Il 6 aprile 1994 iniziava la mattanza nel paese africano che causò la morte di un milione di persone.

“Ci sarà mai una cifra esatta sugli eccidi, sui feriti, sui profughi, sugli orfani che il dramma del Ruanda ha lasciato sul terreno dell’Africa? Le dimensioni sono quelle di una grande tragedia, ma incalcolabile non è soltanto il numero delle vittime. È inquietante chiedersi fin dove e, soprattutto, fino a quando questi semi di violenza continueranno ad avvelenare i percorsi di una necessaria riconciliazione”. Gli angosciosi interrogativi li poneva il Cardinale Jozef Tomko, Prefetto dell’allora Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, in un intervento pubblicato dall’Agenzia Fides e dall’Osservatore Romano nel giugno 1995, nel primo anniversario dell’assassinio dell’Arcivescovo di Kigali, Vincent Nsengiyumva, e dei Vescovi di Kabgayi, Thaddee Nsengiyumva, e di Byumba, Joseph Ruzindana, uccisi il 5 giugno 1994 insieme a dieci sacerdoti che li accompagnavano nella visita alle popolazioni sconvolte dalla violenza omicida. I loro nomi si aggiungevano ad un lungo elenco di sacerdoti, religiosi, religiose, seminaristi, novizie, operatori pastorali uccisi nel Paese africano.

Dal 6 aprile 1994, quando venne abbattuto l’aereo su cui viaggiavano i Presidenti del Ruanda e del Burundi, colpito da un missile nei cieli della capitale ruandese Kigali, al 16 luglio 1994, secondo la connotazione cronologica accettata, si compie in Ruanda il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati. Il movente fondamentale fu l’odio razziale verso la minoranza tutsi, che costituiva l’élite sociale e culturale del Paese. Le cifre ufficiali diffuse all’epoca dal governo ruandese parlano di 1.174.000 persone che persero la vita in 100 giorni, uccise con machete, asce, lance, mazze. Altre fonti citano un milione di morti. Lo sterminio terminò, almeno ufficialmente, nel luglio 1994 con la vittoria militare del Fronte patriottico ruandese, sulle forze governative, espressione della diaspora tutsi. Lo strascico di violenze e vendette razziali proseguì comunque ancora a lungo.

Il Cardinale Tomko, nel suo intervento l’anno seguente alla tragedia, citava “oltre due milioni di persone, vale a dire quasi un terzo della popolazione, attualmente al di là dei confini del Paese. I profughi ammassati nei campi - in particolare nello Zaire (attuale Repubblica democratica del Congo) - sono l’immagine di un doppio dramma: quello dei diritti e della dignità negata, e quello di una nazione mutilata”. Il Prefetto del Dicastero Missionario indicava quindi la riconciliazione come “la sola possibilità di salvezza, il nome della speranza a cui tutto il popolo ha diritto. E in una prospettiva di questa natura, emerge in pieno il vastissimo ruolo che spetta alla Chiesa”.

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La chiesa della Santa Famiglia a Kigali, in cui furono perpetrati massacri nella guerra civile del 1994. Foto: Adam Jones

“Un contributo peculiare in tale direzione proviene dall’operato dei missionari, considerati tra i pochi soggetti al di sopra delle parti nella tragedia che insanguina il Paese, in grado di portare avanti senza cedimenti il processo di pacificazione” evidenziava ancora il Cardinale Tomko. A pochi mesi dall’eccidio, più di sessanta si erano reinsediati nei precedenti luoghi di apostolato, “in mezzo alle popolazioni stremate dalla fame, dalle ferite e dalle malattie”, oltre ad essere impegnati nello stabilire collegamenti tra i profughi nei Paesi vicini e le autorità ruandesi per garantire loro il rientro in patria in condizioni di sicurezza e dignità.

Nella rete di riconciliazione tessuta dalla Chiesa, un secondo apporto fondamentale è stato fornito dai Seminari, la cui vita in Ruanda è particolarmente fiorente. Intorno alla Chiesa locale poi, “si mobilitano in molti per alleggerire il peso che essa deve portare. La solidarietà e l’aiuto spirituale, morale e non solo manifestatole, sono un segno eccellente di quell’universalità di cui parlano già gli Atti degli Apostoli”.

