno lessi il salmo che dice “la pietra scartata è diventata la pietra angolare” (118,22-23) e mi sono detto “ma perché le due cose peggiori di me, gli occhi impauriti e le mani incomplete, non possono diventare il meglio di me?”. Ci avete mai pensato? Se vi è andato male un pezzo di vita, invece di stare a lamentarvi, provate a trasformarla in un'opportunità. Ho visto che c’era bellezza in queste mie mani e  ho cominciato a creare coi ferri vecchi dei contadini delle icone; e questi occhi sono quelli che leggano un sacco di roba, la mia maledizione è diventata la mia benedizione.

Da anni lavoro nell’ambito delle crisi, in un capitello della mia pieve romanica c’è scritto “tempore famis, 1152”, in tempo di fame. In occasione della fame i conti della valle, per dare da mangiare ai poveri, fecero costruire questa bellezza, quindi la mia idea è che la crisi è buona e può creare bellezza. La parola crisi in sanscrito vuole dire “depurare” togliere l'inutile, ritrovare il nocciolo delle cose. Da questo è nata la fraternità: la nostra attenzione è chiaramente diretta a chi ha delle ferite, vogliamo aiutare a trasformare le ferite in qualcosa di utile.

L'altra cosa che mi è servita tantissimo nella vita, oltre a trasformare la fragilità in forza, è stato il Perdono. Io odiavo mio padre: lui picchiava, gridava e beveva. La prima cosa che ho dovuto fare è stato capire perché faceva così. Poi un giorno lui mi disse che era il primo di cinque fratelli e che suo padre era morto quando aveva solo 10 anni e da quel momento era lui che si doveva incaricare di tutti loro. Quando l’ha detto mi è sembrato normale che gridasse. 

Se fosse capitato a noi di perdere il padre o la madre a 10 anni e sapere che a noi corrispondeva tirare su quattro fratelli, certamente anche noi ci saremmo arrabbiati. Senza voler giustificare ho capito che la prima cosa, se vuoi perdonare, è capire il perché delle cose. Se uno fa una cosa cattiva quella cosa è cattiva, il male va semplicemente fermato, ma poi non si può odiare. Anch’io ho un istinto molto violento come mio padre. Lo stesso tutti voi avete il sangue di vostro padre e di vostra madre; quante volte magari avete detto “non voglio diventare come mia madre” e poi ti guardi e sei uguale, spiccicato, identico. Se odi diventi come ciò che odi. È una vita che io lotto con me stesso per tirare fuori ironia, calma, tenerezza: la lotta vera è con me non con mio padre. 

Mio padre poi ha preso un ictus ed è finito all'ospedale. Io sono andato in chiesa a piangere tutta la notte e a trattare con Dio: ho detto a Dio “se è l’ora, prendilo, ma dammi qualche giorno, non me lo portare via subito”. Due giorni prima che morisse ho buttato fuori i miei quattro fratelli dalla camera e, piangendo davanti a lui, ho detto “grazie perché mi hai picchiato e perché gridavi. Ancora oggi tremo per tutte le urla che ho sentito, ma grazie, perché se non fossi stato così io non sarei quest’uomo che sono oggi”. 

Per questo vi dicevo che non posso non essere attento a chi soffre, o a chi è ferito semplicemente perché anch’io ho sofferto e anch’io sono stato ferito. Questo ormai fa parte di me, non ne posso fare a meno.

Che cos’è allora la missione per me? È una passione che ho dentro, è qualcosa di cui non posso fare a meno, è il bisogno di non pensare a me, ma vedere se quello che ho vissuto può servire a qualcuno per non disperare. 

La parola missione vuol dire invio, mandare. Il problema è cosa si manda e soprattutto con che stile. Gesù ce l'ha detto chiaro: andate senza troppa roba, andate umili, andati attenti alle persone, non fate i prepotenti. C'è una bellissima frase che don Tonino Bello usava spesso: “i missionari sono dei mendicanti che incontrano altri mendicanti e gli dicono dove hanno trovato da mangiare”. Io sto con la gente e dico “ragazzi, io ho trovato da mangiare qui in queste cose”, ma ogni persona dovrebbe poter dire dove ha trovato da mangiare per campare. 

