Sono padre Daniel Ruiz, compio non 50 ma 55 anni di ordinazione a dicembre di quest’anno. Sono venuto a Roma perché ero sicuro che questo corso mi sarebbe stato di grande aiuto per trovarmi con la mia realtà, la mia vecchiaia... e così è stato. Il prossimo mese di maggio compirò 78 anni e ho potuto scoprire che la vecchiaia non è, come dicono in swahili, un “mzigo mzito”, un peso noioso da portare, ma è un dono e un valore con il quale, anche se le forze mancano un po’, abbiamo ancora tanto da dare agli altri.

Tutto quello che abbiamo raccolto nella nostra vita è da comunicare agli altri, una saggezza che non va sprecata. 

Grazie mille per questo corso, è stato un grande regalo. Torno in Tanzania per continuare a comunicare ed annunciare ai fratelli e lo faccio con maggior fiducia in Colui che mi ha chiamato e continua a dare la vita per noi.

Il simbolo che ho portato è una tartaruga, perché la tartaruga? Perché in Kiswahili ci sono delle favole che hanno come protagonista Mzee Kobe, cioè l’anziano tartaruga. Questi è un animale simpatico, certamente lento, ma ci comunica la pazienza e la saggezza. 

La ragione di questo segno che mi sono portato viene da lontano, da quando sono arrivato in Tanzania la prima volta. Avevo trovato p. Giovanni Barra al quale avevo chiesto di consigliarmi qualcosa di importante per la mia nuova missione in quel paese. Lui mi ha risposto con un indovinello che diceva così: “chi non ce l’ha l’acquista e chi ce l’ha la perde... che cos’è?”. Ci avevo pensato un po’ e dopo mi ero arreso. E allora lui mi ha risposto in questo modo: “la pazienza figliolo! Se non ce l’hai la acquisterai, e se ce l’hai la perderai!”.

È la frase che non mi dimentico mai... io in realtà mi sembra di averne ma è pur sempre vero che ogni tanto la perdo e allora la devo riacquistare. È un valore per me e per quelli che convivono con me e da lì il simbolo che ho portato per “presentarmi” in questo corso: la tartaruga, la saggezza di Mzee Kobe.

Ai missionari giovani consiglierei prima di tutto d’avere un forte senso di appartenenza. Loro hanno lasciato le loro famiglie ma non le hanno abbandonate: continuano ad amarle come prima. Pero adesso hanno una nuova famiglia: la famiglia dei missionari della Consolata, la nostra congregazione, il nostro istituto. È qui che ci dobbiamo donare tutto, “hali na mali”:  cuore e anima. 

I giovani devono rendersi conto che se siamo fragili se non abbiamo la fede salda, la missione sarà dura. Quindi fede in Gesù che ci chiama e ci invia, prima veri cristiani e poi missionari. 

* P. Thomas Mushi è Missionario della Consolata, Studente di Diritto Canonico a Roma, e ha intervistato il P. Daniel Ruiz presente al corso dei missionari con 50 anni di ordinazione.

Alcuni messaggi di cordoglio, giunti al WhatsApp del Superiore Generale, forse più di tante parole tratteggiano la figura del padre Rino Dellaidotti, recentemente scomparso. Quasi tutta la vita passata in Colombia, ha partecipato recentemente alla formazione continua dei missionari con 50 anni di professione o sacerdozio. Da quei missionari arrivano la quasi totalità dei messaggi che riportiamo.

Rino è deceduto il giorno 1 giugno 2023 a Trento. Aveva 78 anni di età, di cui 55 di Professione Religiosa e 50 anni di Sacerdozio. Sarà sepolto sabato 3 giugno nella chiesa parrocchiale di San Lorenzo in Banale, suo paese natale. 

Carissimi amici, Purtroppo una triste notizia. Il p. Rino non ce l’ha fatta. Preghiamo ora per il suo eterno riposo, premio della sua vita semplice, generosa, e del suo amore per la chiesa, l’Istituto, la missione. Rino riposa in pace. P. Claudio. (Rivoli -TO)

Che fortuna ho avuto. Senza il corso G50 non ti avrei mai conosciuto e ammirato. Uomo buono, umile, generoso. Ci ritroveremo! So che ci sarai sempre vicino, come lo sei stato con i tuoi cari in varie parti del mondo. Evviva padre Rino!