Nel primo anniversario “dell’orribile tragedia ruandese”, i membri della Conferenza episcopale del Ruanda pubblicarono “un messaggio di partecipazione e di conforto” all’intero popolo ruandese, che porta la data del 30 marzo 1995. “La Chiesa cattolica del Ruanda, così come tutto il Paese, è stata provata per la perdita di un gran numero dei suoi figli. Essa condivide il dolore di quanti si sono confrontati con ogni tipo di sventura: genitori a cui sono stati strappati i figli per essere uccisi, orfani, vedove, feriti, handicappati, sfollati, rifugiati nei campi, traumatizzati; in una parola tutti quelli che si sono trovati davanti l’orrore in tutte le sue forme. La Chiesa condivide la sofferenza di tutti costoro: fa sue le loro lacrime, il loro dolore, i loro lamenti e le loro suppliche, nella misura delle sue possibilità li accompagna nelle loro diverse situazioni”.

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Foto di alcune delle vittime del genocidio conservate nel museo della memoria a Kigali. Il museo è stato aperto nel 2004 in occasione del decimo anniversario dall’inizio del genocidio.  Foto: Corbis via Getty Images.

I Vescovi ruandesi, un anno dopo i massacri, auspicavano una degna sepoltura di tutte le vittime della guerra, dichiarandosi favorevoli “all’erezione di segni memoriali in ricordo dei defunti”. Come sempre “la Chiesa continua a pregare per i defunti” assicuravano, invitando tutti “a mobilitarsi per inumare degnamente i resti delle vittime che si trovano ancora sulle colline... Chiediamo insistentemente che le cerimonie di inumazione dei resti delle vittime della tragedia ruandese siano esenti da tutti quei gesti e da quelle parole che hanno provocato e aggravato il conflitto”.

Nella conclusione del messaggio, i Vescovi ribadivano “la condanna e la disapprovazione per i massacri ed il genocidio che ha segnato l’anno trascorso”, quindi esortavano “tutti coloro che amano la pace, ad ostacolare e combattere ogni progetto che possa portare al ripetersi di una tale tragedia. Questa è una legge assoluta di Dio: tutti vogliono che la loro vita sia rispettata, ognuno dunque rispetti la vita degli altri e agisca di conseguenza”.

La Via Crucis del popolo ruandese vissuta nel cuore della Chiesa

La tragedia vissuta dal popolo ruandese ha coinciso con un avvenimento storico per la Chiesa del Continente, che avrebbe dovuto riempirla di gioia e speranza: la Prima Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, sul tema “La Chiesa in Africa e la sua missione evangelizzatrice verso l'anno 2000: 'Sarete miei testimoni' (At 1,8)”. Indetta da Papa Giovanni Paolo II già nel 1989, venne celebrata in Vaticano dal 10 aprile all’8 maggio 1994, nel quadro dei Sinodi continentali sul tema dell’evangelizzazione in preparazione al Grande Giubileo dell’Anno 2000. L’eco dei tragici eventi che insanguinavano il Ruanda risuonò e si amplificò in modo particolare nel cuore della Cristianità, dove i rappresentanti dei Vescovi di tutto il continente africano erano riuniti attorno al Successore di Pietro, che non si stancava di invocare riconciliazione e pace.

Il 9 aprile 1994, in un primo messaggio indirizzato alla comunità cattolica del Ruanda, Papa Giovanni Paolo II supplicò “di non cedere a sentimenti di odio e di vendetta, ma a praticare coraggiosamente il dialogo e il perdono”. “In questa tragica tappa della vita della vostra nazione - scrisse il Papa - siate tutti artefici di amore e di pace”.

