Pubblichiamo la riflessione che il Superiore Generale, padre Stefano Camerlengo, ha condiviso con la comunità della Casa Generalizia a Roma il Giovedì Santo, 6 aprile, durante la Messa della Cena del Signore.

“Desidero tanto che siate compenetrati di nostro Signore!... Chi ama il Signore non ha nessun tedio, nessuna solitudine...Fare “Nostro” il Signore! ...Vedete l’importanza della Santa Messa! La Messa è il tempo più bello della nostra vita: una basterebbe a rendere felice chiunque venga a celebrarla. Anche se dovessimo prepararci per quindici o vent’anni per celebrarne una, quanto saremmo felici! Sarebbe il più grande compenso! Oh, la felicità di celebrare l’Eucarestia! ...Questa deve essere la festa del cuore, della riconoscenza!” (beato Giuseppe Allamano).

Tutto taceva nel momento dell’imposizione delle mani. Tutto quello che umanamente si poteva fare per prepararci bene alla missione a cui Dio ci aveva chiamati, era stato fatto, ora toccava a Dio, allo Spirito farci diventare quello che oggi siamo non per una nostra perfezione, ma per servire il popolo santo di Dio.

«Portare il lieto annuncio ai miseri, fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri […] per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto» (Is 61, 1-7).

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Oggi, Giovedì Santo, vogliamo soffermarci sulla nostra chiamata a dedicare la nostra vita a Dio e ai fratelli nel ministero del presbiterato.

Papa Francesco parlava così ai preti il Giovedì Santo 2014: «Credo che non esageriamo se diciamo che il sacerdote è una persona molto piccola: l’incommensurabile grandezza del dono che ci è dato per il ministero ci relega tra i più piccoli degli uomini. Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà; è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico; il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro; il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge. Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze; perciò, la nostra preghiera di difesa contro ogni insidia del Maligno è la preghiera di nostra Madre: sono sacerdote perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza (Lc 1,48). E a partire da tale piccolezza accogliamo la nostra gioia. Gioia nella nostra piccolezza!» (Francesco, Omelia Giovedì Santo 2014).

Cari missionari, consacrati per la missione: siamo un piccolo gruppo, siamo poca cosa di fronte alle necessità delle nostre comunità, della nostra gente, dei popoli che accompagniamo; ci sembra di non vedere futuro davanti a loro.

Molti di noi sentono il peso degli anni ma sono ancora in prima linea; altri portano nel cuore delle ferite che ogni tanto sanguinano. Alcuni vorrebbero servire delle comunità belle e vivaci e sentono la fatica di dover curare un terreno arido; alcuni sono un po’ spaesati di fronte ai cambiamenti sociali in atto, altri cercano altrove un cibo spirituale più nutriente e una fraternità più significativa.

Oggi il Pastore supremo, Cristo Signore, ripete a noi, proprio a noi, a te caro confratello, proprio a te: «Lo Spirito del Signore Dio è su di te, perché il Signore ti ha consacrato con l’unzione; ti ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri» (Is 61,1-3).

Guardiamo con stupore e con un sano timore di Dio quello che siamo, il tesoro che è stato donato a noi piccoli e fragili vasi di creta. Le gioie e le fatiche del nostro ministero sono quelle che anche Gesù ha attraversato ma senza mai perdersi anzi è andato sempre avanti forte della sua relazione col Padre e obbediente alla missione che gli era stata affidata. Come dire che gioie e fatiche non sono un incidente di percorso, ma erano tutte già nel conto di quando siamo diventati missionari.

Papa Francesco parla del sacerdote come di una piccola moneta con due facce: da una parte c’è l’effige del discepolo innamorato, dall’altra quella del missionario fervoroso, noi diremmo zelante secondo l’ispirazione dall’Allamano.

