Il 6 gennaio 1905 era la festa dell'Epifania e in quel giorno il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, scrisse una lettera ai missionari del Kenya (cfr Lettere IV, 276-282). In quella lettera di inizio anno Giuseppe Allamano indica ai suoi missionari le cose fondamentali e importanti da fare per continuare ad essere con gioia strumenti della presenza di Dio nel mondo. Potremmo dire che, con quelle parole, ha voluto tracciare per i suoi figli i propositi che considerava necessari per camminare tutto l’anno al servizio del progetto di Dio e offrire generosamente il meglio di sé.

Questo, ancora oggi, è per noi un invito a dare una direzione e un significato alla nostra vita con propositi che agiscano come fari di speranza e ci ricordino che abbiamo degli obiettivi da raggiungere.
Il Fondatore disse ai missionari, che avevano appena concluso la Conferenza di Muranga l'anno precedente, di “stabilire regole di vita e di azione apostolica, suggerite dall'esperienza” e raccomandava ai missionari di consultare i superiori se avessero avuto progetti diversi da quelli discussi e decisi dalla comunità in occasione della recente conferenza.

Anche questo è molto importante per noi oggi, soprattutto perché abbiamo appena concluso il 14° Capitolo Generale nel quale si sono stabiliti criteri e progetti. Stiamo ancora analizzando e cercando di attuare gli atti del capitolo, e il rischio di provare a modificarli per una soluzione rapida non può essere escluso. Per questo è necessario ripensare l'anno con le linee guida del nostro Fondatore.
Una delle funzioni più importanti del cervello umano è quella che ci consente di fissare obiettivi e di raggiungerli ma questo richiede una rigorosa disciplina nella gestione del tempo. A questo proposito anche Giuseppe Allamano scriveva ai missionari: “Una raccomandazione che ritengo utile anche per voi è quella di usare bene il tempo” e prosegue ricordando che ciascuno è tenuto a rispettare l'orario comune e quindi ad essere puntuale in tutte le attività.

Potrebbe sembrare banale sentire il Fondatore fare raccomandazioni di questo tipo eppure siamo consapevoli che uno degli ostacoli al raggiungimento dei bei propositi presi è la cattiva gestione del tempo. Ecco perché le parole di dell'Allamano non vanno prese alla leggera.

Consapevole che la stanchezza indebolisce gradualmente la determinazione delle persone nella sua lettera ai missionari nel Kenya aggiungeva un invito a non inaridire lo spirito ed arrendersi: “Alla vostra partenza voi avete promesso di santificarvi totalmente per amore delle anime, sottoponendovi a qualunque disagio, contentandovi di qualunque ufficio pur di riuscire a santificare voi stessi ed il prossimo”.

Anche noi oggi possiamo riconoscerci nelle parole del nostro Fondatore. Quando siamo entrati nell'Istituto e fatto la professione religiosa abbiamo promesso le stesse cose. Nel corso degli anni la possibilità di stancarsi e perdere il morale è qualcosa che non si può negare. Ecco perché iniziare l'anno con le parole di Giuseppe Allamano ci mette nelle condizioni di raggiungere i nostri obiettivi.
Conclude il beato Allamano con un importante invito alla carità: “Quella che ora intendo inculcavi è la carità vicendevole. Con il moltiplicarsi delle persone crescono anche le diversità di apprezzamenti, perché tutti abbiamo la nostra testa, come si dice, e specialmente molta dose di amor proprio che ci inganna senza che ce ne accorgiamo. Da qui la tentazione di disapprovare internamente il modo di pensare e di agire dei confratelli e talvolta perfino dei superiori. State attenti contro questa tentazione, perché il giorno in cui cominciassero le critiche vicendevoli segnerebbe tosto la sterilità delle vostre fatiche e sarebbe il principio della dissoluzione dell’Istituto”.

Possano queste sagge parole di p. L'Allamano ci guida e dirige le nostre attività mentre entriamo in questo nuovo anno benedetto da Dio.

* Padre Jonah M. Makau, IMC, Casa Generalizia a Roma, frequenta il corso in Cause dei Santi.

Noi abbiamo nel cuore il desiderio di continuare a promuovere l'azione missionaria della Chiesa nei luoghi in cui siamo stati chiamati a essere messaggeri della Buona Notizia di Gesù ma non è mai un cammino facile. Questo compito può essere portato avanti solo con la grazia dell'autore della missione e si fa in mezzo a tante sfide che il mondo di oggi deve affrontare. 