Abbiamo perso un fratello. Con la fortuna di aver passato con lui un mese ed apprezzarlo come persona e missionario. Che dal cielo continui ad accompagnarci.

P. Rino rimane sempre nel nostro cuore come esempio di bontà e di fedeltà al Signore. La fede nella risurrezione ci riassicura che Lui è col Signore più vivo che mai. Sarà  il nostro intercessore e il conforto della sua famiglia, dei suoi amici e della gente che ha servito ed amato.

Con la sua bontà e  vicinanza ci ha fatto tanto  bene. Rino ti ricordo. Una preghiera fraterna. Padre Giacomo (Tanzania)

É una notizia che ci lascia sgomenti. Prego il Signore della Gloria che dia al carissimo padre Rino il premio riservato ai suoi missionari 

Padre Rino, grazie di tutto. È stato un piacere essere stato con te. Riposa in pace e intercedi presso Dio per tutti noi. Grazie di cuore per la tua testimonianza di vita consacrata a Dio e alla Missione.

Padre Rino, grazie di tutto. È stato un piacere essere stato con te. Riposa in pace e intercedi presso Dio per tutti noi. Grazie di cuore per la tua testimonianza di vita consacrata a Dio e alla Missione.

Oltre ai giorni trascorsi insieme a Roma, ha organizzato la celebrazione del 50° anniversario di vita sacerdotale di don Franzoi, dove lo abbiamo accompagnato. Che bella figura di missionario: semplice, generoso, impegnato, sempre vicino alla gente. Che il Dio della vita lo abbia nella sua gloria, godendo della ricompensa e della gioia del missionario. Sono vicino alla sua famiglia in questo triste momento e vi ringrazio per il vostro sostegno durante tutta la sua vita missionaria (p. Jaime. Colombia).

Caro padre Rino,  ciao.  Ci vedremmo in Paradiso. É stato una grazia esserci conosciuti nel Corso dei cinquantenni! Grazie per la tua generosità, testimonianza e passione missionaria.  Vai. Il Signore ti aspetta. Ricordaci. (Lirio - Brasile)

 Caro Rino, che dispiacere, ci siamo sentiti poco prima dell'intervento e noi speravamo ma le vie del Signore non sono le nostre vie... grazie, grazie e ancora grazie per la tua generosità e per la tua umiltà... preghiamo per te per i tuoi cari... dall'altra vita  continua a darci speranza.

Messaggio del Superiore Generale

Carissimi familiari e amici di padre Rino. Con il cuore triste ma anche con tanta fede siamo qui per accompagnare il nostro amato padre Rino al Padre della vita. Ci ha lasciato improvvisamente, rapidamente. Se ci rattrista la sua perdita ci consola la sua bontà che non muore e lo fa ricordare per sempre. Padre Rino è stato un buon missionario, semplice, buono e vero, amato ed apprezzato da tutti. Anche dalla Sua Colombia molte persone hanno telefonato e inviato molti messaggi di solidarietà e di preghiera pieni di tristezza per la sua morte. Ma, in tutti, è presente un affettuoso ricordo della sua persona e del suo essere sacerdote.

Con sincerità e semplicità possiamo dire che padre Rino entra tra le icone di autentico missionario, che dona tutta la vita alla causa del Vangelo e al servizio dei poveri. 

Padre Rino ci ricorda che vale la pena perseverare e “giocarsi” la vita per la missione di Dio e che è una grande grazia “saper perdere la vita per guadagnarla” (cfr.Mt.16,24-27). Rino è stato un missionario strumento nelle mani del Signore per celebrare la vita, un servo fedele, amato e ricordato da tanta gente. 

Padre Rino ha attinto ispirazione da nostro padre Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, per assumere la dimensione missionaria come l’orientamento fondamentale, ispiratore della sua vita e del ministero sacerdotale, che egli ha vissuto con grande impegno e dedizione. 

Dal suo volto traspariva una grande mitezza, dal suo sguardo un desiderio sincero di ascolto pieno, dalle sue reazioni emergeva un carattere positivo, privo di ogni durezza, il suo sorriso emanava una dolcezza d’animo che rassicurava. 