1) Il discepolo innamorato. All’origine della nostra chiamata c’è una realtà permanente: siamo stati chiamati per rimanere con Gesù, uniti a lui: «Li chiamò perché stessero con lui e per mandarli» (Mc 3,14). Questo rimanere in lui e segna tutto ciò che siamo e facciamo. È la “vita in Cristo” che garantisce la nostra efficacia apostolica e la fecondità del nostro ministero.

Scrive il Papa: «Non è la creatività, per quanto pastorale sia, non sono gli incontri, le pianificazioni, che assicurano i frutti, anche se aiutano e molto, ma quello che assicura il frutto è l’essere fedeli a Gesù, che ci dice con insistenza: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4)» (Francesco, Cattedrale di Rio, 27 luglio 2013).

La nostra relazione col Signore, tuttavia, non è mai scontata. Paolo raccomanda al discepolo Timoteo di non trascurare, anzi, di ravvivare sempre il dono che gli è stato dato per l’imposizione delle mani (1Tm 4,14).

Quando non alimentiamo il nostro ministero con la preghiera, con l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio, con la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia e anche con la frequentazione del Sacramento della Penitenza, finiamo inevitabilmente per perdere di vista il senso autentico del nostro servizio e la gioia che deriva da una profonda comunione con Gesù e si scade in una mediocrità che non fa bene né a noi, né alla Chiesa, né al mondo.

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Il sacerdote è per eccellenza il discepolo configurato al suo maestro: le beatitudini sono la nostra carta di identità, lo stile è quello di Gesù, obbediente al Padre e compassionevole con tutti. La nostra vita è vicina ai poveri e ai piccoli, la missione arriva al dono totale di noi stessi.

Su questo punto il Papa è molto duro: «Senza Cristo da unti si diventa untuosi» (Francesco, Omelia a S. Marta, 11.1.2014). I veri sacerdoti sono quelli che hanno un rapporto stretto con Gesù che è la loro pietra angolare. Un rapporto vivo, personale, da discepolo a maestro, da fratello a fratello, da pover’uomo a Dio.

Sull’altra sponda ci sono i sacerdoti che, avendo con Dio un rapporto “artificiale”, che non viene dal cuore, diventano vanitosi e scontrosi, sono sempre scontenti, insoddisfatti, arrabbiati; si legano alle forme più che alla sostanza; cercano un ministero alternativo o lanciandosi in avanti per sembrare moderni, o cercando nel passato quella identità e sicurezza che dovrebbero trovare prima di tutto nella relazione col Signore. Diventano così “untuosi” come scrive il Papa.

Non è questione di essere più o meno peccatori perché tutti lo siamo. «Se andiamo da Cristo, se cerchiamo il Signore nella preghiera, quella di intercessione, di adorazione, siamo buoni sacerdoti, benché siamo peccatori. Se ci allontaniamo da Gesù diventiamo mondani, tristi, sempre insoddisfatti di dove operiamo».

Cari missionari, siamo diventati religiosi e sacerdoti per Lui, per amore del Signore. Cristo è il centro della nostra vita, se perdiamo questo centro perdiamo tutto; e cosa daremo alla gente?

2) L’altra faccia della moneta porta l’icona del missionario zelante. Al centro c’è il carisma del sacerdote: la carità pastorale nella quale possiamo investire anche la nostra umanità e affettività. Il sacerdote è fratello con altri fratelli, è padre e madre, nutre e cura le pecore. La cura del gregge è un’esperienza d’amore che esige energia e tenerezza. Le pecore non sono il mio lavoro, sono la ragione della mia vita per amore del Signore.

In cosa consiste la missione del sacerdote? In tutto quello che Gesù ha proclamato nella sinagoga di Nazareth: annunciare il Vangelo e prendersi cura di tutti; condividere l’esperienza del nostro incontro con Cristo, la gioia di essere discepoli innamorati. Siamo mandati per testimoniarlo e annunciarlo da persona a persona, da comunità a comunità, quando celebriamo e quando insegniamo, quando stiamo con la gente e quando ci occupiamo di cose pratiche.