Eppure, se allunghiamo un po’ lo sguardo "della mia comunità", la "mia parrocchia", la mia opzione o il mio servizio missionario corriamo il pericolo di farci contagiare da quella che il nostro confratello Leonel Narváez chiama “la maledetta rabbia" e che nasce dall'impotenza di non sapere essere missionari ad gentes in mezzo ai conflitti. A questo punto il passo è breve per arrivare, in un modo o nell'altro, all'indifferenza verso le sofferenze altrui o ad aspettare passivamente un cambiamento che non arriva mai.

Il rinnovamento della comunità auspicato dal cammino sinodale implica guardarsi intorno, scoprire i gesti di speranza che ancora ci accompagnano e da essi lanciarsi verso la novità del risveglio ecclesiale e umano di cui il mondo di oggi ha bisogno. 

Mentre continuiamo a chiederci cosa intendiamo per “ad gentes” in questi tempi complessi, dobbiamo anche capire che la risposta molto probabilmente non ci arriverà da una riflessione illuminata o da una rivelazione divina, ma piuttosto dell'incontro autentico con i poveri del nostro tempo. In realtà se ciò che sono e ciò che faccio non definisce il mio Ad Gentes, dovrei, io e la comunità, cominciare a preoccuparmi.

Il cammino sinodale è parte della risposta che lo Spirito Santo continua a rivelarci attraverso il magistero di Papa Francesco; camminare insieme è un primo passo per ricomporre il corpo della Chiesa, dell'Istituto e della Missione. Ma poi il passo successivo è camminare gli uni verso gli altri affinché "l'incontro autentico con il fratello" diventi gesto sacramentale, fonte di grazia e forza per affrontare la novità della missione. Un sentito grazie a tutti i missionari e alle comunità che sanno sostenere con umiltà la nostra speranza quotidiana e che, in questo modo, ci incoraggiano a rimanere saldi nel nostro impegno missionario. La vostra comunicazione e condivisione ci rende artigiani della Buona Novella, tessuta nel quotidiano della nostra missione. Il Beato Giuseppe Allamano, nostro Fondatore, e la Madonna Consolata siano sempre con noi.

* P. Venanzio è superiore provinciale in Colombia (lettera alla comunità del bollettino Infomisión di Ottobre 2023)

La nostra risposta deve essere drastica, intensa e con l'impegno di tutti! (cfr. Laudato Si' 59).

La Rete Ecclesiale Pan-Amazzonica (Repam) ci siamo riuniti a Florencia, (nella regione del Caquetá – Colombia), con rappresentanti della Bolivia, del Brasile, della Colombia, dell’Ecuador, della Guyana Francese, del Perù e del Venezuela e con la presenza di organizzazioni alleate internazionali. In un mondo inorridito dall'aumento della violenza e dalla guerre, chiediamo innanzitutto un cessate il fuoco immediato a Gaza e in altri luoghi di conflitto, per promuovere meccanismi e accordi internazionali per la costruzione della pace. È in gioco il futuro della democrazia e dei diritti umani!

La Repam, che festeggia 10 anni di vita, è una risposta profetica sorta dal messaggio evangelico e vuole promuovere la cura della casa comune; far risuonare la voce dei popoli che la abitano e impegnarsi nella difesa dei diritti umani. Siamo ispirati dalla spiritualità incarnata nel territorio, impegnati in nuove modalità di sinodalità, per una Chiesa dal volto amazzonico.

In questi dieci anni, la situazione in Amazzonia è diventata critica e abbiamo raggiunto un punto di non ritorno. Profondamente addolorati per l'agonia di questo bioma e dei suoi popoli, consapevoli della sua importanza per il pianeta, esprimiamo la nostra preoccupazione riguardo a:

1. La CRISI CLIMATICA e il collasso sistemico dell'Amazzonia marcato dai recenti periodi di caldo anomalo, incendi incontrollati, gravi siccità, livelli record di fiumi e laghi che hanno isolato numerose comunità e lasciato migliaia di persone senza accesso all'acqua potabile, ai servizi sanitari, all’istruzione e al cibo.

2. L'ESTRATTIVISMO, la deforestazione accelerata, le concessioni minerarie, lo sfruttamento dei corsi d'acqua, i progetti idroelettrici e le autostrade che sono promosse senza l’approvazione della popolazione residente previamente e liberamente informata delle conseguenza ambientali di ogni decisione. L'espansione della frontiera agricola, le monocolture e l'agrobusiness causano una gigantesca perdita di biodiversità e ostacolano i modi di produzione locali, minacciando la sovranità alimentare. L'uso di prodotti agrochimici e il mercurio inquinano le fonti d'acqua, l'aria e il suolo, compromettendo l'accesso alle risorse naturali e causando gravi malattie tra la popolazione.