Per me il problema oggi non è se uno crede in Dio oppure no. Oggi il problema è che se vedi uno mezzo morto per la strada, ti fermi o vai via; se uno cammina o smette di camminare; cosa me ne faccio con uno con tutte le verità in mano che ha smesso di camminare? Come ha detto Papa Francesco meglio un ateo che un cristiano ipocrita! Vedete l'aiuto vero che si può dare oggi alle persone non è quello di convertirle a Dio e basta, ma è quello di aiutarle ad ascoltarsi, perché non si ascolta più nessuno; ad alzarsi invece di lamentarsi; ad aprire gli occhi e guardare meglio.

Io non sopporto alcune parole come per esempio la parola “accogliere”. Per me la parola accogliere è prepotente perché vuole dire che noi siamo più bravi e gli altri sono degli sciagurati. Io uso la parola raccogliere che mi ricorda la messe che è molta ma gli operai sono pochi, le cose belle ci sono da tutte le parti e noi abbiamo la fortuna di raccoglierle. Sopporto poco la parola “progetti” per me i progetti sono demoniaci, perché se io mi faccio un progetto e dico “sono qui e voglia arrivare laggiù”, fra me e laggiù ci siete voi, c'è la gente, c’è lo spirito che dice “ma dove vai?”. Guardate Gesù o San Francesco, non avevano mai un buon progetto ma seguivano umilmente la vita. Allora credo che il futuro della chiesa sarà tornare ai discepoli di Emmaus: Gesù per prima cosa non si fa a riconoscere e cammina con loro, poi condivide il loro dolore e dice “perché siete tristi?” e alla fine fa finta di andare via, li lascia liberi, devono essere loro a dire ci “batte il cuore”... e solo alla fine spezza il pane. E allora bisogna ribaltare tutto: camminare con la gente,  condividere il dolore, lasciarli liberi, fargli battere il cuore... e poi alla fine quel sapore di pane sa davvero di pane. 

Il Cardinal Martini, già tanti anni fa, diceva: “dov’é la debolezza della chiesa?” e indicava tre elementi: il primo un'umanità poco sensibile, il secondo che pensa sempre come vincere; il terzo gli manca la gioia. Forse dovremmo ripartire da lì: tornare a un'umanità più sensibile, non preoccuparsi di vincere niente, ma soprattutto tirare fuori la gioia.

Dovremmo soprattutto capire: “ma di cosa ha bisogno la gente? qualunque persona, chi crede e chi non crede, i piccoli e i vecchi? Se siamo onesti sappiamo che abbiamo bisogno di due o tre cose per campare: un pezzo di pane, un po' d’affetto e sentirmi a casa da qualche parte. Sentirmi a casa non vuole dire avere quattro pareti e un pezzo di pane, ma un luogo dove uno mi guarda e mi guarda davvero; dove uno mi ascolta ma mi ascolta davvero; dove uno mi perdona ma mi perdona davvero.

Dove si trova oggi un posto così? Avete visto come siamo strani? che se uno semplicemente ti guarda ti senti vivo ma  nessuno ti guarda ti senti morto; che se uno ti ascolta ti senti unico al mondo, ma se non ti ascolta nessuno, ti senti solo un numero; se uno ti abbraccia ti senti bello, altrimenti ti senti brutto. In qualunque religione c'è questo minimo che vale davvero per tutti.

Concludo con una frase di Rumi, questo Sufi musulmano. L’ho scritta sulla porta della fraternità, ormai 30 anni fa: “vieni, vieni, vieni chiunque tu sia; sognatore, devoto, vagabondo, poco importa, vieni. Anche se hai infranto i tuoi voti mille volte, vieni nonostante tutto, vieni, questa porta è aperta per chiunque”. E poi un altro brano bellissimo dello stesso autore: “al di là di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, c'è un luogo e ci incontreremo là”. Vedete, la chiesa per due mila anni ha detto che fuori della chiesa è fuori di Cristo non c'è salvezza; io spero che sia il momento di dire che nessuno è fuori della chiesa nessuno è lontano da Cristo.

