Nei tempi antichi la terra era di tutti, ma il fuoco no. Il fuoco aveva un padrone. E questo padrone era l'uccello Urubu, il nero Urubu dai forti artigli e dalle piume lucenti, che abitava in cielo e conservava il suo tesoro sotto le assi del pavimento, per paura che glielo rubassero.
Gli indios non potevano né cucinare né scaldarsi durante la notte e allora Baira decise che ci avrebbe pensato lui.
Era o no il più furbo di tutti? "Perché il fuoco deve avere un padrone, quando né la terra né l'acqua, né l'aria ce l'hanno?" disse Baira "Lo porterò via a Urubu e la mia gente potrà finalmente cuocere il cibo, invece di lasciarlo seccare al sole."
Andò nella foreta si coprì di foglie e rametti e si stese per terra, fingendosi morto. Dopo un po' sentì un ronzio: zum, zum, zum... era la mosca azzurra che gli volava intorno, convinta che fosse morto per davvero.
Poi la mosca salì dritta verso il cielo, per avvertire Urubu che sulla terra c'era un cadavere appetitoso, pronto per essere mangiato. Subito Urubu (che aveva mani e piedi e somigliava in tutto a un uomo)volò giù insieme alle sue mogli, ai molti figli e agli amici e non si dimenticò di portare con sé anche un recipiente di terracotta pieno di brace. Quando videro Baira, gli urubu si tolsero le loro vesti di penne e cominciarono a preparare un gran fuoco per arrostire il morto. Solo i più piccoli si accorsero che il petto gli si sollevava appena e dissero al padre: "Il morto respira". "Stupidaggini!" rispose Urubu "Andate a giocare e non fatemi perdere tempo". Così i piccoli urubu andarono a caccia mentre i grandi alimentavano il fuoco. Baira aspettò che ardesse e fiammeggiasse, poi si alzò di scatto, afferrò un ramo acceso e scappò via. Con un grido, Urubu chiamò a raccolta la sua gente perché lo inseguisse ma Baira era troppo veloce e corse finché arrivò in riva al fiume. Sull'altra riva c'erano i suoi, gli Indios Parintintim, ma il fiume era così largo e profondo che lui ebbe paura di attraversarlo a nuoto, e allora chiamò il cobra surradeira (un serpente che corre velocissimo e sa anche nuotare) e gli legò il ramo ardente sulla schiena dicendo: "Ti affido il fuoco che ho rubato. Portalo sull'altra riva, dove il mio popolo lo aspetta". Il cobra andò, ma l'insopportabile calore del fuoco lo costrinse a tornare indietro; da allora ha tante macchie brune sul dorso, ricordo di quella tremenda scottatura. Baira chiamò il gambero, gli posò il ramo sulla schiena e gli ordinò di nuotare fino all'altra riva. Ma anche lui tornò indietro, perché il fuoco l'aveva fatto diventare tutto rosso (e così è ancora oggi).
Toccò al granchio tentare l'impresa: ma anche lui diventò rosso e dovette rinunciare. Baira non sapeva più a chi rivolgersi e decise di tentare lui stesso: si mise il ramo ardente sulle spalle e cominciò a nuotare. Ormai era a metà del fiume, ma il calore delle fiamme era tale che cominciò a gridare "Non ce la faccio! Rospo-cururu, aiutami!"
E il rospo-cururu, grande e grosso, tondo e grasso, gli fu subito accanto e inghiottì il fuoco con la sua enorme bocca. Poi nuotò sino all'altra riva e risputò le fiamme ai piedi dei parintintim che le alimentarono con rami secchi e ci barrarono intorno. Da quel giorno il rospo-cururu viene chiamato anche "ladro del fuoco" e può inghiottire senza bruciarsi le azzurre fiammelle dei fuochi fatui. Ma quando fa freddo sul serio non c'è falò che riesca a riscaldarlo, anche se si avvicina alla fiamma il più possibile, cantando: "Povero cururu, che freddo fa! Povero rospo, chi ti scalderà?"