Chi pone le sue sicurezze in Dio affronta la vita con serenità e ottimismo, i suoi giudizi sono sempre stati pacati e benevoli, anche le contrarietà della vita non gli tolgono quella serenità di fondo, che esclude pessimismo e vittimismo. L’uomo saggio è maestro di dialogo, prudente nel consiglio, rispettoso di ciascuno, in ogni persona sa riconoscere e apprezzare il bene presente, senza tuttavia mancare di precisare con benevolenza anche i suoi limiti. 

Non è` difficile riconoscere in questa descrizione dell’uomo saggio l’immagine di padre Rino, che si è rivelato un vero uomo di Dio, un povero del vangelo, dotato di grande equilibrio e sempre nella pace.

Lo ringraziamo, in modo particolare, per il servizio alla missione, per la sua disponibilità a cambiare; infatti, aveva accettato il trasferimento all’Italia anche se il cuore era ed è rimasto sempre nella sua amata e cara Colombia. 

Grazie, caro padre Rino per tutto quello che sei ed hai fatto per tutti noi! Dal cielo inviaci un po’ della tua saggezza, ma anche un po’ della tua grande bontà. Va, riposa in pace e ricordati di noi! A tutti e ad ognuno: le condoglianze più sincere a nome mio e di tutto l’istituto!

Coraggio e avanti in Domino! Padre Stefano Camerlengo, padre generale

Claudio Brualdi, Missionario della Consolata, è in Colombia dal 1981 e ha partecipato al corso dei Missionari con 50 anni di consacrazione sacerdotale e missionaria tenuta recentemente nella casa Generalizia di Roma. Ricorda per noi i primi passi di quella esperienza missionaria che ha avuto non pochi cambi imprevisti... che l’hanno sospinto rotte diverse, inaspettate, ma non meno importanti.

Sono marchigiano e sono entrato all'istituto attorno ai vent'anni, avevo studiato nel seminario diocesano di Fano. Parlando della mia vocazione vorrei parlare di due grandi momenti, due momenti che più o meno corrispondono anche al tempo: quello passato in Italia e subito dopo la l'ordinazione Sacerdotale, quando mi hanno destinato al lavoro di propagandista che era come si chiamava, allora, l’animazione missionaria e poi dopo ho lavorato anche alla formazione di giovani che volevano essere missionari.

Non avevo mai pensato in quella possibilità -il mio sogno era quello di andare in Africa- ma ho cercato di assumere positivamente quell’impegno. In Italia ho vissuto i primi 12 anni come sacerdote missionario, ero stato ordinato che non avevo ancora compiuto i 25 anni e quando sono partito per la Colombia di anni ne avevo 36.

Questa prima esperienza, che in un primo momento ho avuto difficoltà ad accettare, mi ha comunque insegnato tanto: ho imparato che bisognava veramente amare il lavoro che ci veniva dato. L’esperienza del concilio e il maggio del ’68 mi è servita per rapportarmi con i giovani. 

Poi è stata la volta della partenza... in quegli anni avevo incontrato tanti missionari della Consolata che lavoravano in Colombia, nella regione del Caquetá della quale potremmo dire che è nata con i Missionari della Consolata... loro erano lì quando questa regione si stava formando. Loro presentavano con molto entusiasmo il lavoro che stavano facendo. Così quando i superiori mi chiesero di partire, io stesso dissi che mi sarebbe piaciuto andare in Colombia, nel Caquetá, a San Vicente del Caguán. Esattamente quella fu la mia prima destinazione.

In quegli anni fra i missionari correva la voce che la missione, quella vera, era l’Africa. Eppure quando arrivai per la prima volta a San Vicente, vidi la povertà, l’isolamento dal resto del paese –bisognava attraversare vari fiumi senza ponti–, tutta una serie di peripezie per poter arrivare fin là, ero arrivato di notte e non si vedeva un granché nel paese non c'era la luce, solo qualche candela illuminava l’interno di alcune case... allora mi sono detto “ma questa è davvero missione! Più di così cosa vogliono?”.

