“Abbiamo ringraziato il Papa per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, siamo una minoranza ma dobbiamo essere luce e sale nella società”, dice il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel, acivescovo metropolita di Addis Abeba, che è a Roma ad altri 12 presuli e un sacerdote della Chiesa cattolica etiope in visita ad Limina.

Più di 500 anni fa i cristiani dell’Etiopia viaggiavano fino ad Alessandria, in Egitto, per pregare sulla tomba di San Marco, poi andavano a Gerusalemme per pregare sul Golgota e poi prendevano una nave fino a Roma, per recarsi sulle tombe dei Santi Pietro e Paolo e dei martiri, riposando nel luogo che è ancora il collegio etiopico in Vaticano. “Siamo qui a continuare la storia di questo pellegrinaggio antico”, spiega il cardinale Berhaneyesus, (in un'intervista alla Radio Vaticana). Dopo aver pregato nelle quattro basiliche maggiori a Roma, i vescovi hanno visitato i dicasteri della Santa Sede e, venerdì 28 giugno, sono stati ricevuti da Papa Francesco.

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Il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel ospite della Radio Vaticana. Foto: Vatican Media

Eminenza, come è andato l’incontro con il Papa?

Ci ha ricevuto con tanta semplicità e anche umiltà. Eravamo noi, soli con il Papa e abbiamo spiegato la nostra situazione in Etiopia. Lo abbiamo ringraziato anche per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, di cui lui ha parlato negli appelli dopo l'Angelus. Lo abbiamo ringraziato e gli abbiamo chiesto di continuare a pregare per noi.

Che cosa avete raccontato della realtà dell'Etiopia?

Noi abbiamo presentato la situazione dell'Etiopia dal punto di vista dei giovani, perché su 120 milioni, il 70% della popolazione è costituito da giovani che vogliono migliorare la loro vita e quella dei loro parenti. Vedono sulla tv e sui social media come vivono in altre parti del mondo e molti vanno nei Paesi arabi e purtroppo lì soffrono perché non sono preparati a lavorare come domestici. Altri vogliono andare in Sudafrica, dove va un po’ meglio, ma anche lì ci sono problemi. Gli altri vanno a nord e attraversando il Sudan e la Libia cercano di arrivare in Europa. Nel XIX secolo molti europei migravano e c’erano alcuni luoghi in Europa disponibili a riceverli e sostenerli, ma tutto questo adesso viene a mancare. Papa Francesco questo lo sa.

Il primo luogo che è andato a visitare, dopo l’elezione, è stato Lampedusa, dove ha offerto dei fiori per tutti quelli che sono morti in mare e dove ha detto a chi governa l’Europa che le migrazioni sono importanti. Dobbiamo fare qualcosa per aiutare la gente, sia in Africa sia in Siria o in altri Paesi. Quando qualcosa riguarda i poveri, ci ha detto, allora dobbiamo essere vicini a loro. Noi siamo accanto ai bambini, che soffrono molto quando non vanno a scuola perché le scuole sono distrutte, siamo vicini alle mamme che non possono andare negli ospedali perché sono distrutti e agli anziani che sono sfollati dai loro villaggi e vivono come stranieri. Gli abbiamo spiegato tutto questo e lui ha detto di continuare a essere vicini alla gente, in mezzo al popolo, così da poter sentire l’odore delle pecore. Un vescovo deve essere così. Non deve scappare ma deve essere tra la gente. Anche se non si possono fare grandi cose, la fraternità e la presenza paterna sono importanti. Lui ha detto così.

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Spazio di amicizia per donne e ragazze vittime dei drammi della guerra in Tigray

Com’è la vita della Chiesa cattolica in Etiopia, che è una comunità minoritaria nel Paese?

Noi siamo minoranza, circa il 2% di 120 milioni di persone. La maggioranza degli abitanti è cristiana: più del 45% sono ortodossi, poi vengono i protestanti, intorno al 18-20%. Abbiamo la responsabilità di essere luce e sale in questo grande Paese. Le sfide sono la povertà e i conflitti e noi, grazie all'appoggio della Chiesa universale, siamo al secondo posto per i servizi sociali che offriamo, come scuole, centri sanitari o centri gestiti dalle suore di Madre Teresa o presidi per lo sviluppo o l’assistenza umanitaria, come la Caritas. In tutto questo siamo chiamati ad essere luce e sale, come Gesù ci ha detto. Non è facile, ma ci stiamo provando.