* Luigi Verdi è il fondatore della Fraternità di Romena. Nel 1991, dopo un periodo di crisi personale e spirituale, ha creato a Romena un’innovativa esperienza di incontro e di accoglienza.Un posto dove poter sostare, incontrare se stessi e gli altri, e riprendere il proprio cammino.

Alcune riflessioni di Mons. Roberto Repole, l’arcivescovo di Torino e teologo, in dialogo con la biblista Rosanna Virgili nel Festival della Missione di Milano, a proposito del tema della fraternità.

Per troppo tempo noi abbiamo creduto che dei paesi cristiani portassero il vangelo a dei paesi non cristiani, quasi che i primi non avessero bisogno del vangelo e il bisogno ce l'avessero solo gli altri. 

Noi dobbiamo andare più in profondità: non solo abbiamo a volte portato il vangelo con uno stile violento, per cui alla fine non abbiamo portato il vangelo, ma ci siamo anche illusi che il vangelo riguardasse solo degli altri come se i recettori della missione fossero altri e non più noi. Qui c'è una provocazione molto seria. In che misura possiamo dire di essere veramente evangelizzati e soprattutto possiamo pensare che l'evangelizzazione sia qualcosa di statico, avvenuto una volta e poi non avremmo più bisogno di evangelizzazione e neppure di conversione.

Ricordo il teologo Ives Congar che, nei lavori conciliari, disse qualcosa di molto vero: "c'è sempre una parte di noi non evangelizzata". Forse oggi dovremmo prendere confidenza con il fatto che l'europa cristiana non lo è più nemmeno numericamente. Milano e Torino... sono città di missione. Occorre ritornare ad offrire l'annuncio evangelico. Illudersi che viviamo in un contesto cristianizzato è precisamente questo: un'illusione.

Come cristiani abbiamo una certa difficoltà ad abitare lo spazio pubblico con la piena fiducia nel vangelo. È più facile vedere la nostra presenza pubblica spesso mettendo tra parentesi alcune delle cose fondamentali che ci identificano; invece la grande sfida è la capacità di fare del vangelo anche una proposta per la vita e le nostre relazioni nel mondo civile.

Un filosofo francese, Marcel Gauchet, in un suo libro fa una interessante osservazione e dice che “le democrazie nascono come esito ultimo del processo di secolarizzazione dove si mette tra parentesi l’assoluto e il sacro e le società si costituiscono sulla base del consenso degli aderenti. Ma il loro paradosso è che nascono facendo fuori i valori assoluti ma senza qualcosa di sacro sembrano non sapere vivere”.

Per questo penso che non dobbiamo avere paura a portare nella vita civile i nostri valori e fare si che le comunità cristiane concorrano al buon funzionamento del sistema democratico che si basa sulla conoscenza delle identità paritaria degli uomini e delle donne. Ma come farlo?

Qui arriviamo a un punto particolarmente impegnativo precisamente perché abbiamo fatto fatica come chiesa ad abitare il contesto democratico e corriamo il pericolo di dire che lo facciamo solo offrendo valori condivisi da tutti. Ma noi abitiamo lo spazio pubblico semplicemente perché vogliamo essere alfieri di alcuni valori condivisi da tutti a prescindere del vangelo o perché crediamo che nel vangelo, che non viene da noi, ci sono dei valori che riteniamo umanizzanti per noi e anche per gli altri? 

E quali sono i valori che vogliamo offrire? Sono soltanto il valore della vita o di una morte che non ci appartiene? ma la misericordia per esempio può essere negoziabile per noi cristiani? Io penso di no, se no togliamo qualcosa di fondamentale per il vangelo. Lo stesso, la possibilità di essere ricreati con il perdono? Può essere negoziabile?

La sfida che abbiamo è quella di portare delle ragioni che mostrino la forza umanizzante del vangelo e dei valori che lo compongono. Offrire ad altri che non si identificano con la fede cristiana la possibilità di riconoscere che questo fa bene all'umanità di tutti, credenti e non credenti. 