3. Lo SVILUPPO MINERARIO ED ENERGETICO dell’Amazzonia, sovrapposto alle aree protette e ai territori comunitari, minaccia l'integrità culturale e territoriale dei popoli indigeni, contadini, costieri e afro-discendenti; la situazione dei popoli in contatto iniziale o in isolamento volontario è ancora più preoccupante.

4. Le false soluzioni dell'ECONOMIA VERDE, con la promozione dei crediti di carbonio e la mercificazione della biodiversità dell'Amazzonia, che non producono contributi effettivi al cambiamento necessario.

5. Il TRAFFICO DI DROGA, gli attori armati legali e illegali che minacciano e assassinano i difensori dei diritti umani e dell'ambiente. La protezione di questi leader deve essere una priorità, anche dopo l'attuazione e la ratifica dell'accordo di Escazú. Siamo inoltre preoccupati per l'aumento dei femminicidi, della perdita di prospettive e dei suicidi tra i giovani.

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Di fronte a questa situazione di emergenza, sollecitiamo l'attuazione di un Piano d'azione integrale per la protezione e la difesa del Pan-Amazzonia e dei suoi popoli, con un serio impegno delle autorità pubbliche e della società civile per prevenire nuove violenze, aiutare le vittime e invertire la situazione.

Le comunità e i popoli amazzonici chiedono alla Chiesa un'alleanza nella ferma difesa dei loro territori, affinché i loro progetti di vita siano garantiti di fronte ai progetti di morte. Apprezziamo il risultato positivo del referendum, che ha mobilitato la Repam e molte organizzazioni per proteggere dallo sfruttamento petrolifero il parco naturale di Yasuní, punto di riferimento mondiale per la biodiversità nell'Amazzonia ecuadoriana.

La Repam ratifica l'appello di Papa Francesco per una governance globale in tempi di crisi climatica, chiedendo che le Conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP) prendano decisioni efficaci, vincolanti e facilmente controllabili.

Chiediamo l'unità dei popoli e delle reti ecclesiali per l'ecologia integrale, un percorso di mobilitazione e sensibilizzazione dalla COP-28, attraverso il Forum Sociale Pan-Amazzonico (FOSPA) di giugno 2024 in Bolivia, fino alla COP-30 nell'Amazzonia brasiliana. La nostra risposta deve essere "drastica, intensa e con l'impegno di tutti" (cfr. Laudato si' 59).

Restiamo legati al Dio della Creazione, il cui Spirito rafforza la nostra cura per la vita dei popoli e per la nostra casa comune!

*Messaggio della Repam riunita in Florencia (Caquetá, colombia) dall'otto al 10 novembre 2023

In Messico siamo giunti 15 anni fa con un progetto che era nato come una apertura voluta dal continente America e con una prima presenza di missionari tutti provenienti dalle regioni dell’America Latina. 

Eppure in questi anni anche la nostra presenza ha subito quella trasformazione in molti modi legata alla realtà di questo paese che, malgrado culturalmente sia molto più unito alla metà meridionale del continente, di fatto, per circostanze storiche e sociali, volge lo sguardo quasi esclusivamente verso il nord, verso La Frontiera, quella con le maiuscole. 

La frontiera del nord

Quasi impossibile da attraversare legalmente –lo è solo per pochi privilegiati– ci sono infiniti modi di farlo illegalmente e tanti messicani l’hanno fatto, tanti sognano di farlo, tanti lo faranno prossimamente assieme a una fiumana sempre più abbondante di umanità,  proveniente da tutte le parti del mondo, anche le più lontane, e tutti attratti dall’“American Dream”. 

Noi non viviamo a ridosso della frontiera eppure, anche fra le famiglie delle nostre parrocchie, tremila chilometri più a sud, non c’è quasi nessuno che non possa annoverare fra le parentele alcun “dreamer”.

Quando sono sbarcato in Messico circa quattro anni fa, io che il cuore l’avevo in Africa e quella era la mia prima esperienza americana, avevo tante domande che mi inquietavano e una era precisamente questa: “che ci facciamo noi con la Regione Nord America, con quelli lì che parlano quasi tutti inglese”. Oggi la risposta l’ho chiara ed è legata a questo che vi ho appena detto... il Messico, un territorio che è anche casa comune di culture numerose, significative, meticce... sembra avere il baricentro terribilmente spostato a nord e quasi tutto, non solo le persone, forse anche le idee, sembrano scivolare in quella direzione. La mobilità umana forse è la sfida missionaria che ci interpella oggi in questa enorme nazione e le sue rotte si incrociano anche con la nostra esigua geografia. Questo succede concretamente in Tuxtla Gutiérrez, nello stato del Chiapas, molto vicino alla frontiera sud, ma una delle prime città Messicane che i migranti toccano dopo aver attraversato non poche frontiere per arrivare fin qui.