Lei ha parlato anche dei conflitti che riguardano l'Etiopia, come quello che è avvenuto nel Tigray. Quali sono le ripercussioni per la popolazione?

Il conflitto in Tigray era fra il governo regionale e il governo federale. Una cosa politica, ma chi soffre è il popolo. Grazie a Dio, dopo due anni hanno fatto una pace a Pretoria. L'altro è in Oromia. L’Oromo Liberation Army è in lotta con il governo federale da quattro anni e anche lì chi soffre è il popolo. Hanno cominciato a parlare in Tanzania, ma non sono riusciti ancora a fare la pace. Il terzo fronte adesso, che continua da più di un anno, è nella regione Amhara. Anche lì ci sono i movimenti in conflitto con il governo federale. Speriamo che arriveranno a una soluzione. Noi come Chiesa cattolica non appoggiamo né l’uno né l’altro, ma siamo con il popolo che soffre.

Piuttosto siamo per l’assistenza sociale e per cercare una riconciliazione per il dopo guerra, quando si deve fare non solo la pace, ma anche guarire dai traumi sia chi ha sofferto direttamente nella guerra, come le donne vittime di abusi e i bambini che hanno visto le loro famiglie morire. Questo è importante e non si fa solo a livello di una piccola Chiesa, ma con l'appoggio della Chiesa universale. Si può fare insieme con i tanti missionari che lavorano con noi e che vengono da tutto il mondo.

* Michele Raviart - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: Vatican News

“Come cattolici di Terra Santa, che condividono la visione di Papa Francesco per un mondo pacifico, siamo indignati dal fatto che gli attori politici in Israele e all'estero stiano utilizzando la teoria della "guerra giusta" per perpetuare e legittimare la guerra in corso a Gaza”.

È l’allarme lanciato dalla Commissione Giustizia e Pace di Terra Santa, in un documento diffuso per contestare e contrastare l'uso improprio di una espressione - quella di “guerra giusta” – utilizzata nella dottrina cattolica, e che ora, “provocando allarme in noi cristiani, viene sempre più utilizzata come arma per giustificare la violenza in corso a Gaza”.

Il documento della Commissione Giustizia e Pace di Terra Santa (vedi in allegato le versioni integrali in inglese e arabo) ripropone le condizioni imprescindibili che permettono di definire una guerra “giusta” dal punto di vista della dottrina cattolica, condizioni riportate anche nel paragrafo 2309 del Catechismo della Chiesa cattolica.

Secondo la dottrina cattolica, il ricorso all’uso delle armi è legittimo solo in risposta a una aggressione che ha provocato danni e ingiustizie gravi e durature, e quando tutte le altre vie per prevenire i danni e porvi fine si sono dimostrate impraticabili e inefficaci; la reazione armata deve inoltre avere ragionevole prospettiva di successo, e non deve provocare distruzioni e sofferenze a persone innocenti che siano maggiori del male da eliminare.

Dopo “i terribili attacchi del 7 ottobre contro installazioni militari, aree residenziali e un festival musicale nel sud di Israele da parte di Hamas e altri militanti e la catastrofica guerra intrapresa in risposta da Israele -si legge nel documento di Giustizia e Pace, che porta la data di Domenica 30 giugno – “alti esponenti cattolici, a partire da Papa Francesco, hanno continuamente chiesto un immediato cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi. I teologi morali cattolici di tutto il mondo hanno anche sottolineato come né gli attacchi di Hamas del 7 ottobre né la devastante guerra di risposta di Israele soddisfino i criteri della "guerra giusta" secondo la dottrina cattolica”.

Come è stato già notato, nella nuova esplosione dai violenza in Terra Santa “la mancanza di obiettivi dichiarati da parte di Israele rende impossibile misurare se ci siano ‘serie prospettive di successo’. Soprattutto, le guerre giuste devono distinguere chiaramente tra civili e combattenti, un principio che in questa guerra è stato ignorato da entrambe le parti con risultati tragici. Le guerre giuste devono anche impiegare un uso proporzionato della forza, cosa che non si può facilmente dire di una guerra in cui il bilancio delle vittime palestinesi è di decine di migliaia di persone superiore a quello di Israele, e in cui una netta maggioranza delle vittime palestinesi sono donne e bambini”.

