Domenica 28 agosto, nella casa generalizia delle Missionarie della Consolata, le due famiglie fondate da Giuseppe Allamano si sono riunite attorno a Mons. Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar, nominato cardinale da papa Francesco nel concistoro del giorno precedente. 

Tantissimo di famiglia consolata c’era in questa celebrazione: il calice che era appartenuto all’Allamano e che conservano le Missionarie della Consolata; la festività e la varietà culturale e continentale dei missionari e degli amici presenti; la decorazione della mitra proveniente da quella di Mons. Torasso, il primo vescovo dei Missionari della Consolata in Colombia, morto a soli quarantasei anni nella difficile geografia delle terre del Caquetá.

Nella sua riflessione Mons. Giorgio, illuminato dalle letture della 22 domenica del tempo ordinario (ciclo C), ha ricordato aspetti che appartengono all’insegnamento del Fondatore, alla tradizione dell’Istituto e sono una chiara indicazione su come essere Cardinale missionario. Ve la offriamo a continuazione.

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Il nuovo cardinale con alcuni missionari della Consolata originari di vari paesi africani

Che avrebbe potuto dire il nostro Fondatore se avesse visto un suo figlio, missionario della Consolata, diventare Cardinale?  La Parola di Dio di questa domenica può rispondere a questa domanda e ci propone tre criteri che non sono affatto lontano dalla spiritualità di Giuseppe Allamano e devono essere presenti nella vita del Cardinale Missionario della Consolata.

La prima lettura del libro del Siracide para in modo eloquente dell’umiltà. “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile perché ai miti Dio rivela i suoi segreti” (cf. Sir 3,18-19), in cambio la condizione dei superbi è descritta come misera. Gesù è stato colui che per primo ha preso l’ultimo posto; come dice San Paolo, se vogliamo vantarci lo dovremo fare perché lui ci ha chiamati ma non per nessun altro motivo. Anche il vangelo tocca lo stesso argomento quando dice che i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi sono i primi invitati al banchetto del Regno (cf Lc 14,13)... e noi siamo quei poveri che sono i privilegiati del vangelo. L’umiltà quindi non può mancare nella vita del missionario della Consolata e nemmeno in quella del cardinale Missionario della Consolata.

La seconda lettura, una bellissima pagina tratta della lettera agli Ebrei, la voglio leggere in chiave eucaristica perché ci manifesta un aspetto molto tipico della vita del Missionario e Missionaria della Consolata. L’autore di questo scritto dice  che “non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità” (Eb 12,18), quelle sono manifestazioni potenti e misteriose del Dio dell’Antico Testamento, ma “vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente... a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova” (cf Eb 12,22-24). Non dimentichiamo che quando ci avviciniamo all’eucaristia ci stiamo avvicinando a Gesù in persona. Quello che i nostri occhi vedono sono i segni umili e  poveri del pane e del vino nel quale Gesù si fa realmente presente alla nostra vita quotidiana. Lui lo fa rispettando fino a tal punto la nostra libertà che in quei segni diventa piccolo e quasi invisibile. 

Giuseppe Allamano tutto questo l’aveva nel cuore: l’eucaristia è il fine della missione, perché come meta abbiamo la costruzione di una comunità convocata attorno alla Cena del Signore, ma è anche il principio perché nell'eucaristia trova la sua origine la missione come testimonianza, carità e giustizia.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero eucaristici perché dall’Eucaristia nasce il servizio verso i più poveri e l’annuncio del vangelo nei tanti contesti nei quali siamo chiamati a evangelizzare. Anche questo è un criterio valido per il cardinale Missionario della Consolata.

Poi viene il testo del vangelo di Luca che forse non ha bisogno di spiegazioni perché stabilisce in modo lampante la logica di tutto il vangelo: i nostri posti sono gli ultimi e non i primi. “Non metterti al primo posto ma vai a metterti all’ultimo perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (cf Lc 14,8-11). La logica del vangelo, che è molto diversa da quella del mondo, si vive stando nell’ultimo posto e non nel primo. E questo vale per tutti noi Missionari della Consolata, anche per il cardinale.

Il Signore conclude questo testo questa frase: “(al tuo banchetto) invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,13-14). Spesso nella vita finiamo sempre per fare qualche calcolo del tipo “se sono una persona buona e onesta ho diritto almeno a qualcosa... se faccio un gesto di carità mi dovranno almeno dire grazie”. Un famoso poeta mongolo, morto non molti anni fa, Dashbalbar, scrisse questo verso in una poesia titolata “sii come il cielo”: “qualunque cosa ti succeda, sia che ti applaudano o ti insultino, tu sii amplio come il cielo”. 