Nella solenne cornice della Messa di apertura dell’Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Africa, celebrata in San Pietro domenica 10 aprile 1994, cui ovviamente non parteciparono i Vescovi del Ruanda, il Papa espresse profonda preoccupazione per il Paese africano, “tormentato da annose tensioni e da sanguinose lotte”. Durante l’omelia ricordò in particolare “il popolo e la Chiesa ruandesi, provati in questi giorni da una impressionante tragedia, legata anche alla drammatica uccisione dei Presidenti del Ruanda e del Burundi. Con voi, Vescovi, condivido la sofferenza di fronte a questa nuova catastrofica ondata di violenza e di morte che, investendo questo diletto Paese, ha fatto scorrere in proporzioni impressionanti, anche il sangue di sacerdoti, religiose e catechisti, vittime di un odio assurdo”. Facendosi portavoce dei 315 partecipanti al Sinodo, e “in spirituale comunione con i Vescovi del Ruanda che non hanno potuto essere oggi qui con noi”, il Pontefice lanciò un appello per fermare i violenti. “Con voi elevo la mia voce per dire a tutti: Basta con queste violenze! Basta con queste tragedie! Basta con queste stragi fratricide!”

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Fronte comune delle associazioni per il ricordo del genocidio tutsi in Ruanda. Foto: Licra memoire

Anche dopo la recita del Regina Coeli di quella stessa domenica, Papa Giovanni Paolo II richiamò l’attenzione sul paese africano: “Le tragiche notizie che giungono dal Ruanda suscitano nell’animo di tutti noi una grande sofferenza. Un nuovo, indicibile dramma, l’assassinio dei Capi di stato di Ruanda e Burundi e del seguito; il Capo del governo ruandese e la sua famiglia trucidati; sacerdoti, religiosi e religiose uccisi. Ovunque odio, vendette, sangue fraterno versato. In nome di Cristo, vi supplico, deponete le armi! Non rendete vano il prezzo della Redenzione, aprite il cuore all’imperativo di pace del Risorto! Rivolgo il mio appello a tutti i responsabili, anche della comunità internazionale, perché non desistano dal cercare ogni via che possa essere argine a tanta distruzione e morte”.

I lavori del Sinodo per l’Africa, il primo nella storia della Chiesa, furono inevitabilmente contrassegnati, oltre che dallo studio e dal dibattito indicati dall’Instrumentum laboris, anche dalle tragiche notizie che via via giungevano dal Ruanda. Il 14 aprile il Santo Padre celebrò la Santa Messa “per il popolo rwandese” e i membri del Sinodo lanciarono un “appello pressante” per la riconciliazione e per i negoziati di pace. Nel messaggio, firmato a nome di tutti dai tre Presidenti delegati del Sinodo (i Cardinali Francis Arinze, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso; Christian Wiyghan Tumi, Arcivescovo di Garoua, Camerun, e Paulos Tzadua, Arcivescovo di Addis Abeba, Etiopia), i padri Sinodali si dissero “profondamente rattristati per i tragici avvenimenti” e si rivolsero “a tutti coloro che sono coinvolti in questo conflitto, perché facciano tacere le armi e pongano fine alle atrocità ed alle uccisioni”.

Ai ruandesi chiesero di “camminare insieme e di risolvere i loro problemi con la discussione”, ai singoli individui ed alle organizzazioni presenti in Africa o fuori dall’Africa, di “usare la loro influenza per portare il perdono, la riconciliazione e la pace in tutto il Ruanda”.

Fonte: Agenzia Fides

Il vescovo di Odienné, Mons. Alain Clément Amiézi, ha visitato dal 24 al 28 febbraio, la parrocchia San Giovanni Battista di Marandallah nel nord del Paese. I missionari della Consolata padre Wema Meta Duwanghe e padre Isac José Manuel Ernesto hanno organizzato la visita del vescovo in modo tale che potesse raggiungere i villaggi più sperduti, nel cuore della savana ivoriana.

È stata la prima volta che Mons. Amiézi ha raggiunto la missione di Marandallah per visitare e conoscere da vicino le comunità cristiane, alla presenza dei diversi capi tradizionali rendendo la visita una gioiosa occasione di incontro e di condivisione intorno al vescovo e ai nostri missionari. La precarietà delle strade sterrate e la fatica delle distanze sono un ulteriore motivo che conferma l’importanza di valorizzare la presenza dei missionari della Consolata in questa terra di prima evangelizzazione dove i cristiani sono solo il tre per cento. La provincia di Marandallah conta settantuno villaggi e insediamenti. “Devo accompagnare il vescovo nella visita ovunque egli voglia andare perché è una benedizione per la nostra comunità parrocchiale”, ha affermato orgogliosamente Yéo Fatoumata Sylvie, vice-presidente del consiglio parrocchiale.