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"La testimonianza che portiamo non è di guerra, ma di amore trasformativo". Foto: Said Khatib/Getty Images

La dubbia applicazione della teoria della "guerra giusta" ai conflitti moderni – ricorda il documento di Giustizia e Pace di Terra Santa “”ha fatto pensare che le guerre "giuste" possano esistere solo in casi molto rari. Ciò è particolarmente vero in un contesto in cui lo sviluppo dell'industria degli armamenti contemporanea, capace di causare morte e distruzione su scala sconosciuta”.

Il Documento cita anche le parole e I richiami costanti di Papa Francesco, che già l'11 ottobre 2023, quattro giorni dopo gli attacchi palestinesi al sud di Israele, aveva “evocato il diritto israeliano all'autodifesa in seguito all'attacco di Hamas, aggiungendo di essere preoccupato “per l'assedio totale sotto cui vivono i palestinesi a Gaza, dove ci sono state anche molte vittime innocenti".

C'è chi pretende - insiste il Documento di Giustizia e Pace in Terra Santa – “che la guerra segua le regole della ‘proporzionalità’, sostenendo che una guerra che continua fino alla fine potrebbe salvare le vite degli israeliani in futuro, mettendo sull’altro piatto della bilancia le migliaia di vite palestinesi perse nel presente. In questo modo, si privilegia la sicurezza di ipotetiche persone nel futuro rispetto alle vite di esseri umani vivi e vegeti che vengono uccisi ogni giorno. In breve, la manipolazione del linguaggio della teoria della guerra giusta non riguarda solo le parole: sta avendo risultati tangibili e fatali”.

“Pur essendo una piccola comunità in Terra Santa” rimarca il Documnento della Commiissione Giustizia e Pace “come cattolici siamo parte integrante dell'identità di questa terra. Vogliamo chiarire che noi, e la nostra tradizione teologica, non dobbiamo essere usati per giustificare questa violenza. La testimonianza che portiamo non è di guerra, ma di amore trasformativo, di libertà e uguaglianza, di giustizia e pace, di dialogo e riconciliazione”. (GV)

Fonte: Originalmente pubblicato in www.fides.org

L’operato delle due Corti internazionali

Karim Khan è un giurista inglese di origini pachistane. Dal febbraio 2021 è il procuratore capo (prosecutor) della Corte penale internazionale (Icc, nell’acronimo inglese), organo di giustizia internazionale con sede a l’Aia, nei Paesi Bassi.

Lo scorso 20 maggio Khan ha chiesto l’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità dei tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Mohammed al-Masri e Ismail Haniyeh) e di due leader israeliani, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant. Spetterà ai diciotto giudici della Corte emettere un mandato di arresto o una citazione a comparire.

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Il giudice inglese di origini pachistane Karim Khan è – da febbraio 2021 – il procuratore capo della «Corte penale internazionale» (Icc).

Ciò che fa più discutere della richiesta di Khan è di aver posto sullo stesso piano accusatorio Hamas e il governo israeliano. Entrambe le parti in causa hanno respinto con sdegno le (pesanti) imputazioni del procuratore. Per parte sua, il mondo si è diviso evidenziando una volta di più le enormi fratture che caratterizzano questo periodo storico.

D’altra parte, le decisioni della Corte penale internazionale hanno risonanza mondiale, ma scarse conseguenze pratiche. La questione principale nasce dal fatto che essa è riconosciuta soltanto dalle 124 nazioni che hanno sottoscritto il Trattato di Roma del 1998. Non vi aderiscono paesi importanti tra cui Cina, Russia, ma neppure Stati Uniti e Israele.

Pertanto, al di là delle sue decisioni, l’efficacia della Corte è scarsa. Un esempio recente: nel marzo 2023, con riferimento all’aggressione dell’Ucraina, essa ha (giustamente) dichiarato Vladimir Putin «criminale di guerra», ma il presidente russo ha continuato a governare e a viaggiare senza problemi.

Nella stessa città olandese ha sede la Corte internazionale di giustizia (Icj, in inglese), organo delle Nazioni Unite che giudica le dispute tra gli Stati. Il 29 dicembre del 2023 il Sud Africa ha presentato alla Corte una denuncia contro Israele accusando lo stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Lo scorso 24 maggio la Corte, presieduta (da febbraio) dal giudice libanese Nawaf Salam, con 13 voti contro due ha ordinato a Israele di fermare immediatamente l’offensiva su Rafah e di aprire il valico. Finora sono state parole al vento.

