L’ANNO DEI RELIGIOSI

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Intervista a Card. João Braz De Aviz

«La vita consacrata è una perla della Chiesa. Durante tutta la sua storia abbiamo avuto cristiani e cristiane che hanno portato qualche luce particolare del Vangelo all’intera Chiesa e all’umanità. Una luce a cui il concilio ha dato nuova forza, riconoscendo il suo posto dentro il popolo di Dio. Non semplicemente in sé e per sé, ma dentro il popolo di Dio. E ha fornito tre indirizzi ancora attualissimi: seguire Gesù, rimanere coerenti con il carisma del fondatore e della fondatrice nelle cose essenziali, dialogare con il mondo. Sono indirizzi che non possono mancare, tesori preziosi. Questo non ci impedisce di vedere le crisi e i modi sbagliati  di vivere la vocazione consacrata, ma anche di constatarne le straordinarie fedeltà. È un approccio che abbiamo usato in occasione dell’anno della vita consacrata (30 novembre 2014 – 2 febbraio 2016). Anzitutto uno sguardo al passato e una memoria grata. Oggi c’è davvero una ricchezza nella vita della Chiesa perché nei posti più delicati e difficili operano i religiosi e le religiose. Tutte le volte che visito gli istituti, soprattutto missionari, torno con il cuore pieno di festa perché vedo quanto c’è di vita autentica, vera e profonda. Poi si guarda al futuro, ma non con l’atteggiamento depressivo di chi si applica all’ars moriendi. Questa riguarda il morire a se stessi e non la scomparsa dei carismi. Non siamo padroni del carisma ricevuto. Il nostro futuro è nella certezza che Dio è fedele. Tornando al presente quello che dobbiamo coltivare è la “passione”. Se Dio mi ha guardato con amore, sento la necessità di rispondere».

La proclamazione dell’anno della vita consacrata ha acceso l’attenzione del popolo di Dio. Lei si è sempre opposto ai profeti di sventura che considerano la vita consacrata come residuale. Ha mai avuto la tentazione di cambiare parere?

«Avevo già conoscenze e rapporti da vescovo, ma non certo così profondi come oggi. Quando sono stato chiamato a questo servizio mi sono sinceramente chiesto se sarei stato all’altezza del compito perché conoscevo relativamente poco dei consacrati e praticamente nulla del funzionamento della Congregazione. Ma nel cuore ho sempre conservato la convinzione che la vita consacrata era ed è una cosa grande. L’ho sempre pensato anche quando ho conosciuto difficoltà a livello della mia diocesi. Non ho affatto la tentazione di cambiare idea. Dopo tre anni e mezzo di lavoro qui in Congregazione con un contatto diretto con moltissimi aspetti della vita religiosa mi viene alla mente per assonanza il celebre detto di Agostino relativo alla Trinità: “troppo tardi ti ho amato, bellezza sempre antica e sempre nuova!”. Come non vedere la bellezza di uomini e donne illuminati da Dio, la loro fedeltà e coerenza nei reciproci istituti? Davvero bisognerebbe mettersi in ginocchio!»

Lei ha accennato al suo ministero in Brasile. Immagino ricordi i tempi del confronto sulla teologia della liberazione e l’accusa di magistero parallelo…

«Per il desiderio di profezia c’è stato un momento della nostra storia in cui abbiamo preso coscienza della realtà della miseria e della povertà. Un paese come il Brasile era per alcuni ricchissimo e per altri miserabile: una dicotomia non accettabile. Il concilio aveva liberato tante forze positive in ordine alla promozione dell’uomo e della donna, della giustizia, della pace e della fraternità. In questa corrente è entrata anche l’ideologia e qui è nato il problema. La teologia della liberazione è stata una cosa grande che ci ha aiutato a far crescere la nostra consapevolezza cristiana in ordine ai poveri, però alcuni sono andati per una via in cui la fede è scivolata in secondo piano. O è stata addirittura nascosta. Con la conseguenza di una interpretazione dualista della società, della contrapposizione classista. Oggi siamo oltre e altrove. Quando, un paio di anni fa, sono andato a Quito (Ecuador) ad incontrare la CLAR sapevo della lunga stagione di contrasto. Nel dicastero abbiamo un ampio carteggio in merito. Però mi sono presentato senza un testo scritto, senza alcuna idea preconcetta. Volevo incontrarli e basta. Un atteggiamento che mi ha dato la possibilità  di dire con  libertà e di ascoltare con altrettanta libertà quello che avevano nel cuore. Dicevo loro: dobbiamo liberarci dai nostri scheletri nell’armadio perché altrimenti il passato ci condizionerebbe troppo. Recentemente ho incontrato un migliaio di religiosi e religiose a Curitiba (Brasile) in un clima di grande comprensione. Ho incontrato anche Clodovis Boff apprezzando la sua visione ecclesiale».