Grazie per la vostra accoglienza, grazie per la fiducia che ho percepito, quando nel corso degli anni ci siamo incontrati e mi avete aperto il cuore condividendo le gioie e le fatiche del vostro ministero. Senza pretese faccio un po’ mie le parole di Paolo: «Così affezionato a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo, ma la stessa vita perché mi siete diventati cari».

Se c’è qualcosa che oggi sento essenziale, prioritario, ineludibile per me e per voi è centrarci sull’essenziale, e l’essenziale è il tesoro che ci è stato dato perché lo custodiamo gelosamente: «Li chiamò perché stessero con lui e per mandarli».

Non siano queste solo parole belle; sono la ragione della nostra vita. Se ci ricentriamo su questo, se ci centriamo sull’essenziale i conti torneranno sempre: sia che siamo in una bella e ricca comunità e parrocchia, sia che ci troviamo nelle periferie povere dove, in base a ragionamenti solo umani, nessuno vorrebbe andare. Sia che ci sentiamo capiti, sia che ci sentiamo poco valorizzati. Potremo più avanti riflettere anche sulla qualità delle nostre relazioni, ma alla luce del Vangelo e delle sue logiche.

Chiedo al Signore che siamo uomini di Dio, discepoli innamorati, servi disponibili ad andare dovunque ci fosse bisogno soprattutto dove sappiamo che ci sono i poveri e gli ultimi. E se non possiamo più andare che abbiamo il coraggio di restare e continuare ad offrire noi stessi là dove Dio ci pianta.

È vero, siamo pochi, ma se custodiremo e vivremo l’essenziale non dobbiamo temere; saremo contagiosi, capaci di suscitare una Chiesa popolo di Dio, dove tutti i battezzati si sentiranno pietre vive attorno alla pietra angolare che è Cristo. Missionari autentici, consacrati per la missione, discepoli missionari, testimoni instancabili della prossimità di Dio Padre verso tutti i suoi figli e figlie con l’impegno di operare per la nostra umanità e diventare “cantieri di fraternità”.  

Faccio mie le parole del salmo 88: «Ho trovato Davide mio servo, con il mio santo olio l’ho consacrato. La mia mano è il suo sostegno, il mio braccio è la sua forza. La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui. Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza».

Prego ogni giorno per ciascuno di voi e voi: pregate per me, perché sia fedele al servizio affidato alla mia umile persona. Vi voglio bene! A tutti e ad ognuno: auguri per il dono del sacerdozio, coraggio e avanti in Domino! (Roma, 06 aprile 2023).

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Sabato 18 febbraio nella parrocchia di Montecastello padre Francesco Giuliani ha ricordato il suo 50esimo di ordinazione sacerdotale. 

Nato nel 1945 a Cella di Mercato Saraceno, padre Giuliani racconta: «La mia vita è stata molto varia, con esperienze tanto diverse: in fondo, il missionario è proprio questo». Morendo la madre quando aveva solo due mesi di vita, Francesco viene allevato con grande amore dagli zii analfabeti che, però, credono fermamente nel grande valore della cultura al punto di mandare il nipote a studiare a Roma, dopo una bocciatura in prima media. Seguono il fidanzamento e il diploma di geometra. 

Arriva poi la vocazione e l'ingresso nei Missionari della Consolata di Gambettola, i quali mandano Francesco, ventenne, a studiare alla facoltà teologica di Milano dove studia.

L'ordinazione sacerdotale, conferita dal vescovo Gianfrenceschi nella chiesa di Montecastello, avviene il 18 febbraio 1973. Il canto "esci dalla tua terra" fu il più significativo del momento, fotografia di quel periodo del post Concilio. Viene scelta questa chiesa per l'amicizia e l'affinità di pensiero tra padre Francesco e il parroco don Giovanni Beltrami che, pochi mesi dopo, lo seguirà nello Zaire. Dopo quell'esperienza, ecco la missione in Canada, poi con i nomadi Afar di Gibuti. «Ora opero a Oujda, al confine tra Algeria e Marocco, dove ci sono migranti che escono dal deserto e spesso viene loro rubato tutto, anche l'umanità. Cerchiamo di rincuorarli». 

