Le ragioni delle manifestazioni a Hong Kong sono complesse. C’è, prima di tutto, l’equilibrio fragile di un territorio “senza futuro”: dopo il ritorno sotto la sovranità della Repubblica popolare nel 1997 la prossima scadenza è il 2047, quando l’ex colonia dovrebbe tornare integralmente a far parte della Cina continentale. E non sono i poveri a protestare, piuttosto i borghesi che vedono messa a rischio la propria prosperità, non tanto a causa delle “ingerenze” della Repubblica popolare quanto per il mutato contesto economico internazionale
Spaccare una vetrina a Hong Kong è diverso che farlo a Parigi? Per una certa scuola mediatica occidentale sì, certamente: i “casseurs” francesi profumano di teppismo, mentre chi insorge in Asia è un portabandiera delle libertà, dei diritti umani, ecc. Nel passato è stato così anche per le “primavere arabe”, per le proteste in Venezuela; e ancor più recentemente per le manifestazioni in occasione delle elezioni amministrative a Mosca… Forse dovremmo ricordare più sovente che l’informazione, e la manipolazione dell’informazione, fanno parte della politica – soprattutto quando si tratta di incidere in modo massiccio sull’opinione pubblica.
La legge sull’estradizione che aveva dato origine alle proteste, la primavera scorsa, è stata ritirata. La posizione della governatrice Carrie Lam appare ulteriormente indebolita: la gente di Hong Kong continua a vedere in lei una esecutrice obbediente di ordini che vengono da Pechino; e non sono certo bastate le promesse di nuovi investimenti nel “sociale” a raffreddare il clima delle proteste.