Nella nostra vita missionaria ciò che domina non è il calcolo ma la gratuità: uno dei segni più coerenti con la logica del vangelo dove tutti siamo figli dello stesso Padre “che fa sorgere il suo sole su cattivi e buoni, e fa piovere su giusti e ingiusti” (cf Mt 4,45).

Gli esempi di chi vive secondo la logica del vangelo li abbiamo a casa nostra, nei nostri santi, il beato Giuseppe Allamano e le beate Irene e Leonella. Nei diari di Leonella si riporta una frase che dice: “ma quando potrò fare un gesto di gratuità pulito, senza attendere niente in cambio?”... e lo Spirito l’ha plasmata e alla fine è stata così somigliante al Cristo da versare il suo sangue mescolandolo anche con quello delle sue guardie del corpo che erano di fede mussulmana; morendo ha detto tre volte perdono. 

Nella tradizione orientale i santi sono chiamati “i somigliantissimi” perché assomigliano in tutto e per tutto a Gesù. La vocazione missionaria ci mette nella condizione degli apostoli e ci porta dove il vangelo non è ancora conosciuto. La dobbiamo essere una chiesa umile, eucaristica, ultima fra gli ultimi e costruita secondo la logica del vangelo. Dobbiamo essere “somigliantissimi”; santi come diceva il Fondatore.

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Per noi Missionari e Missionarie della Consolata la celebrazione [in questo santuario della Consolata ricordando il centenario della morte di Giacomo Camisassa, fedele collaboratore del Beato Allamano] è una celebrazione speciale e diventa doppiamente speciale perché ricordiamo un grande che insieme all’Allamano, un altro grande, ha sognato, realizzato e costruito due istituti missionari. 

I nostri missionari e le nostre missionarie della Mongolia ci hanno insegnato a dire che la missione in Asia, ma non solo lí, possiamo farla solo in punta di piedi. La missione non ha bisogno di pompe, applausi, protagonismi ma si fa nell’unità quotidiana cercando di costruire il vangelo pezzo per pezzo con le persone che il Signore mette sul nostro cammino.

La prima volta che sono andato in Mongolia, a visitare i nostri confratelli e le nostre consorelle, eravamo con Giorgio nel cuore della Mongolia nella prima parrocchia lontana dalla capitale. La domenica abbiamo celebrato la messa con quindici cristiani e qualche curioso che ci sbirciava da fuori e poi dopo ci siamo incontrati con questi cristiani e abbiamo preso qualcosa assieme.

Quello che mi ha segnato per anni e lo porto ancora nel cuore, è che mi sono seduto vicino a un giovane di approssimativamente diciott’anni che vedevo veramente contento, sprizzava gioia da tutte le parti. Con l’aiuto di un missionario che mi ha tradotto mi sono sentito di chiedergli
– Ma perché sei così contento?
La risposta che lui ha dato è stata la più bella che si possa dare e fino ad ora non ne ho trovate altre
– Io voglio essere cristiano perché essere cristiano mi da la gioia di vivere.

C’è tutto; questo giovane ragazzo ha capito tutto! Essere cristiani in mezzo a tutti gli altri che non lo sono, appartenendo a un piccolo gruppo come sono i cristiani della Mongolia, e manifestare la gioia che si vive incontrando a Cristo, per me è la cosa più bella.

Questo ha caratterizzato i nostri grandi: Allamano e Camisassa ed è per quello che dopo cent’anni oggi ricordiamo ancora il Camisassa. Sono delle persone che hanno fondato la loro vita si Gesù Cristo; hanno cercato solo di vivere il vangelo e di fare la volontà di Dio. La volontà di Dio li ha portati a stare 42 anni in questo santuario in amicizia, in compagnia e in collaborazione stretta e insieme hanno realizzato questo grande sogno: la creazione dei due grandi Istituti Missionari della Consolata. 

Il Camisassa era un uomo di grande intelligenza e non era solo l’uomo concreto che sapeva fare i lavori manuali e materiali. Era un uomo di visione, il primo nella teologia, esperto in diritto canonico e civile, un’autorità riconosciuta nella Torino di quel tempo... eppure era di una umiltà tale che quando parlavi con lui diceva “guardate l’Allamano, è lui il maestro, io accompagno soltanto” e quando andavi dall’Allamano lui diceva “andate dal Camisassa”... i due giocavano a ping-pong non in una falsa umiltà ma nella vera umiltà di chi capisce che senza l’altro non fa niente; che ha bisogno dell’altro per costruire qualcosa che valga la pena. Non per essere protagonista ma per costruire sempre nel nome del Signore.