Negli anni 90' padre Francesco è stato anche assistente spirituale all'università Cattolica di Milano e poi al "Gemelli" di Roma. In questo periodo il fine settimana risiedeva a Montepetra. È seguita l'esperienza di parroco a Gualdo e la permanenza a Gambettola alla Consolata. «Pur in mezzo a crisi di ogni tipo, il Signore mi ha sempre rialzato e mi ha chiesto continuamente, e anche ora, di abbandonarmi a lui». 

Per ricordare il 50esimo di sacerdozio a Montecastello padre Francesco ha svolto una rilettura della sua storia di vita «alla luce della tenerezza di Dio». Sono poi seguite una Messa di ringraziamento e una cena di condivisione. Ora padre Francesco è a Lisieux agli esercizi spirituali, per ringraziare santa Teresa patrona delle missioni. 

*Redattore del Corriere Cesenate dove è stata pubblicata questa notizia il 2 marzo 2023

Giornata storica non solamente per il cardinale Giorgio Marengo e per gli altri vescovi che oggi sono stati creati cardinali, ma anche per la Chiesa che è in Mongolia e per i Missionari della Consolata. È impegnativo ricevere la responsabilità di contribuire alla guida della Chiesa universale a soli 48 anni, ma è un segno di grande stima da parte di papa Francesco per il servizio che è stato fatto e che si continua a fare in Mongolia e nel mondo.

Arrivando a Roma, mons. Giorgio Marengo, vescovo e prefetto apostolico, ha portato con sé un pezzo di Mongolia ed in particolare è stato accompagnato dal suo segretario don Peter Sanjaajav, che è uno dei primissimi preti mongoli, il secondo per esattezza, e due catechiste: Rufina Chamingerel e Monica Odzaya. Parlando con loro si respira la freschezza di una Chiesa che è agli inizi e che gode di quella benedizione che arriva diretta dai primi secoli, quando molte donne e uomini lasciavano trasparire dai loro volti la gioia di aver incontrato Gesù e la sua Bella Notizia e con il loro entusiasmo contagiavano altri ad incamminarsi per la stessa via.

La nomina a cardinale rappresenta una profonda attenzione del Santo Padre alla Chiesa che è in Mongolia, una realtà in cui la Chiesa è in minoranza ed è segnata da marginalità. E un grande incoraggiamento alla piccola comunità cattolica a rinnovare con fervore la propria fede.

Rufina e Monica, cosa significa per voi essere catechiste nel vostro Paese?

«La Mongolia è grande e la popolazione in rapida crescita, ma molto esigua rispetto alle dimensioni del territorio. Come catechisti siamo pochi, una trentina in tutto il Paese e gli strumenti per l’annuncio non sono molti, abbiamo una traduzione della Bibbia fatta dai protestanti e poco altro, ma la ricchezza più grande per noi è la presenza dei missionari: sono “vite che parlano”».

Qual è la gioia più grande e la fatica maggiore dell’essere catechiste?

«La felicità più grande - spiega Rufina - è proprio il poter parlare ai nostri connazionali di Gesù e del suo Vangelo, a volte, però, ti senti piccola di fronte a quello che devi annunciare e davanti a uomini e donne che spesso sono più grandi di te, con un’esperienza di vita ricca e che ha attraversato tante difficoltà».