Vedi qui il video della visita di Mons. Alain Clément Amiézi

* Padre Ariel Tosoni, è missionario della Consolata argentino che lavora nella Costa d’Avorio.

La Chiesa deve essere accogliente e caritatevole verso tutti gli esseri umani, soprattutto quelli più bisognosi come i migranti. Non basta avere un buon cuore per aiutarli. Per integrare questi fratelli e sorelle, è necessario avere buone capacità di riflessione per comprendere questa realtà e non cadere nel pregiudizio.

I flussi migratori sono un fenomeno spesso causato dalla mancanza di risorse, instabilità sociale ed economica, esigenze demografiche e politiche, conflitti e povertà. Il fenomeno è sempre esistito in ogni epoca, ma ha assunto caratteristiche e dimensione specifiche ai nostri giorni. È una realtà di cui a volte non ci rendiamo conto di tutte le sue implicazioni.

L'immigrazione, nel contesto del mondo globalizzato, implica l'inevitabile contatto tra culture, che crea nuove opportunità di incontro tra popoli diversi e inizialmente estranei gli uni agli altri. Ma non dobbiamo dimenticare che ci sono anche sfide implicite in questa diversità. Una delle sfide più grandi è la paura dell'altro. Nelle nostre società di oggi, e purtroppo alle volte anche nella Chiesa, c'è questa paura, che dà origine a un crescente sentimento di sospetto e di stereotipi nei confronti degli immigrati.

Il fenomeno migranti ha tuttavia aperto nuovi spazi ecclesiali verso una pastorale specifica di settore e per questo è necessaria una nuova capacità di analisi della realtà migratoria prendendo in considerazione i meccanismi perversi che generano questa sofferenza.

Questo è quindi il primo atto di solidarietà con i nostri fratelli e sorelle migranti. Per questo dobbiamo essere consapevoli che le improvvisazioni più frutto di emozioni momentanee che di serie analisi non sono sufficienti a gestire situazioni complesse che creano discriminazioni, pregiudizi e stereotipi. Ciò che serve oggi è la competenza e lo studio approfondito e critico di questa realtà e non solo nel senso di uno studio accademico, ma di uno studio che si basa su fatti concreti, realtà evidenti, cioè di una buona lettura dei "segni dei tempi".

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"I flussi migratori sono un fenomeno spesso causato dalla mancanza di risorse",  dice  Padre Patrick Mandondo, IMC

Non dobbiamo dimenticare che tutta l'attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale di ogni persona. L'incontro tra immigrati e popolazioni residenti serve oggi a mettere in pratica un nuovo e rinnovato modo di evangelizzare. L’opportunità di questo grande incontro deve farci sentire la necessità di una nuova evangelizzazione.

Il centro di attrazione di questa nuova evangelizzazione sono i poveri e gli emarginati, compresi i migranti e i rifugiati. Queste nuove fragilità sono un luogo di evangelizzazione e di lavoro missionario. Evangelizzare nell'era delle migrazioni significa anche raggiungere coloro che non condividono la fede cristiana. In altre parole, persone di altre religioni che non hanno ancora incontrato Gesù Cristo o che lo conoscono solo parzialmente. Ma questo deve essere fatto con il rispetto dovuto a tutti e con la prudenza che tali situazioni richiedono. L'annuncio può talvolta non essere ben accolto, ma ciò che più conta è trovare valori comuni da condividere, in vista della difesa e promozione della vita.

*  Padre Patrick Mandondo, IMC, lavora con la Pastorale dei Migranti a Oujda, Marocco. Articolo pubblicato in www.fatimamissionaria.pt

"Non si tratta più del Paese e della sua leadership, ma del popolo del Sud Sudan che sta lentamente morendo", afferma il vescovo Eduardo Hiiboro Kussala della diocesi di Tombura Yambio ribadendo che la situazione è disastrosa e richiede quindi un intervento urgente.