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Le nostre presenze

In questo momento le nostre presenze sono due: una nello stato di Jalisco, a una quarantina di chilometri dalla capitale, Guadalajara, in un piccolo paese chiamato San Antonio Juanacaxtle e l’altra, ben duemila chilometri più a sud, nello stato di Chiapas, questa volta nella capitale Tuxtla Gutiérrez. 

A San Antonio ci occupiamo della pastorale di due settori che si sono popolati non tantissimi anni addietro: “Villas Andalucía” composta da circa novemila famiglie, e “El Faro” con mille famiglie. La popolazione è molto giovane e lo dice il numero dei ragazzi che frequentano la catechesi parrocchiale, tutti gli anni almeno 700. Le nostre strutture in questi due settori sono povere come povere le famiglie che hanno urbanizzato questi terreni negli ultimi 10 anni. La cappella è piccolina e il parco serve come spazio settimanale di catechesi ma in realtà la sfida maggiore non è legata all'essenzialità delle strutture parrocchiali ma alla fragilità e poca definizione dell’identità di questa comunità ancora troppo recente per considerarsi consolidata e matura. 

I problemi sono tantissimi: la droga e i cartelli del Narcotraffico, qui quello di “Jalisco Nueva Generación”, sempre in lotta con quello di Sinaloa per controllare territori e traffici. Oggi si preferisce chiamarlo “crimine organizzato” perché il traffico di stupefacenti è solo una parte della loro economia criminale: ci sono anche le armi e c’è, sempre più forte, il traffico di persone.

A Tuxtla Gutiérrez invece ci troviamo in una parrocchia urbana e in uno stato religiosamente molto tradizionalista e ben strutturato. Nelle parrocchie funzionano perfettamente le tre pastorali tradizionali: la liturgica, tipicamente la più significativa, legata alle multiple celebrazioni e tradizioni; la profetica –così è come si chiama la catechesi e l’educazione nella fede– e la pastorale sociale, attenta alle antiche e nuove povertà che interpellano l’identità cristiana dei nostri fedeli.

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La consolazione dell’ascolto e la missione

Come missionari abbiamo sempre scelto di stare accanto alle persone così come le abbiamo conosciute e così come le troviamo. Le famiglie vivono unite ma spesso solcate da ferite nascoste che sanguinano e fanno soffrire, legate a violenza, povertà, soprusi e un atavico maschilismo. Alcuni dei nostri missionari hanno fatto la scelta di formarsi come psicologi per dare qualità all’ascolto delle persone, una forma concreta di consolazione che ci è stata chiesta quasi fin da subito.

Poi c’è la chiesa, quando venimmo in Messico uno dei motivi era anche quello vocazionale e di fatto alcune diocesi hanno una gran abbondanza di clero... eppure –paradossalmente direi in questo paese con tanti migranti– la missione non c’è, non si sente, non si vuole, si fa fatica pensare di poter portare oltre confine il proprio impegno credente, in paesi lontani, in culture nuove, senza la consolazione della famiglia riunita così ben rappresentata, nelle sue radici profonde, dagli altari del giorno dei morti. Quella è una sfida che non abbiamo ancora finito di raccogliere anche se possiamo già annoverare due missionari di origine messicano, uno in Italia –tra l’altro il primo missionario di origine indigena del continente americano– e l’altro in Kenya. Per il prossimo futuro il discernimento ci porta a guardare alla fiumana anonima che ci raggiunge e prosegue nel suo lento, spesso pericoloso ma irrinunciabile pellegrinaggio verso la Frontiera, quella con la “F” maiuscola. 

Il 9 agosto 2022, giorno in cui ho festeggiato un quarto di secolo di servizio sacerdotale e missionario, ho ricevuto una lettera piena di gratitudine da parte del Superiore Generale, nostro fratello maggiore. Il mio cuore si è riempito di gioia e ho fatto un viaggio emotivo nella mia vita, scoprendo quanto sia stata bella questa vocazione che ho abbracciato ormai tanti anni fa. Non sono solo un sacerdote, sono un sacerdote missionario della Consolata, chiamato a esercitare questa vocazione in un modo molto particolare, donando frammenti di consolazione nel mondo. Permettetemi di condividere con voi alcune delle gioie che il Signore mi ha fatto sperimentare in questi anni.