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Il giudice libanese Nawaf Salam è da febbraio 2024 il nuovo presidente della «Corte internazionale di giustizia» (Icj).

Nel febbraio 2022, subito dopo l’aggressione di Mosca, l’Ucraina aveva fatto al Icj la stessa denuncia contro la Russia. A oggi, nessun verdetto è stato emanato.

Si tratti del conflitto tra Israele e Palestina o di quello tra Russia e Ucraina, al momento entrambe le Corti sembrano, dunque, confermare che una giustizia internazionale giusta e super partes rimane una chimera.

* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Pubblicato  originalmente in: www.rivistamissioniconsolata.it

Gli eserciti e l’industria delle armi festeggiano il 2023 come l’anno più positivo di sempre.

Nel mondo, infatti, la spesa militare non era mai stata tanto alta: 2.443 miliardi di dollari secondo un recente rapporto del Sipri, l’autorevole Istituto di ricerca internazionale per la Pace di Stoccolma.

Per provare a dare una misura alla cifra, basti pensare che secondo l’Unesco, in un mondo abitato da moltissimi analfabeti, nel 2020 si erano spesi 2.200 miliardi per l’istruzione; secondo l’Oms nel 2019 si erano spesi 8.600 miliardi per la salute; secondo Banca Mondiale nel 2022 il debito estero dei paesi a basso e medio reddito (una delle palle al piede di centinaia di milioni di persone) era stimato in circa 9mila miliardi.

L’aumento del 6,8% in un solo anno della spesa militare globale trova le sue ragioni nello scenario di forte instabilità internazionale.

Sembra che i governi delle grandi e piccole potenze, per affrontare le crisi e i conflitti in atto, non riescano a credere ad altro che all’aumento della propria capacità di minaccia nei confronti degli avversari.

È così che nel 2023 l’Ucraina ha aumentato la sua spesa militare del 51% rispetto all’anno precedente, dedicandole il 37% del suo Prodotto interno lordo, 64,8 miliardi di dollari, e che la Russia ha aumentato la sua spesa militare del 24% consumando 109 miliardi di dollari, il 5,9% del suo Pil.

Tra i paesi europei spicca la Polonia, che ha incrementato la sua spesa militare in un solo anno del 75%; ma anche la Finlandia (54%) e la Danimarca (39%).

Altri aumenti notevoli sono stati quelli dell’Algeria, 76%, della Turchia, 37%, di Israele, 24%.

In dieci anni, dal 2014 al 2023, la spesa militare globale è aumentata di quasi un terzo, il 27%.

Bastano i primi due Paesi nella classifica per mettere insieme la metà dell’intera spesa globale: gli Usa con 916 miliardi e la Cina con 296.

Dopo Usa e Cina, troviamo la Russia (109), l’India (83,6), l’Arabia saudita (75,8).

I successivi cinque paesi sono Regno Unito (74,9), Germania (66,8), Ucraina (64,8), Francia (61,3) e Giappone (50,2). L’Italia, con i suoi 35,5 miliardi, è al dodicesimo posto.

Il Sipri, in una nota, sottolinea che con la formula «spese militari» non s’intende la sola spesa in armamenti, ma «tutta la spesa pubblica per le forze e attività militari, compresi stipendi e benefici, spese operative, acquisto di armi e attrezzature, costruzioni, ricerca e sviluppo, amministrazione centrale, comando e supporto».

I dati raccolti dal centro di ricerca svedese mostrano un mondo diviso da profondi conflitti e pronto a esplodere. L’unico elemento di unità sembra essere la fede cieca nell’idolo della forza, quella che genera il circolo vizioso a cui stiamo assistendo: io mi armo perché tu ti armi, tu ti armi perché io mi armo, e così via.

Se fosse possibile misurare in dollari anche le vite spezzate, le sofferenze, gli sfollamenti, le distruzioni, sia materiali che culturali e spirituali, le libertà negate, la visione fosca del futuro, il conto, già esorbitante, sarebbe completamente fuori dalla capacità di calcolo delle persone comuni.

* Luca Lorusso è giornalista della rivista Missioni Consolata. Pubblicato originalmente in: www.rivistamissioniconsolata.it

Padre Luca Bovio, Missionario della Consolata in Polonia, ci racconta il suo ultimo viaggio compiuto in Ucraina dal 2 al 7 marzo 2024, a Zaporiza e Nikopol.