In una dichiarazione dell'8 marzo, citata dall'agenzia CISA, il vescovo Kussala, in qualità di presidente della Commissione per lo Sviluppo Umano Integrale della Conferenza Episcopale del Sudan e del Sud Sudan (SSSCBC), fa appello all'assistenza umanitaria della comunità internazionale, delle persone di buona volontà e delle reti Caritas per alleviare le sofferenze della popolazione del Sud Sudan, che, a suo dire, è “sull'orlo della miseria”.

Monsignor Eduardo Kussala ha precisato che la popolazione sta soffrendo a causa di emergenze e sfide complesse, tra cui la fame, le inondazioni, la siccità e l'insicurezza crescente in alcune parti del Paese, aggravata da un'economia fragile e prossima al collasso.

"Il nostro popolo continua a subire gli effetti di emergenze complesse che si stanno ancora verificando in molte parti del Paese, comprese quelle che in precedenza erano in una situazione considerata normale. Di conseguenza, il numero di sfollati interni che vivono in condizioni deplorevoli e muoiono di fame è aumentato enormemente in tutto il Paese, e i più colpiti sono le donne, i bambini, gli anziani e le persone con disabilità", sottolinea il vescovo.

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Mons. Eduardo Hiiboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio nel Sud Sudan. Foto: Vatican Media

"Quelli che vivono ancora nelle loro case rischiano di morire di fame, poiché la maggior parte di loro ha dovuto, abbandonare le proprie fonti di sostentamento nel tentativo di salvarsi la vita. La maggior parte dei bambini che frequentano la scuola ha dovuto abbandonarla a causa dell'insicurezza e della paura di essere reclutati con la forza per servire come soldati nei conflitti", osserva. Questa triste realtà ha portato a un aumento del numero di bambini non scolarizzati che si sono dati alla strada per sopravvivere.

"Non si tratta più del Paese e della sua leadership, ma del popolo del Sud Sudan che sta lentamente morendo. A meno che non venga protetto da questi disastri, temiamo che il nostro popolo non sopravviverà, soprattutto perché la maggior parte della popolazione (64%) è costituita da giovani indifesi che non hanno alcuna fonte di reddito, mentre la maggior parte del restante 36% è costituita da persone anziane. La situazione è disastrosa e necessita quindi di un intervento urgente", ha dichiarato.

"Esorto ciascuno di voi” afferma il vescovo della diocesi di Tombura Yambio facendo appelo alle grandi organizzazioni internazionali, “a usare questa opportunità per mettere in pratica le visioni e missioni proprie delle vostre organizzazioni che affermano come proprio compito di mitigare la sofferenza umana nel mondo. Pensate alla madre sud sudanese che vede morire il suo bambino a causa della malnutrizione causata dalla fame, al giovane che muore in ospedale perché non ci sono medicine per curarlo, alla bambina di 9 anni che, per un pezzo di 'bambe' (patata), è costretta a vendere il suo corpo, e all'anziana emaciata che giace all'interno del suo sgabuzzino ma che aspetta che la morte porti via la sua sofferenza",

Fonte: CISA

“Basta silenzio”. “Giù le mani della Repubblica Democratica del Congo”. “Basta con le guerre per i minerali”. “Più di 12 milioni di morti”. Questi sono stati alcuni degli slogan gridati dalla comunità congolese a Roma, domenica 10 marzo, per denunciare le atrocità e promuovere la pace nell'est del Paese centrafricano, ricco di metalli preziosi, oro, diamanti e idrocarburi.