Il giorno dopo mi ero messo a visitare la mia “missione” e avevo potuto vedere un po’ di altre cose, come per esempio che non c’era neanche e mi sono convinto che quella era missione, come no! Poi certamente con il tempo ho scoperto anche le ricchezze di questa regione: il bestiame, il legname, l’agricoltura... e anche le povertà più nascoste.

Appena arrivato mi hanno nominato subito vice parroco e rettore del collegio nazionale con studenti dalla primaria fino alle superiori. Il collegio si chiamava, e si chiama ancora, Dante Alighieri... non poteva se non essere fondato da missionari italiani. Io ero arrivato a San Vicente accompagnato dal padre Silvio Vettori, il 29 gennaio e ai primi di febbraio –senza parlare una parola di spagnolo– ero già rettore di un collegio. Questa è stato la prima difficoltà che ho incontrato lì perché non potevo comunicarmi, capivo qualche parola, però però non potevo fare un discorso. È stata una esperienza un po’ mortificante. Il primo giorno di scuola il padre Silvio mi ha presentato, c’erano tutti i professori presenti, gli studenti erano schierati ad ascoltare il loro rettore che non era nemmeno capace di parlare!

Ad ogni modo mi sono sentito bene accolto, lo stesso anche la gente sempre attenta e rispettosa. 

Ai primi di Marzo sono tornato a Bogotá perché era necessario andare al ministero per avere la nomina di cinque professori che mancavano... in quel caso si andava in aereo, con il DC3, e pensavo viaggiare più comodo, sicuro e alla svelta... se non fosse che in quel mio primo viaggio si è fuso un motore e siamo stati costretti a un atterraggio di emergenza nell’aeroporto di San Vicente da dove eravamo partiti pochi minuti prima. Ho dovuto rifare il viaggio in bus.

Quale è stata la mia sorpresa quando, arrivato al ministero per chiedere la nomina, dopo un viaggio avventuroso anche quello, il funzionario che mi stava assistendo mi ha detto candidamente: “ma padre, non abbiamo professori che vogliano andare a San Vicente del Caguán. Veda un po’ lei come può fare: prende qualche maestro di là, quel che trova, e noi dopo lo nominiamo”. E così ha dovuto fare.

Poi i maestri non erano nemmeno degli stinchi di santo, facevano combriccola con gli studenti, il fine settimana erano capaci di ubriacarsi insieme. Mi sembrava necessario avere un po’ più di etica nel lavoro. Quando sono tornati dopo la Settima Santa ho chiamato l’attenzione e loro mi hanno detto: “se voi da noi un’atteggiamento diverso, noi vogliamo essere pagati il 27 di ogni mese”. Sapevo che era una richiesta impossibile: i soldi arrivavano a Florencia alla fine del mese e il contabile doveva andare fin là per prelevarli, non potevano esserci il giorno che loro dicevano. Con un po’ di dialogo abbiamo pattuito il pagamento per il 5 del mese successivo.

Appena arrivò il giorno cinque, dopo la messa delle sei –alla stessa ora cominciava la scuola– mi avviai  al collegio e trovai tutti i ragazzi sbandati e che correvano da tutte le parti. Mi parve davvero strano, sapevo che i soldi erano arrivati e non mi sembrava ci fossero motivi per uno sciopero. Quando una segretaria, prima, e l’incaricato della disciplina, dopo, mi cercarono per dirmi che i professori volevano parlare con me ho scoperto che effettivamente la causa di tutto quello era il non avvenuto pagamento. È stato uno sciopero facile da controllare: mi è bastato consultare l’orologio, e dire che il giorno cinque era cominciato solo da sette ore e che prima di sera, tutti sarebbero stati pagati. Anche i professori, in fondo, non erano dei cattivi ragazzi... tutti sono tornati al lavoro.