Evidentemente offrire ragioni non può essere solo un fatto intelletualistico, per questo il valore della fraternità deve essere  prima vissuta fra di noi. Se il perdono reciproco e la misericordia hanno senso nel nostro vivere comunitario... solo così abbiamo qualcosa da proporre per la vita comunitaria e democratica.

Probabilmente la risposta ce la da il cammino di sinodalità e di fraternità che ci propone Papa Francesco: se sappiamo prenderci cura uno dell'altro senza rivendicazioni, potremmo essere un piccolo segno nelle nostre società per costruire una fraternità più grande e una democrazia che faccia crescere la società con dinamismi più fraterni... potrebbe essere un apporto bello della chiesa alla società civile.

C’è un’immagine che appartiene ai padri della chiesa che mi sembra molto bella: “la chiesa è come quella tunica di Gesú crocefisso che non è tagliata ma è fatta di tantissimi colori: quelli di una umanità variata ma condivisa”. Quando la domenica andiamo a messa nel credo la prima cosa che professiamo della chiesa è la sua unità che non si rompe anche se è composta da uomini e donne provenienti da mondi e culture spesso molto diverse. Essere credenti e pensare di non avere a che fare con il mussulmano, con il diversamente credente, con l'ateo è non aver assimilato il DNA del cristianesimo e quando ci sono cristiani che pensano di difendere la loro identità tagliando ponti e non aprendosi al dialogo credo che abbiamo a che fare con cristiani con una identità molto debole. 

Evidentemente la fraternità non è facile: vivere insieme ad altri ha la sua fatica. Per quello è bene ricordare che la fraternità è un dono, è un sogno ma anche un compito faticoso. Alla fine la sfida di una fraternità reale e appassionata è un cammino concreto di evangelizzazione e anche lo spazio giusto che, come cristiani, possiamo occupare in questo mondo per farlo crescere in umanità.

* Roberto Repole è vescovo di Torino e Susa

Nel video tutti i contenuti dell'intervista

La Vita Fraterna Comunione di Santi e Peccatori[i]

Un fratello, offeso da un altro, venne dal padre Sisoes e gli disse: “Sono stato offeso da un fratello e voglio vendicarmi”. L’anziano lo esortava: “No, figliolo, lascia piuttosto a Dio la vendetta”. Ed egli: “Non mi darò pace finché non mi sarò vendicato”. Disse allora l’anziano: “Preghiamo, fratello!”. E, alzatosi, disse: “O Dio, non abbiamo più bisogno che tu ti prenda cura di noi, perché noi ci vendichiamo da soli”. A queste parole il fratello cadde ai piedi dell’anziano dicendo: “Non contenderò più con il fratello; perdonami, padre!” (Sisoes 1).[ii]

La vita fraterna rientra esattamente in quel ‘prendersi cura di noi’ da parte di Dio, nell’affidarci a lui come Padre di tutti. Non sembra oggi una verità scontata, neppure nella Chiesa, ma la comprensione del suo mistero dipende in ultima analisi dalla possibilità dell’esperienza di Dio come Padre, di cui Gesù testimonia l’immenso amore per noi. La forza della rivelazione di Gesù sta appunto nel condividerci i segreti del Padre. Lo ricordava in una recente intervista (Avvenire, 9 febbraio 2012) il filosofo francese Jean-Luc Marion: “Se ci riferiamo alla triade dei valori repubblicani francesi, la libertà può forse essere garantita a livello pubblico. E, si spera, pure l’uguaglianza. Ma la fratellanza presuppone invece un padre, mentre la società laica è fondata proprio sull’assenza del padre. Il solo padre assente possibile è Dio, ma non è stato finora riconosciuto. Dunque, nei sistemi fondati sui tre valori francesi, c’è una contraddizione interna. I primi due termini non possono garantire il terzo. La fratellanza non doveva essere inclusa, perché va oltre il progetto illuministico”.