“Quello che sta succedendo in Congo è grave e il mondo non ne parla, perché i padroni stessi dei media forse hanno anche loro interessi ed investimenti nel Congo. Per questo il Papa ha detto bene: ‘giù le mani della RDC’”, ci spiega il padre Roger Balowe Tshimanga, cappellano della comunità congolese a Roma mentre accoglie i partecipanti della manifestazione nella chiesa della Natività in Piazza Pasquino. “Oggi la guerra nel Congo diventa più grave della Guerra Mondiale, ma ciò che sorprende è che nessuno parla di questo. Allora, noi congolesi dobbiamo difendere il nostro Paese. Se il mondo non parla, noi stessi dobbiamo parlare ed è quello che stiamo facendo oggi”, aggiunge il religioso proprio quando suona la campana per l'inizio della messa alle 9:00 come previsto.

Messa e preghiera per la pace

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Mons. Ricardo Lama: “l’amore di Dio in Gesù va oltre tutte le sofferenze, il dolore e la morte di croce"

Animata in stile congolese, un popolo gioioso, la celebrazione è stata presieduta da uno dei vescovi ausiliari di Roma, monsignor Riccardo Lamba, recentemente nominato arcivescovo di Udine. I canti, le preghiere e le riflessioni hanno ricordato le vittime della violenza e lanciato un forte appello per la fine dei saccheggi, delle aggressioni e per la pace nella RDC. Oltre 200 persone, alcuni provenienti da altre parti d'Italia, si sono riunite per l’evento, molti sacerdoti, religiosi e religiose, ma non solo, anche gruppi e associazioni ecclesiali impegnati nella stessa causa.

“La presenza del vescovo rappresenta Pietro e quindi, la vicinanza del Santo Padre a tutti le persone di buona volontà. Papa Francesco ama il popolo congolese”, ha assicurato Mons. Riccardo Lama all’inizio della sua omelia nella IV domenica di Quaresima, “Laetare”, che ci invita alla gioia. “Questa gioia - dice il vescovo – non è un sentimento passeggero o per un successo momentaneo, ma vuole dire che noi siamo sempre preceduti dall’amore di Dio che ci ama da sempre e per sempre”. E riferendosi alle sofferenze della umanità e del popolo congolese, Mons. Riccardo ribadisce: “Questo amore è dimostrato attraverso la persona di Gesù Cristo che ha esperimentato la sofferenza, ha dovuto subire la passione e la morte”, e vuole dire che “l’amore di Dio in Gesù va oltre tutte le sofferenze, il dolore e la morte di croce". Così deve essere anche "la speranza della comunità congolese”.

In questo senso, le immagini di due martiri congolesi, la beata Sr Anuarite Nengapeta e il beato Isidore Bakanja esposti davanti all'altare diventano testimoni della fede in Gesù Cristo, il grande Martire, e perciò di un amore che è più forte della morte.

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Alla celebrazione hanno partecipato anche l'Ambasciatore di Haiti presso la Santa Sede, S.E. il Sig. Jean Jude Piquant e l'Ambasciatore della RDC, S.E. il Sig. Rigobert Itoua, che ha così sottolineato l'importanza dell'evento: “una giornata per sostenere la pace e fermare le atrocità contro il nostro popolo”. Anche le Nazioni Unite denunciano un'escalation in corso, in particolare nell'area della provincia del Nord Kivu, nella città di Goma che ha accolto circa 2,5 milioni di sfollati interni. Il conflitto regionale si sta sviluppando nella parte orientale della RDC, dove la violenza aumenta di mese in mese. Al centro del problema sempre la contesa per il controllo del territorio e dove ci sono giacimenti di diamanti e miniere ricche di minerali e metalli preziosi, in particolare dell’est, al confine con Burundi, Ruanda e Uganda. Sullo sfondo, a muove le fila di tutto, si muovono le grandi potenze: Stati Uniti, Francia e Cina.

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 l'Ambasciatore di Haiti presso la Santa Sede, S.E. il Sig. Jean Jude Piquant e l'Ambasciatore della RDC, S.E. il Sig. Rigobert Itoua (terzo da sinistra a destra).