Nella coscienza delle Chiese locali vi è l’urgenza di rinnovare il riconoscimento alla vita consacrata? 

«Quello dei rapporti fra vescovi e religiosi è uno dei problemi centrali che dobbiamo riprendere per esplicito mandato di papa Francesco; riscrivere cioè le Mutuae relationes. Si tratta di farlo mettendo al centro due principi espressi a suo tempo da  san Giovanni Paolo II. Egli sottolineava la centralità della spiritualità di comunione non solo fra vescovi e religiosi, ma in tutti i rapporti ecclesiali. In secondo luogo la co-essenzialità fra gerarchia e carismi. Espresse questo insegnamento nel momento della valorizzazione dei movimenti ecclesiali e molti la ritennero eccessiva, mentre in realtà è molto preziosa. Compito di governo e dono carismatico, espressi nella figura di Pietro e di Maria, sono due realtà co-essenziali, non una sottoposta all’altra, non una superiore all’altra. Lo Spirito parla in ambedue e non si contraddice. Il problema è piuttosto nostro: vivere con maturità spirituale questo rapporto. Dovremo lavorare molto sia coi vescovi sia coi superiori religiosi. Dobbiamo uscire dalla sofferenza in cui uno accusa l’altro. Dovremo considerarci tutti parte della stessa Chiesa, certo con diverse responsabilità, ma nella convinzione che l’altro è parte integrante, non un elemento secondario, non un’appendice. Stiamo già camminando in questa direzione, ma dobbiamo fare di più. Ci sono ancora problemi riguardo ad esempio i beni di proprietà o alcune attività in pastorale, ma tutto deve essere risolto nel rispetto delle responsabilità reciproche – di  ministero e di paternità per i vescovi – e non secondo le nostre personali volontà».

Nel corso dell’anno, o immediatamente dopo, è prevista l’uscita di alcuni testi: oltre all’aggiornamento di Mutuae relationes, una revisione di Verbi sponsa; un documento sui fratelli; alcune lettere circolari ecc. Potrebbe dirne qualcosa?

«Per il documento sui fratelli laici siamo già a buon punto. Li abbiamo molto coinvolti per recepire quello che loro sentono. Il papa ha molto insistito in merito. In questo ambito affronteremo anche la questione giuridica se il fratello può essere o meno superiore di confratelli preti. Le bozze che ho letto finora sono assai ben fatte. Il secondo documento èVerbi sponsa e riguarda la vita claustrale. Anche qui è necessario un aggiornamento su tre punti specifici: l’autonomia dei monasteri, la forma della clausura e i suoi gradi, ma soprattutto la formazione. Abbiamo distribuito a tutti i monasteri un questionario in merito e le risposte già cominciano ad arrivare. Sta uscendo un’altra lettera circolare ispirata alle figure della nube e del fuoco del Deuteronomio».

Non sono mancati negli ultimi anni dolorosi scandali nella vita consacrata. In particolare sul versante degli abusi e della gestione dei beni. Con quali criteri il dicastero interviene per accompagnare i casi difficili?

«Quando sono arrivato si stava chiudendo il lavoro delle commissioni in Irlanda e in Australia. Le loro conclusioni sono state molto utili. Quando si tratta di crimini è necessario il ricorso alla legge e ai suoi strumenti. Però quando siamo tornati sul posto abbiamo anche costatato come da quella vicenda siano scaturiti frutti dubbi. Si è creata, per esempio, una paura dell’affettività. Si ha paura di manifestare affetto per un bambino o per un adolescente. Ma nessun bambino o adolescente cresce senza affetto e senza i suoi segni. Certo è necessaria un’affettività matura e adeguata ad un rapporto rispettoso, ma non la dobbiamo perdere. E poi: quanti sono stati interessati a casi di pedofilia e hanno percorso tutto il tempo dell’espiazione, affrontando cure e terapie adeguate e una conversione personale verificata, dove li mettiamo? Hanno perso l’onore e la faccia, ma possiamo buttarli al macero? Faremo come ha fatto Gesù o ci comporteremo da giudici inflessibili? Sono domande ancora aperte».

Fra i casi affrontati vi è stato quello dei Legionari di Cristo e dei frati dell’Immacolata. Che giudizio ne può dare?