 L’esperienza dell’essere peccatori          

Lo spazio sottratto a Dio è riempito con la proiezione dell’io che tende a fagocitare tutto, non solo le cose, ma anche i fratelli, visti nell’ottica di una rivendicazione del nostro diritto all’amore. Il male oscuro della nostra sensibilità interiore non è l’individualismo, come spesso viene sottolineato in una critica alla nostra società odierna, ma la proiezione narcisistica di sé che non sopporta nessuno nella sua alterità perché non più radicato in un Altro che ti fa sussistere. Dal punto di vista dell’esperienza interiore delle persone, in termini religiosi si direbbe che ciò che viene meno è la coscienza dell’essere peccatori. D’altra parte, non ci si può ritenere peccatori che davanti a un Amore più grande che ci invade, di cui non si è mai degni ma che costituisce lo spazio vitale in cui accoglierci e accogliere. Siamo relativamente disposti a riconoscere i nostri difetti, anche i nostri peccati, ma difficilmente la condizione radicale del nostro essere peccatori. La cosa emerge in tutta la sua rilevanza proprio nella vita fraterna, nelle comunità come nelle famiglie, là dove le relazioni con i fratelli svelano le radici del nostro cuore, il dove siamo fondati.

Non per nulla, nella spiegazione del Padre nostro, Cipriano di Cartagine così commentava la richiesta del perdono dei debiti vicendevoli: “Dopo queste invocazioni preghiamo dicendo: ‘E rimetti a noi i nostri debiti, così come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Dopo il conforto del cibo si richiede il perdono del peccato, perché viva in Dio chi è nutrito da Dio … In realtà com’è necessario, com’è previdente e salutare essere ammoniti del fatto di essere peccatori, noi che siamo spinti a pregare per i nostri peccati, perché l’anima si ricordi della sua coscienza, mentre domanda perdono a Dio! Nessuno si compiaccia, come se fosse innocente e non cada ancora più in basso, nel vantarsene; anzi è ammonito e istruito che pecca quotidianamente, perché gli è ordinato di pregare quotidianamente per i suoi peccati”.[iii]

Riconoscersi peccatori è la condizione per gustare la misericordia di Dio, per gustare il suo perdono sanante e rinnovante. Non si tratta però semplicemente del fatto che io venga perdonato, ma di accogliere il perdono di Dio per farne risplendere la presenza, nella sua dimensione di misericordia e di amore incondizionato, in questo mondo. E dove può splendere la sua presenza di Padre se non nello spazio della vita fraterna?

 “Io sono in mezzo a loro”

La promessa di Gesù che chiude il vangelo di Matteo: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (28,20), se accostata all’altra: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro” (18,20), acquista un significato insospettato. L’Emmanuele, il Dio-con-noi, che tutto il vangelo di Matteo narra come la storia di Gesù, compimento di tutte le Scritture, si sperimenta ormai nello spazio della vita fraterna, luogo per eccellenza di riconciliazione vissuta. A differenza di Luca, che esalta la prima comunità cristiana con accenti idilliaci (cfr. At 4,32), Matteo presenta la fraternità in modo fin troppo realistico, segnata da ferite e tensioni, esposta alle rotture e agli abbandoni (cfr. Mt 18). Ciò che più conta, Matteo pone la fraternità nell’orizzonte degli annunci della passione, dentro la logica pasquale, per cui al centro non ci sono i valori o gli ideali, bensì le ferite che vengono assunte e curate. Se la fraternità è radunata nel nome di Gesù, lo è in quanto accoglie nel suo nome le ferite e i bisogni dei più piccoli, dei deboli, dei peccatori.[iv]

Un particolare del testo matteano passa fin troppo inosservato. L’espressione: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,4), in realtà suonerebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Il significato è più diretto rispetto all’annuncio della passione, perché Gesù è proprio colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è il motivo della sua grandezza. Così sarà per i discepoli. Solo chi si umilia, cioè chi diventa come i bambini che non ripongono speranza in alcun statuto sociale, chi perde ogni importanza che sappia di questo mondo, può accedere alla rivelazione di Gesù. Gesù ha posto tutta la sua grandezza nell’amore del Padre, i discepoli nell’amore di Gesù e in nient’altro. La fraternità che ne consegue, fondata sulla fede in Gesù Salvatore, parlerà di quell’amore. La verità di quell’amore si giocherà proprio nel fatto di cedere davanti al peccatore, senza acconsentire al suo peccato, perché si custodisca la possibilità di gustare il perdono del Signore tutti insieme, anche se non negli stessi tempi. Ciò che faceva dire a s. Francesco di Assisi di fronte alla molestia di un fratello che non ci sopporta: “E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori” (FF 234).