«In Mongolia molte persone vivono ancora prive dei mezzi minimi per vincere la povertà ed è difficile pensare ad altro quando sei tutto intento a sopravvivere. Ci sono anche alcune persone benestanti che hanno studiato all’estero, ma a loro la proposta cristiana non interessa molto - spiega Monica - Quando vedo un gruppo di catecumeni di quindici persone che con il tempo si assottiglia e rimangono solo in quattro mi chiedo: sto sbagliando qualcosa? Come mai alcuni se ne vanno? È molto bello, però, accompagnarli e parlare loro di una Persona che ha cambiato la mia vita».

Don Peter, com’è che sei diventato prete e cosa ti coinvolge particolarmente del servizio alla tua Chiesa?

«Nel 2003 durante la notte di Pasqua sono stato battezzato e l’anno seguente ho iniziato a fare il catechista nella mia parrocchia, eravamo tra i primi. Una notte - racconta don Peter - ho sentito come una voce che diceva per tre volte: "Peter, Peter, Peter" e ho pensato che forse era una chiamata particolare. Le condizioni in Mongolia non sono semplici ed io ho iniziato ad andare a scuola solamente a quindici anni. Eppure, sono riuscito a portare avanti gli studi, sono partito per la Korea per frequentare il seminario e mi son detto: “Se nonostante abbia iniziato così in ritardo la scuola sono riuscito ugualmente ad arrivare fin qui, forse è un segno che la mia strada è proprio questa”. Adesso sono viceparroco della cattedrale e andare a trovare a casa le persone, in particolare quelle che sono più in difficoltà mi riempie di gioia».

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Nella foto da sinistra a destra Monica Odzaya, Rufina Chamingerel, Mons. Giorgio Marengo, don Peter Sanjaajav

Quale augurio fate a p. Giorgio che è appena diventato cardinale?

«Ho conosciuto p. Giorgio nel 2005 - ricorda don Peter -, quando era un giovane prete alle prese con lo studio della lingua mongola, poi è diventato responsabile di una delle più importanti missioni della Mongolia, ad Arvaikheer, vicino a Karakorum, dove Gengis Khan, molti secoli or sono aveva radunato i responsabili di tutte le religioni allora presenti nel Paese. Due anni fa p. Giorgio è diventato vescovo ed ora cardinale, ma è rimasto sempre se stesso, con la sua gentilezza e attenzione alle persone, con la sua passione missionaria. Gli auguro di continuare così e di non perdere la sua genuinità».

«Quando vedo p. Giorgio vorrei diventare come lui, con il suo sorriso, con la sua grande pazienza con tutti... - confida Rufina - P. Giorgio, ti siamo vicini!»

«Hai una responsabilità molto grande adesso, p. Giorgio, hai bisogno di un’équipe: noi ci siamo, qualunque cosa deciderai di fare, ti sosterremo».

Grazie p. Giorgio, grazie don Peter, Monica e Rufina perché ci trasmettete la bellezza di scoprire un mondo nuovo, una via non ancora percorsa, e contagiate anche noi con la voglia di essere cristiani veri, trasparenti, desiderosi di trasmettere con tanto rispetto ciò che ha conquistato il vostro cuore.

Messaggio in occasione della nomina di padre Joya Hieronymus a vescovo della Diocesi di Maralal in Kenya

“Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi.” (St. Agostino)

“Siate generosi, datevi interamente al Signore; non bisogna misurare, non fermarsi a guardare delle storie. Il Signore pensa lui a quello che è necessario, e se qualche volta si devono fare dei sacrifici, ebbene facciamoli volentieri. Siate umili!” (Beato Giuseppe Allamano)

Beandrarezona Madagascar, 26 luglio 2022.

Missionari carissimi, giunga a tutti voi questo messaggio di gioia e di festa per il nostro Istituto. Il 20 luglio scorso, il Santo Padre, Papa Francesco, ha nominato il nostro caro padre Joya come nuovo vescovo della Diocesi di Maralal in Kenya.