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Un altro episodio simpatico è stato quando abbiamo avuto la chiesa occupata da “campesinos”, provenienti dalla zona de “El Pato”, durante otto giorni: la ragione era che l’esercito si era messo a combattere con la guerriglia da quelle parti e questa aveva a modo suo convinto i campesinos a scendere a San Vicente. Era Sabato sera e io celebravo la messa delle sette e vedevo tutto un trafficare in chiesa, gente che portava zaini. Finita la messa il padre Silvio mi dice: “hanno occupato la chiesa, per questa notte possiamo anche lasciarli lì, poi vediamo”. Il giorno dopo, domenica, celebravo anche la messa del mattino e la chiesa era pienissima... c’erano i fedeli che pregavano e gli occupanti che dormivano o si stavano appena svegliando. Avevo appena finito di distribuire la comunione ai pochi che solitamente venivano a messa la domenica mattina... e arriva gente con delle grandissime pentole, loro per distribuire la colazione a coloro che avevano passato la notte in chiesa. È stata una settimana molto agitata, esercito e polizia che volevano buttarli fuori violentemente, il padre Silvio –che conosceva bene la situazione– che insisteva nel dialogo. Poi è venuto anche il vescovo Serna, il sindaco... e con i rappresentanti dei “campesinos” si si erano accordati che la gente si sarebbe spostata ai saloni parrocchiali. A me è toccato andare a dirlo a quelli che occupavano la chiesa e in tutta risposta ho avuto un “da qui noi non ci muoviamo, è qui il posto dove ci sentiamo sicuri”. Niente da fare, il vescovo era andato via, il padre Silvio era andato via e io non sapevo che fare con tutta sta gente in chiesa. Ho chiamato il vescovo che ha messo un ultimatum... se non se ne vanno prima di giovedì allora scatta l’interdetto. Mi sono chiesto se queste persone potevano sapere che cosa fosse un interdetto. Bisognava spiegare loro che la chiesa non si poteva usare ed era prossima la festa patronale, le prime comunioni, le cresime... un pasticcio. Nel frattempo la facciata della chiesa si era popolata di striscioni e di cartelli che dicevano a chiare lettere la decisione di non muoversi. Dopo una settimana la situazione si è sbloccata e gli occupanti hanno preso la strada del paese di Puerto Rico. Abbiamo cercato di avvisare là che tenessero ben chiusa la chiesa, ma alla fine si sono stabiliti in un collegio dove sono stati almeno un mese... poi poco a poco sono tornati a casa anche perché l’esercito aveva offerto assistenza, aveva consegnato generi alimentari e le cose si sono placate.

L’anno successivo mi sono spostato a Puerto Rico per un lavoro più pastorale e meno amministrativo per il quale, fra l’altro non ero molto preparato e là sono stato altri sei anni... prima di prendere la strada per Bogotá dove ho fatto un po’ di tutto: vice superiore provinciale, formatore nel seminario teologico, parroco della parrocchia della Consolata nel quartiere del Vergel. I miei anni di missione sono stati abbastanza frammentati a causa delle responsabilità che ho avuto nel corso dei miei anni in Colombia.

Tornai a San Vicente, la mia prima parrocchia, nel 1991 quando il vescovo era Mons. Castro e il vicariato di San Vicente funzionava già da qualche anno. Ho fatti lì altri cinque anni molto belli: vicino alla gente, mi piaceva andare a visitare i villaggi, Mi trovavo molto bene.

Poi nuovamente superiore, per due mandati... e nel secondo mandato è successo quello che ha cambiato in modo sostanziale la mia vita, ho perso quasi totalmente la vista a causa di una malattia alla retina tra l’altro non adeguatamente trattata in un primo momento. Sono tornato in Italia dove successivi interventi medici mi hanno permesso di recuperare una percentuale esigua di vista ma in buona parte la situazione non era reversibile. Ricordo che quando ho mandato la lettera di in cui mi dimettevo da superiore pensavo “beh, la mia vita missionaria termina qui”. In quel momento avevo ancora 58 anni e mi sentivo un po’ depresso per quel che mi era successo e per quello che poteva succedere in futuro. Ho ritrovato animo negli incontri fatti con i missionari e le missionarie anziane, a  Alpignano e Venaria: è stato un momento di sofferenza ma ho capito che nonostante le limitazioni potevo ancora andare avanti, mi sentivo bene, lì c’erano persone che erano più limitate di me. Ho deciso di ritornare, sapevo con chiarezza che non saprei più potuto tornare nella prima linea missionaria, ma mi sono dato da fare... ho perfino fatto il superiore della casa provinciale e ho trovato la collaborazione molto bella del padre Carlos Olarte, lui stava lavorando alla rivista, che mi accompagnava per la spesa o altre attività dove fosse necessario guidare la macchina.