 La santa associazione: l’umiltà della carità

La ragione profonda di questa mescolanza necessaria tra giusti e peccatori nella Chiesa la troviamo nella parabola della zizzania, dove risulta significativo il contrasto tra la pazienza del padrone e lo zelo dei servi. La pazienza del padrone è data dalla sicurezza della vittoria, mentre il falso zelo dei servi denuncia la ristrettezza delle vedute umane, l'impazienza dell'uomo che cede al potere della violenza, anche se camuffata da nobili ideali. Il rischio dell’uomo è appunto tra un’assunzione indebita di responsabilità (posizione rigorista) e un abbandono di responsabilità (posizione lassista), ambedue procedenti da una ipertrofia dell’io che tutto fagocita, anche se stessi, rendendoci nemici a noi stessi e incapaci di condividere i sentimenti di Dio. Se Dio non toglie di mezzo i malvagi è perché sono oggetto della sua pazienza. Ce ne illustra il mistero la liturgia della XVI domenica del tempo ordinario, ciclo A, allorquando collega la parabola con il brano di Sap 12,13-19 e il Sal 85. Nel brano della Sapienza è detto: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini”, dove con ‘tale modo di agire’ si intende l’indulgenza e la mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente, agisce verso gli uomini e li giudica. Dove la Scrittura segnala un ‘deve’, un ‘è necessario’, vuol dire che allude a una radice e a un compimento divini, a un esito divino della vita umana. E se il Sal 85 riprende la lode di Dio compassionevole, pieno di amore, lo fa in un contesto preciso, che è il seguente: “Mio Dio, mi assalgono gli arroganti, una schiera di violenti attenta alla mia vita, non pongono te davanti ai loro occhi”. E continua: “Ma tu, Signore, Dio di pietà, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore, Dio fedele, volgiti a me e abbi misericordia: dona al tuo servo la tua forza”. L’invocazione a Dio misericordioso nasce dal fatto che il giusto subisce l’azione dei malvagi e l’invocazione si traduce nella richiesta della forza, tipica di Dio, che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza…’. Perciò, se Dio non toglie di mezzo i malvagi, è perché i giusti possano rivelare a loro la forza di Dio, che non rinuncia al suo amore perché l’uomo lo disattende e i giusti saranno tanto più giusti quanto più faranno risplendere questa potenza di amore paziente di Dio.

È caratteristico che le preghiere antiche non si concludano nella richiesta dell’amore, come se tutto consistesse nel superare il nostro egoismo e la nostra chiusura, ma nella richiesta di verità, la verità professata davanti all’amore misericordioso del Padre di cui Gesù ci mette a parte. Valga per tutte la preghiera di s. Efrem, che nella liturgia bizantina viene proclamata nove volte al giorno durante la quaresima: “Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità. Dona invece al tuo servo uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità. Sì, Re e Signore, fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello, poiché tu sei benedetto nei secoli. Amen”. Accedo alla verità di Dio nel suo immenso amore per noi quando mi riconosco peccatore, non avanzando alcun diritto su nessuno, non impedendo a nessuno di accedere alla stessa verità. La grazia della vita fraterna risiede qui.

Lo ricorda lo stesso s. Efrem: “La chiesa è un’assemblea di peccatori che si pentono”. Ancor più, e più misteriosamente, vale l’antica confessione di fede battesimale nella comunione dei santi. Non però che la Chiesa sia una comunione di santi, bensì che la comunione con le cose sante (come ancora oggi nella liturgia bizantina si proclama prima della comunione eucaristica: “le cose sante ai santi”) rende noi peccatori abitati dal Santo, noi peccatori abilitati alla santità del Santo che vuole la comunione con tutti i suoi figli. Così, la vita fraterna, che nell’assunto iniziale era presentata come la comunione di santi e peccatori, diventa la comunione nel Santo di peccatori che crescono nella capacità di gustare e vivere il perdono del loro Dio, Padre di tutti.