Il mio ministero è in qualche modo nato sotto la speciale protezione di due Sante entrambe di nome Teresa. Sono stato ordinato il 9 agosto 1997, festa di Santa Teresa Benedetta della Croce che in quell’anno era beata e sarebbe stata canonizzata l’anno successivo. Due mesi dopo ero a Roma e il 19 ottobre 1997 ho partecipato alla messa nella quale il papa Govanni Paolo II ha dichiarato dottore della chiesa Santa Teresa di Gesù Bambino, patrona delle missioni. Quella sera stessa ho preso il volo Alitalia con destino Caracas (Venezuela) dove ho vissuto tutti i successivi anni di missione.

Il mio ministero è stato influenzato in modo significativo da Santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein come si chiamava prima della conversione e la sua entrata nella vita religiosa; la sua esperienza e il suo insegnamento sull'empatia hanno dato un tocco molto particolare al mio incontro con Dio e con gli esseri umani. "Da colui che tiene la mano di Dio sgorgano torrenti di acqua vivificante, e allo stesso tempo sviluppa una misteriosa attrazione. Senza volerlo, deve diventare una guida per gli altri e generare e conquistare figli e figlie per il Regno di Dio". Così diceva Edith Stein, dopo la sua conversione al cristianesimo. Io ho scoperto i suoi scritti tre anni dopo la mia ordinazione, e ho scoperto che la sua vita era una fonte di acqua vivificante per molti. Da lì ho deciso che anche la mia vita sarebbe stata una fonte di vita per le persone che avrei incontrato. La mia unione con Dio mi ha reso una fonte di consolazione per molti e mi ha fatto sentire la consolazione di Dio attraverso la relazione fraterna con gli altri. Il tema dell'intersoggettività è diventato una pratica di vicinanza nella mia vita. Essere missionario della Consolata, appartenere a questa famiglia interculturale è una delle migliori esperienze di empatia e intersoggettività che ho vissuto e ringrazio Dio per questa vocazione che ho sperimentato all'interno della Famiglia della Consolata.

Santa Benedetta, senza essere andata in missione, ha scoperto che: "Per i cristiani non ci sono estranei. Il nostro prossimo è chiunque sia alla nostra portata e abbia bisogno di noi". Che bello essere missionario della Consolata e scoprire nelle missioni che nessuno è straniero e che siamo tutti uguali! Che gioia incontrare tanti fratelli e sorelle di colori e culture diverse, ed esserlo con tante persone in missione! Gli indigeni Warao, in un modo molto speciale, mi hanno insegnato che essere missionario, che per loro è come essere fratello, figlio, amico e padre è un modo molto concreto di costruire il Regno di Dio. La parola più usata nelle relazioni Warao è “maraisa” che significa letteralmente “l'altro me stesso”. Il Regno di Dio si costruisce forgiando sentimenti di intersoggettività; consolare è costruire comunità in cui tutti si sentano fratelli e sorelle. Quant’è bella e quanto difficile questa missione; la nostra missione è molto particolare all'interno della Chiesa!

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Poi Dio mi ha messo nel mio cuore un amore molto speciale per gli indigeni. In questi 25 anni di servizio missionario ho scoperto che all'interno della vocazione della Consolata c’è un'altra vocazione particolare: quella di essere apostolo e fratello degli indigeni. Quando vivi con un popolo e questo ti adotta, le sue gioie e le sue sofferenze diventano la tua stessa esperienza.

Quanto ammiro i grandi missionari che hanno speso la loro vita per gli indigeni: Bruno del Piero, Gaetano Mazzoleni, Giuseppe Frizzi, Carlo Zaquini, Ezio Roattino, Antonio Bonanomi, e la lista continua! È stato un privilegio seguire le orme di questi uomini illustri, costruttori del Regno di Dio tra gli indigeni.

Questi 25 anni sono passati troppo in fretta, ma sento ancora la stessa gioia che si è impossessata di me il giorno della mia ordinazione e il giorno in cui sono partito per il Venezuela. Ringrazio Dio per questa bella esperienza che mi ha permesso di essere suo collaboratore nella costruzione del Regno. Ringrazio la mia famiglia per tutto il sostegno che mi ha dato nel mio servizio sacerdotale-missionario. Ringrazio la mia parrocchia, Aluor, e il mio gruppo giovanile "Fish Grupo", per aver alimentato la mia vocazione. Ringrazio il Venezuela, il Paese in cui ho vissuto la maggior parte della mia vita e, in modo molto particolare, i Warao per avermi insegnato a costruire il Regno di Dio partendo dalla semplicità. Alla mia famiglia di 30 anni, la Consolata, un grazie speciale, a tutti i missionari con cui ho condiviso vita e missione. Conto sulle vostre preghiere e benedizioni.

 

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