Marcia per le vie di Roma

Dopo la messa, è iniziata la marcia per le vie di Roma, da Piazza Pasquino fino a Piazza San Pietro. Lungo il percorso i passanti e i pellegrini hanno potuto leggere e cartelli e gli striscioni con il motivo della manifestazione. Nasibu Barth, studente di filosofia politica alla Università Lateranense e responsabile del coro Bondeko (fratellanza) che anima il rito cattolico zairese nella Chiesa della Natività, è stato uno degli organizzatori della marcia. Utilizzando un megafono, il giovane studente proclamava slogan intercalati da canti con accenni sulla situazione del Congo. A più riprese è risuonato il grido: “Basta silenzio”. “Liberate le terre congolese dagli interessi sporchi”. “Basta la guerra”. “Più di 12 milioni di morti” mentre la marcia proseguiva lungo il percorso concordato con le forze dell’ordine.

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La comunità congolese marcia per la pace in Via Vittorio Emanuele  II.

Nell'Angelus il saluto di Francesco

Attraversata via della Conciliazione, alle ore 11:30, il gruppo si è unito alla folla di pellegrini radunati in Piazza San Pietro per la preghiera dell'Angelus con Papa Francesco. L’atmosfera intorno era cambiata, il gruppo dei congolesi si è trovato al centro della cristianità abbracciati dal colonnato del Bernini come le “braccia materne della Madre Chiesa”. Hanno potuto così unire la loro voce, e sentirsi in sintonia con tutta l'umanità, cantando e pregando per la pace.

Oltre ai fratelli e sorelle musulmani che stanno per cominciare il Ramadan, il Santo Padre ha ricordato anche le guerre nel mondo e la grave crisi sociale, politica e umanitaria che colpisce Haiti, Paese da anni provato da molte sofferenze con decine di persone uccise e più di 15 mila costrette ad abbandonare le loro case a causa degli attacchi coordinati delle bande armate.

I loro cuori si sono riempiti di gioia e gratitudine quando hanno ascoltato le parole tante attese, pronunciate dal Santo Padre: “E mentre saluto con affetto la comunità cattolica della Repubblica Democratica del Congo a Roma preghiamo per la pace in questo Paese africano come pure nella martoriata Ucraina e in Terra Santa cessino al più presto le ostilità che provocano immani sofferenze nella popolazione civile”, ha detto Francesco.

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È tempo di rompere il silenzio

Insieme ad altre donne, Bumi Muluwa Rose, dell’Istituto secolare dominicane in Congo, aiutava a portare uno striscione con la scritta: “Non alla guerra e ai massacri”.

“Sono venuta qui per parlare a tutti coloro che usano il cellulare e il satellite che sono bagnati dal sangue. Basta! Siamo stanche di morire” - esclama Rose e continua - “anche voi missionari avete fatto tanto per il Congo ma adesso dovete lottare con noi”, - accennando anche alla figura dell’ambasciatore dell’Italia nella RDC (Luca Attanasio) che è stato ucciso nel 2021, - “mentre la comunità internazionale rimane in silenzio, non vuole parlare”.

Alla domanda su come aveva accolto il saluto del Papa, Rose ha risposto: “Papa Francesco è sempre con noi, lui è per tutti e ha lottato per noi prima. Francesco ha osato alzare la voce: “Giù le vostre mani della RDC e del Africa’, però il mondo non l’ha ascoltato, la comunità internazionale che ci ruba e che ci violenta... Questo non lo vogliamo più. Basta!”, esclama a voce alta in Piazza San Pietro.

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Questo grido della comunità congolese a Roma se unisce agli altri gridi per porre fine alle atrocità e ai conflitti in tutto il mondo, come quelli che imperversano a Cabo Delgado, nel Mozambico, in Etiopia, in Sudan, nel Sud Sudan, in Terra Santa e in Ucraina... È tempo di rompere il silenzio e denunciare il coinvolgimento dei paesi più potenti che favoriscono la continuazione dei conflitti causando la morte di milioni di innocenti, soprattutto di donne e bambini.

* Padre Jaime C. Patias, IMC, comunicazione Generale, Roma.  

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 Le immagini di due martiri congolesi, la beata Sr Anuarite Nengapeta e il beato Isidore Bakanja esposti davanti all'altare  nella chiesa della Natività

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La partecipazione dei missionari della Consolata a Roma, i padri Innocent, Giacomo e Michelangelo

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