Molto bella l’annotazione di un anonimo commentatore del passo di Mt 5,24 dove ci viene ingiunto di lasciare la nostra offerta all’altare e di riconciliarci prima con il nostro fratello: “Dio ti ordina di pregare per primo in vista della riconciliazione non con l’intenzione che tu ti sottometta ai suoi piedi, ma volendo che tu anteponga dinanzi ai tuoi occhi la gloria dell’umiltà”.[v]

Senza la percezione della bellezza di ciò che comporta per il nostro cuore il perdono di Dio non sarà possibile credere alla vita fraterna. “Senza la contemplazione che eleva, l’uomo non accetta di umiliarsi”[vi]: è la tensione contemplativa alla base della vita fraterna.

Fonte: contemplativi.it

NOTE:

[i] Testo pubblicato in Consacrazione e Servizio, 2012/4, pp. 43-49, con il titolo: Comunione di santi e peccatori.

[ii] I Padri del deserto. Detti. Introduzione, traduzione, note di Luciana Mortari, Roma 1972, Città Nuova, p. 301.

[iii] Cipriano, Trattati. Introduzione, traduzione e note a cura di Antonella Cerretini, Roma 2004, Città Nuova (Collana di testi patristici, 175): La preghiera del Signore, 22, p. 164.

[iv] Belle e pertinenti le riflessioni di fratel Luca, La rugiada e la croce. La fraternità come benedizione, Milano 2001, Ancora.

[v] Anonimo, Opera incompleta su Matteo, omelia 11, in La Bibbia commentata dai Padri, Nuovo Testamento 1/1, Matteo 1-13, Roma 2004, Città Nuova, p. 168.

[vi] Callisto patriarca, Capitoli sulla preghiera, cap. 25, in La Filocalia, vol. 4, Torino 1987, Gribaudi, p. 310.

Gli ultimi articoli

Missionari laici della Consolata in Venezuela

16-07-2024 Missione Oggi

Missionari laici della Consolata in Venezuela

Prima di tutto vogliamo essere grati a Dio, alla Chiesa e ai Missionari della Consolata; la gratitudine è la nostra...

Mozambico. Non è mediatica, ma è una guerra

16-07-2024 Notizie

Mozambico. Non è mediatica, ma è una guerra

Una regione del Paese africano alla mercé della guerriglia islamista C’era ottimismo a Maputo, la capitale mozambicana. La guerriglia a Cabo...

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

15-07-2024 Missione Oggi

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

La Corte di Giustizia dello Stato del Paraná (Brasile) ha tenuto dal 3 al 5 luglio l'incontro sulla Giustizia Riparativa...

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

14-07-2024 Missione Oggi

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

I rappresentanti dei popoli nativi dell'Amazzonia peruviana, insieme ai missionari, si sono riuniti nella Prima Assemblea dei Popoli Nativi, che...

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

13-07-2024 Notizie

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

La comunità di Casa Generalizia a Roma festeggerà, il 18 luglio 2024, il 25° anniversario di ordinazione sacerdotale di padre...

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

13-07-2024 Allamano sarà Santo

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

L'11 maggio 1925 padre Giuseppe Allamano scrisse una lettera ai suoi missionari che erano sparsi in diverse missioni. A quel...

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

11-07-2024 Allamano sarà Santo

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

In una edizione speciale interamente dedicata alla figura di Giuseppe Allamano, la rivista “Dimensión Misionera” curata della Regione Colombia, esplora...

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

10-07-2024 Domenica Missionaria

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13 La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata...

"Camminatori di consolazione e di speranza"

10-07-2024 I missionari dicono

"Camminatori di consolazione e di speranza"

I missionari della Consolata che operano in Venezuela si sono radunati per la loro IX Conferenza con il motto "Camminatori...

onlus

onlus

consolata news 2

 

Contatto

  • Viale Mura Aurelie, 11-13, Roma, Italia
  • +39 06 393 821