«Dal caso dei Legionari e da altri abbiamo capito che anche un fondatore o una fondatrice che hanno ricevuto un vero carisma possono risultare indegni del dono ricevuto. Però questo non significa che il carisma non sia autentico. Nel caso dei Legionari è necessario distinguere il fondatore dalla sua opera. E in merito è stato compiuto un lavoro in profondità. Il papa, attraverso la nostra Congregazione, segue da vicino il loro governo. È un cammino molto ben avviato, con frutti visibili, anche se vi sono aspetti ancora da chiarire, ma in piena comunione di intenti. Nei confronti dei frati dell’Immacolata troviamo difficoltà. Ci stiamo accorgendo che dietro il riferimento al rito straordinario (latino) si nasconde la negazione del concilio, che non è accettabile. Non vediamo ancora con chiarezza il loro futuro. C’è purtroppo molta resistenza e ci sono anche accuse all’intervento che il papa ha voluto. In parallelo ci sono difficoltà anche con le suore dell’Immacolata».

Lei è vicino al movimento dei Focolari. Come  vede il rapporto tra movimenti ecclesiali e vita consacrata?

«Non posso negare la mia esperienza personale. Ho conosciuto in passato un momento di forte crisi. Non era solo una questione vocazionale, ma anche di fede. Proprio allora ho incrociato il focolare. È stato molto importante per me. E questo ha coinciso con il momento in cui la Chiesa stava apprezzando i movimenti. Vedo tutti i movimenti riconosciuti come un dono prezioso. Vi sono ancora delle difficoltà che peraltro i papi puntualmente ricordano, però dobbiamo aprirci ai movimenti ecclesiali che portano luce, fervore e forza all’annuncio del Vangelo. Manca talora in loro continuità e stabilità, ma tocca agli istituti di più lunga storia aiutarli in questo. D’altra parte essi hanno una forza e una incisività nel vissuto ecclesiale che dobbiamo apprezzare e comprendere».

Qual è il ruolo dei religiosi e delle religiose nell’ecumenismo e nel dialogo interreligioso?

«Apriremo l’anno della vita consacrata con un colloquio con le espressioni di vita comune della Chiesa luterana, anglicana e con il monachesimo orientale. Il dialogo verterà non sulla dottrina o sulla storia, ma su come oggi ciascuno vive nella sua tradizione la consacrazione a Dio. È un segnale forte, che vede per la prima volta da secoli tutte le confessioni cristiane apprezzare la scelta della vita comune consacrata ».

Vi è una domanda condivisa per un maggior ruolo della vita consacrata femminile nella Chiesa? Cosa possiamo attendere come conclusione della  visita apostolica alle suore degli Stati Uniti?

«Dobbiamo da subito dire che la vita consacrata è in grande prevalenza femminile. Si va dal 70 all’80%. Questo vuol dire che la donna ha una più forte sensibilità spirituale in merito. Il papa  vuole che le donne abbiano più visibilità negli organismi ecclesiali sia centrali che periferici. Compresa la nostra Congregazione, anche nei posti decisionali, come del resto abbiamo cominciato a fare. E questo è importantissimo per la vita consacrata. Dobbiamo rivedere i processi formativi sul rapporto uomo-donna. La bellezza dell’altro/a è anche mia. Dobbiamo rendere l’altro/a non uguale a noi, ma maggiormente se stesso/a. Per quanto riguarda le suore americane vi sono due realtà. Sta uscendo la valutazione finale della visita apostolica alle 57.000 suore di quel paese. Abbiamo voluto un testo positivo e di sostegno per tutto il bene che hanno fatto e fanno alle Chiese e alla società. Ci sono poi alcuni problemi che interessano alcune congregazioni e faremo dei documenti specifici per loro. Mentre è ancora in atto l’indagine della commissione episcopale (presieduta da mons. J. Peter Sartain di Seattle) in base alla valutazione dottrinale elaborata dalla Congregazione della dottrina della fede. Essa riguarda la Leadership Conference of Women Religious (LCWR). È un lavoro non concluso e che conosce difficoltà. Però la scelta della nuova presidente, suor Sharon Holland, è di buon auspicio perché è molto stimata e ha lavorato anche qui in Congregazione».

Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le nuove fondazioni. Quante sono e con quali criteri valutarle?

«Stiamo seguendo da vicino il fenomeno. Non tutte sono affidabili e autentiche. Ci sono fondatori e fondatrici con problemi gravi. Non sono certo la maggioranza, ma ci sono. Vorremmo arrivare a criteri condivisi di valutazione che possano aiutare tutti a discernere. Ma dobbiamo anche sapere attendere».

Secondo lei cosa convince un ragazzo o una ragazza a scegliere la vita consacrata?

«Lo faranno se trovano consacrati felici».

 

 

 

Last modified on Thursday, 05 February 2015 17:05

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