Mi si perdoni se questo messaggio vi raggiunge un po’ in ritardo, ma proprio il giorno 20 luglio, ho intrapreso il viaggio per la visita ai nostri tre confratelli che da tre anni sono impegnati nel lavoro missionario in Madagascar e precisamente nella missione di Beandrarezona nella diocesi di Ambanja.

La nomina di padre Joya come vescovo riempie di gioia il nostro cuore. Vogliamo ringraziarlo per la sua testimonianza e la sua disponibilità a lavorare come pastore nella Chiesa. La gioia e la festa per padre Joya diventa più grande se la viviamo insieme alle numerose grazie che in questi ultimi tempi, il nostro Istituto ha ricevuto. Penso sia a padre Joya come agli altri vescovi nominati, penso anche al dono che il Papa ci ha regalato nominando Monsignor Giorgio Marengo come primo cardinale della nostra famiglia, ma non possono passare sotto silenzio i tanti nostri missionari che con umiltà e spirito di servizio si donano ogni giorno nella missione.

Il mio pensiero va anche al bel gruppo di giovani che in questi ultimi anni si è donato totalmente al Signore accettando con gioia l’ordinazione sacerdotale allo scopo di servirlo e impiantare il suo regno. Come dimenticare le tante comunità sparse per il mondo che, pur tra molte sofferenze e disagi, vivono con gioia la loro missione: i missionari in Venezuela, in Congo, in Costa d’Avorio, in Etiopia, nell’Amazzonia, nella stessa Madagascar dove mi trovo attualmente e da dove scrivo. Attualmente siamo presenti in 28 paesi e rappresentiamo 27 nazionalità di cui siamo originari.

Ho anche nel cuore il cammino sinodale iniziato in preparazione del prossimo Capitolo Generale che vorrebbe che tutti diventassero veri e autentici protagonisti. Come dimenticare le nostre diverse case di formazione che sono sparse nei diversi Continenti. Esse sono luoghi privilegiati dove cerchiamo, seppur con fatica, di trasmettere il nostro carisma, di instillare nei giovani l’amore per Gesù e per la Missione, dove tentiamo anche di trasmettere i valori umani e cristiani che dovrebbero rendere tutti noi persone mature, vere e generose.

Sono certo che questo tempo è un tempo di grazia per il nostro Istituto e vorrei invitare tutti a mettersi in ascolto dello Spirito per cogliere quanto egli vuol comunicarci. La sua voce si percepisce solo nel silenzio della contemplazione. Credo che dobbiamo rendere grazie per questi “giorni buoni” che il Signore ci dona, ringraziandolo, vivendo con più amore e donazione la nostra vita missionaria, e ricordandoci sia dei poveri e sia di coloro che Dio ha messo sul nostro cammino.

Come missionari della Consolata dobbiamo essere capaci di investigare questo particolare momento storico che, soprattutto per noi, potrebbe essere un tempo di grazia. È questo lo sguardo che dobbiamo avere sulla realtà che stiamo vivendo. Forse anche noi, come dice Isaia, ci sentiamo un po’ come delle canne incrinate, come delle fiamme smorte, incapaci realizzare con determinazione qualcosa che possa essere un segno forte. Ma questo è il tempo della grazia, in cui il Signore ci invita a seguirlo con forza, e ad affidarci a lui senza condizioni. Solo così possiamo cogliere la sua voce e diventare segni visibili della sua grazia.

Celebrare la festa di un confratello che diventa pastore vuol dire ricordarlo e, insieme a lui, ricordare tutte quelle persone che, nel corso della storia, hanno vissuto, con coerenza, fino alla fine, la propria fede senza paura, senza timori e tentennamenti.