Grazie alle offerte raccolte, nei giorni precedenti al viaggio abbiamo acquistato e spedito dalla Polonia ai frati francescani Albertini a Zaporiza 5 bancali di carne in scatola (18.000 confezioni). Oltre a questo, lì è giunto due giorni prima del nostro arrivo anche l’ultimo carico di aiuti raccolti dalla parrocchia di Villa di Serio (Bergamo) e da tanti altri, portato da Ruggero e gli amici di Cantù (Como) a Sandomierz in Polonia, e da lì con un altro trasporto inviati a Zaporiza.

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Per arrivare a Zaporiza da Varsavia occorrono due giorni di viaggio.

Anche in Polonia come nel resto d’Europa ci sono proteste dei contadini. I camion per entrare in Ucraina alle frontiere hanno tempi di attesa medi di circa dieci giorni.

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La nostra auto, trasportando aiuti umanitari, riceve il permesso di passare e così agevolmente varchiamo la frontiera.

Zaporiza è una grande città nella zona centro orientale del Paese, costruita sul grande fiume Dniepr che divide in due la città. Qui c’è la concattedrale cattolica dedicata a Dio Padre Misericordioso e non lontano la comunità dei frati Albertini. Nei pressi della concattedrale, quattro volte alla settimana viene fatta la distribuzione del pane e di una scatoletta di carne. Sono circa 1.500 le persone che in fila ricevono l’aiuto.

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Prima gli invalidi, poi le donne e infine gli uomini.

Il forno dei frati, che visitiamo il giorno successivo, ha la capacità di produrre 900 pani, per questo motivo, per dare qualcosa a ognuno, a un certo punto occorre dividere a metà o anche in tre parti il pane. Durante la distribuzione a cui partecipiamo ci raccontano che nei negozi i beni si trovano. Quello che manca sono i soldi per comprare. La pensione media di circa 50 euro al mese è troppo bassa per pagare tutte le spese di casa così come quelle personali.

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La città, prima della guerra, contava quasi un milione di abitanti. Oggi è difficile fare stime. Molti sono partiti. Altri sono arrivati dai villaggi vicini. Il fronte dista da qui solo 30 chilometri.

Nel pomeriggio visitiamo la seconda e unica presenza romano cattolica in città. In una piccola parrocchia circondata da alti palazzi vive un padre di origine polacca dei missionari di Nostra Signora di La Salette. Ci racconta delle sue attività di assistenza a favore degli ammalati che sono nelle case. Con alcuni volontari portano medicine e cibo. I volontari hanno anche il compito di verificare l’effettiva presenza dell’ammalato.

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IL missionario ci racconta anche di un suo giovane confratello, p. Giovanni, che vive a Nikopol a circa 100 chilometri a sud in una situazione peggiore della sua. Nikopol è una città che si affaccia sul fiume. Sulla riva opposta c’è Ernegodar, la città con la più grande centrale atomica d’Europa. La riva opposta è territorio occupato. Per questo motivo Nikopol e tutta quella regione è spesso sotto attacco avendo come unico argine il fiume.

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Decidiamo di fare una breve visita. Avendo ottenuto i permessi umanitari necessari, arriviamo brevemente a Nikopol per incontrare don Giovanni che ci accoglie calorosamente, quasi incredulo che qualcuno venga a trovarlo.

Da questo capiamo come siano importanti queste visite che, seppur brevi, incoraggiano. Ci raggiunge anche un militare responsabile della zona col quale, bevendo un caffè, parliamo della situazione al fronte. Il momento non è facile. C’è pessimismo. Occorre un ricambio del personale. Il governo sta lavorando a una legge che definisca meglio i criteri di arruolamento. Gli aiuti esterni sono da sempre stati fondamentali per difendersi contro un nemico che per numero e possibilità è impari. Questi aiuti su larga scala per vari motivi sono in forte diminuzione. Ad esempio, gli aiuti umanitari, ci comunica la Caritas locale, sono diminuiti del 60%. Si parla sul luogo anche di persone che simpatizzano per gli occupanti o che nel migliore dei casi desiderano l’occupazione come raggiungimento di una vita più tranquilla.

Il tempo trascorre veloce. Velocemente ritorniamo a Zaporiza e da lì il giorno successivo per Kiev e Varsavia.

* Padre Luca Bovio, IMC, è missionario in Polonia.

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