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Ci sono della frasi che noi missionari e missionarie conosciamo ma permettetemi di recuperarle perché sono troppo belle. Dice l’Allamano: “tutte le sere passavano in questo mio studio (nel santuario) diverse ore, qui è nato il progetto dell’Istituto, qui si parlava di andare in Africa, insomma, tutto si combinava qui. Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa non avrei fatto quello che ho fatto”. Questa era una amicizia profonda fondata sulla sincerità, oggi che è così difficile essere sinceri. 

L’Allamano diceva: “ci siamo promessi di dirci sempre tutto in verità” e questo ha fatto si che la loro amicizia durasse nel tempo, per ben 42 anni. Quello che noi abbiamo cominciato a chiamare, usando termini un po’ più abbelliti , “promozione fraterna” loro l’hanno sempre fatta senza chiamarla in quel modo e ci hanno insegnato che solo aiutandoci a vicenda si può costruire qualcosa di valido. 

Gesù Cristo è il fondamento ma dietro il loro comune impegno c’era anche una umanità vera, non fittizia o fatta di immagine, e che porta a dirsi le cose in verità, per costruire e camminare insieme, per vivere in Comunione. Sono tutti valori che il Papa Francesco e la chiesa attuale ci sta proponendo in questo cammino di sinodalità, dove ognuno è chiamato ad essere protagonista là dove ognuno sta. È una chiesa nuova che ha il vangelo al centro e dove Gesù Cristo è quello che conta, non tutto il resto.

Celebrare per noi il centenario della morte del Camisassa è prima di tutto un momento di grande commozione e fraternità perché ci aiuta a recuperare l’amicizia, la correzione, il camminare insieme, la comunione ma poi è anche un momento di revisione per vedere come i nostri Istituti stanno tentando di portare avanti gli orientamenti, il progetto e i sogni che l’Allamano e il Camisassa, in questo santuario, hanno covato nel loro cuore dialogando e pregando insieme.

I nostri istituti sono ancora fedeli a quest’opera originaria? Anche se facciamo fatica da qualche parte io risponderei a questa domanda con un sí. Con semplicità e con umiltà dobbiamo dire che stiamo camminando anche se il tempo magari ti logora un pochino.  Con verità possiamo dire che Il Signore continua a benedire questi Istituti perché siamo fondati e formati da dei grandi che ricordiamo in questo santuario.

Il mondo è fondato su pilastri e questi pilastri sono i santi, le persone buone, le persone vere che nella vita di ogni giorno costruiscono la storia. Noi ricordiamo l’Allamano, il Camisassa e tanti fratelli e sorelle che sono morti dando la vita per la missione. 

Che bello che in questa eucaristia inviamo a Suor Francesca in Mongolia. Gesù ci ha voluti missionari; l’Allamano e il Camisassa sono stati missionari; noi continuiamo a inviare missionari: questa missione è una missione vera, autentica, di Istituto, di comunione. Le difficoltà non mancheranno perché fanno parte della vita, ma quello che conta è l’amore al Signore e quell’autenticità di vita che abbiamo imparato dai nostri grandi.

Continuiamo ad ascoltare le parole dell’Allamano sul Camisassa: “Se abbiamo fatto qualcosa di buono è appunto perché eravamo tanto diversi. Se fossimo stati uguali non avremmo visto i difetti l’uno dell’altro e avremmo fatto molti sbagli di più”. Noi parliamo tanto di interculturalità e diversità, ma che fatica che facciamo spesso per accettarla, questi già allora la vivevano.

Poi ancora: “Tocca a me fare i suoi elogi: era sempre intento a sacrificarsi pur di risparmiare me; aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà. Egli viveva per voi e per le missioni”. Oggi, quando tutti vogliono apparire, vediamo che nascondendosi, come fece il Camisassa, si continua a vivere per cent’anni nella storia di un Istituto. 

L’Allamano, dando l’annuncio della morte del Camisassa, dice una cosa importante che può anche aiutarci nella nostra vita: “fino all’ultima ora, pur essendo ammalato, il Camisassa continuava a pensare, a pregare e a parlare degli Istituti”. Il suo amore è tutto descritto in questi tre verbi. 

Oggi questi Istituti che loro due hanno pensato e sognato insieme esistono ancora e mandano ancora delle persone. Che bella questa continuità, che bella questa catena d’amore che va avanti, perché la storia non la fanno i grandi e i potenti, non la fanno neanche i cattivi anche se poi subiamo le conseguenze delle loro azioni, ma la fanno i buoni, quelli che rimangono per l’eternità perché il loro ricordo rimane per sempre. 

*Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata. Testo dell'omelia tenuta nel Santuario della Consolata in occasione della celebrazione del centenario della morte del canonico Camisassa. 

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