Celebrare questi avvenimenti, forieri di “giorni buoni” per il nostro Istituto, vuol dire prendere sul serio la nostra fede e la nostra missione. La fede e anche la missione sono una cosa seria, non sono di certo un passatempo. Siamo invitati, prima di tutto, a vivere la nostra donazione coerentemente. Quando si vive in modo mediocre e non si vive il Vangelo fino in fondo, non si partecipa alla vita della comunità, e non ci si sente membra vive della Chiesa e dell’Istituto, allora si offende apertamente la memoria di quei missionari che prendono sul serio la loro vocazione e la loro missione. L’Istituto si fonda sulla roccia che è Gesù Cristo, ma anche su altri due pilastri: da una parte, la testimonianza e l’insegnamento del nostro Fondatore e, dall’altra parte, la vita di tutti i missionari che, nel corso della storia, ci hanno annunciato e testimoniato, con la loro vita, Gesù Cristo.

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Persone disponibili al servizio

Il primo invito, dunque, che ci viene dal momento storico che viviamo come Istituto, è che ci aiuti a vivere la nostra fede e la nostra missione, sempre fino in fondo, senza mezze misure, senza falsità, e senza mediocrità.

Il secondo invito, che ci viene da questi “giorni buoni” per il nostro Istituto, è di prenderci sempre cura, all’interno delle nostre comunità missionarie, di quelle situazioni di difficoltà che le persone vivono, facendoci loro compagni di viaggio allo scopo di aiutarle e di infondere in loro speranza per sé e per i loro cari. Amare è servire e servire vuol dire appunto essere disposti a mettersi in gioco, a donare la propria vita. Esiste un martirio che spinge fino al dono del proprio sangue. Ma esiste anche un martirio quotidiano che siamo chiamati a vivere, attraverso la nostra testimonianza di fede. A questo proposito dice Gesù: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,24). Gesù insegna che crescere nella vita vuol dire imparare a donarla agli altri, donarla attraverso il servizio.

A questo punto la domanda è d’obbligo: che cosa possiamo fare noi per il nostro Istituto? Che cosa possiamo fare noi per la nostra comunità? Che tempo possiamo mettere a disposizione degli altri? Quali nostre qualità possiamo donare agli altri? Quali servizi possiamo offrire agli altri perché ci aiutino a crescere insieme sia come comunità sia come Istituto?

Pensando alla vita dell’Istituto, ritengo che i servizi di cui abbiamo bisogno sono tanti, ma uno, penso, sia necessario in modo particolare. C’è bisogno di crescere nella responsabilità. Nel sentirsi parte viva della comunità. C’è bisogno di prendersi le proprie responsabilità. Ognuno dovrebbe dire: questa è la mia casa. C’è bisogno di domandarsi che cosa posso fare per farla crescere sempre di più, per far conoscere sempre di più gli altri, la persona e il messaggio di Gesù Cristo.

Di conseguenza in questi “giorni buoni”, come padre, vorrei chiedere questa grazia per l’Istituto alla Consolata: che faccia crescere e maturare nelle nostre comunità persone disponibili al servizio. Di fronte al Signore, per intercessione del Beato Giuseppe Allamano e delle Beate Leonella e Irene, mettiamo oggi le nostre comunità, il nostro Istituto, perché ognuno di noi possa sentirsi sempre più parte viva e possa fare la sua parte, per la crescita della fede e per la crescita del bene comune. Possa il Signore inviare il suo Spirito su di noi perché ci renda sempre più sensibili e impegnati a sollevare la sorte dei più poveri della nostra società.

Mentre promettiamo il ricordo nelle nostre preghiere e rinnoviamo i nostri auguri a p. Joya, accogliamo con gioia quanto questo tempo ci offre per vivere meglio la nostra vita e la nostra missione. Che la grazia del Signore, che ci sta visitando abbondantemente in questo tempo, aiuti tutti noi a essere più missionari. Che questi “giorni buoni”, che il Signore ci dona, ci aiutino a ben preparare e vivere il prossimo Capitolo Genarele come un momento di grande rinnovamento e purificazione affinché possiamo essere sempre più degni del nome che portiamo. Fraternamente a tutti e ad ognuno: coraggio e avanti in Domino!

* Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata

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