Dopo qualche anno sono stato spostato alla parrocchia Maria Madre delle Missioni e ormai sono un bel po’ di anni che sono là. Malgrado le limitazioni sono contento e sono sereno, anche quella la considero una bella esperienza. La messa la posso celebrare col tablet sul quale ho il messale a caratteri cubitali; posso confessare, lo faccio durante ore; fino all’anno scorso ho perfino avuto la responsabilità del gruppo giovanile e anche altri gruppi. In parrocchia ci sono 11 case di anziani che posso visitare. Ci sono tre centri di recupero di drogati... posso visitarli, qualche volta celebro la messa... le mie giornate sono assolutamente piene. Ho intenzione di continuare in questo, alla fine una vita davvero appagata, finché il Signore vorrà.

Si è appena concluso a Roma il corso dei Missionari con 50 anni di ordinazione o professione. Sono gli anni della sintesi, del camminare lento, del pensare al senso di tutto quel che è stato fatto... e di tutto quel che ancora resta da fare. In questi anni si guarda in faccia da vicino la vecchiaia, ma non per spaventarsi ma per cercare strategia per continuare ad essere noi stessi, ed amare la missione, come si è sempre fatto, anzi con una marcia in più... quella data dalla lunga esperienza. Senza perdere la pazienza e senza perdere il sorriso.

Non è mancato, nel corso dedicato ai missionari con 50 anni di ordinazione, una vista breve ma intensa alla città di Assisi. Molti di noi ci erano già stati, alcuni in anni davvero remoti, ma avvicinarci alla spiritualità di San Francesco, nei tempi di Papa Francesco, è comunque una esperienza che vale la pena. Poi per noi missionari Assisi quest’anno ha anche un altro attrattivo: la figura del giovane Carlo Acutis, beatificato dal papa in ottobre del 2020, stroncato da una leucemia poco più che adolescente ma innamorato di mezzi di comunicazione e dell’eucaristia… la sua personle “autostrada al cielo”. 

Quest’anno è lui il nostro protettore ufficiale ed è sepolto nella chiesa della spogliazione, situata nei pressi della casa di Pietro da Bernardone, il papà di San Francesco al quale, in presenza del vescovo, Francesco restituì i suoi vestiti come segno della perfetta povertà che voleva vestire da quel momento in poi.

La visita ad Assisi ci ha permesso di vedere alcuni dei luoghi di culto francescani importanti: la Porziuncola dove Francesco comprese la sua vocazione, fondò la sua prima comunità francescana e a soli 36 anni lascio questa terra; la splendida basilica di San Francesco, ai margini del contro storico di Assisi, dove si conserva il suo luogo di sepoltura e dove la sua persona e la sua prodigiosa storia ha ispirato uno dei luoghi d’arte più belli di Italia… ma che non si poteva fotografare… peccato!

Poi alla fine del nostro cammino di formazione abbiamo avuto la fortuna di poter scambiare due parole con papa Francesco. Da Francesco a Francesco. L’occasione è stata in occasione di una delle tradizionali udienze del mercoledì, celebrata sul sagrato di Piazza San Pietro, in una splendida giornata di sole seppur ancora freddina.

Ci siamo dovuti alzare presto perché tutti devono passare attraverso i controlli di sicurezza ma avevamo un biglietto speciale che ci ha portato dietro l’altare, al centro del sagrato antistante il portico di accesso alla basilica, dal quale è stata fatta l’udienza del papa. Alla fine, quando si ritirava da quel luogo verso la casa di santa Marta, sua residenza, è passato davanti a noi e con noi si è lasciato fotografare. Ci ha raccomandato di pregare per lui, come fa sempre… e quando noi abbiamo detto che lo facciamo tutti i giorni… con una simpatica battuta ha aggiunto “pero fatelo a mio favore e non in contro”. Effettivamente non mancano, e sono visibili e vociferanti, tante voci di opposizione al suo pontificato. Non sarà forse un segno eloquente della sua profezia?

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