Dall’Eucarestia alla missione: Il percorso biblico

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Riflettere sulla missione che nasce dall’Eucarestia porta a chiederci: l'esperienza dell'Eucaristia e la missione sono due momenti distinti (prima la comunione e poi la missione) dell'essere cristiani, o due volti dello stesso incontro? Che cos'è la missione a partire da Gesù? Quali le sue radici e finalità? Come riscoprire la centralità della missione Che il Nuovo Testamento ci rivela? Qual è l'origine della missione di Gesù e chi sono i destinatari? Che cosa hanno annunciato gli Evangelisti, insieme ai primi missionari cristiani? E oggi i cristiani in generale e i religiosi in particolare possono trovare nell'Eucaristia non solo la sorgente, ma anche il modello della propria missione? Qual è il ruolo dello Spirito nello scoprire e nel vivere la propria missione a partire dall’Eucarestia?

Sarebbe un errore isolare l’Eucaristia e la missione che sgorga dal sacrificio eucaristico e da tutta la missione di Gesù. Proprio perché Gesù stesso — all'interno delle parole che istituiscono l'Eucaristia — ci chiede di rileggere e perpetuare nella storia della nostra vita personale, ecclesiale e dell'umanità un sacrificio che ci coinvolge: «Fate questo in memoria di me» (I Cor 11,24s). «Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate (kataggello) la morte del Signore finché egli venga» (I Cor 11,26). Fare memoria non è solo ripetere l’azione di Gesù, ma perpetuare nella nostra vita la sua scelta di dono per la salvezza dell'umanità.

Il verbo usato da Paolo nel trasmettere l'istituzione dell'Eucaristia — kataggello (proclamare, predicare, annunziare) — è il termine tecnico di Luca negli Atti per la predicazione missionaria, perciò è usato spesso con la locuzione «parola di Dio/del Signore» (At 13,5; 15,36; 16,17; 17,3) il cui contenuto — pur con tutte le sfumature del discorso — è uno solo: Gesù Cristo. A questo uso lucano del verbo si avvicina l'uso fatto da Paolo in I Cor 9,14, dove il verbo ha un senso ancora più chiaro e globale e significa «esercitare l'attività di annunciatore della fede». Tuttavia, che l'annuncio del Vangelo non si esaurisca nella parola, risulta dal testo eucaristico di I Cor 11,26, dove appunto l'azione cultuale è accompagnata dal mangiare il pane a bere dal calice: un'azione che, proprio a motivo del loro riferimento alla morte di Gesù, è intesa come annuncio del significato salvifico di questa morte.

Quindi, ogni riflessione cristiana — su qualunque aspetto rivelato, anche sull'Eucaristia, sorgente della missione della Chiesa — deve partire da Gesù Cristo che ha pregato e richiesto l'unità per i suoi discepoli nella missione, affinché «siano una cosa sola ... perché il mondo creda ... perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17,21 23). L'unione dei cristiani nella missione non è un desiderio utopistico, ma un ordine dello stesso Gesù motivato dal fatto di portare l'umanità alla fede: «Perché il mondo creda ... sappia che tu mi hai mandato». La preghiera di Gesù è insieme rivelazione e invocazione. Sono le parole contenute nella tradizione giovannea dell'Eucaristia. Come è noto, la tradizione del quarto Vangelo non tramanda il racconto istitutivo (1) ma ha e trasmette la tradizione dell'ultima cena di Gesù con i discepoli, con i discorsi d'addio del Maestro (Gv 13 17), e poi il grande discorso di Gesù in Gv 6, sul mangiare il suo corpo e bere il suo sangue.

Max Thurian ci aiuta a entrare nel rapporto Eucaristia e missione, scendendo in profondità: «Il Corpo eucaristico nutre il Corpo ecclesiale; la vita di Cristo vivifica la vita della Chiesa; l'Eucaristia raccoglie e struttura la comunità; il Pane di vita nutre i membri di Cristo per la loro sussistenza fino alla vita eterna e in vista della loro missione fino alle estremità del mondo» (2). Giovanni Paolo II aveva sorpreso un po' tutti quando all'inizio del suo pontificato, nel parlare ai giornalisti, aveva affermato: «Il Papa non può rimanere prigioniero del Vaticano. Io voglio andare da tutti ... dai nomadi delle steppe ai monaci e alle suore dei conventi ... voglio attraversare la soglia di ogni casa» (3). Questa tensione missionaria iniziale poteva sembrare un proposito poco realizzabile. Invece, dall'inizio del suo pontificato egli ha compiuto 146 visite pastorali in Italia e, come vescovo di Roma, ha visitato 317 delle attuali 333 parrocchie romane. I viaggi apostolici nel mondo — espressione della costante sollecitudine pastorale del 263° successore di Pietro per tutte le Chiese — sono stati ben 104. Il tutto animato e sorretto dal suo grande amore per l'Eucaristia, come leggiamo in quella sorta di testamento spirituale che è l'Ecclesia de Eucharistia. Ecco la missionarietà, le sue fonti e i suoi orizzonti.

Radice e finalità, forza e destinatari della missione di Gesù

Già nell'Antico Testamento la missione è uno degli strumenti di cui Dio si serve per dialogare con gli uomini. Perciò Dio sceglie e manda persone concrete (4). La finalità della missione è progressivamente compresa come indirizzata anzitutto a un miglioramento morale che parte dalla conversione (Ml 3,23s); a rassicurare il popolo dell'assistenza e presenza di Dio: «Io sono con voi» (Ag 1,12s). Tuttavia nell'Antico Testamento l'ambito della missione ha come destinatari il popolo ebraico. Manca perciò una chiara missione universale: quasi tutto ha inizio e conclusione nell'ambito della vita del popolo eletto. Perciò sono rari i casi di missione fuori dei confini di Israele, come quello del profeta Giona (1,2 e 3,2), che rifiuta la missione universale e si scandalizza delle nazioni; e poi quello del Servo del Signore (Is 41,4 5; 42,2; 49,6; 53,5), che rivela una missione nella quale «le estremità della terra insieme si avvicinano a Dio» (Is 41,5); raggiungendo «tutte le nazioni» (Is 42,1s) e portando «la salvezza [di Dio] fino all'estremità della terra» (Is 49,6). Annuncio misterioso dell'opera redentrice universale che poi opererà il Cristo crocifisso: «Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori…. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo guariti» (Is 53,4s).

La relazione con le missioni dell'Antico Testamento è affermata in modo chiaro da Gesù stesso nel parlare dell'invio di Giovanni il Battista (ultimo dei profeti): «Egli è colui del quale sta scritto: "Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te» (Mt 11,10). Il riferimento alla profezia di Malachia (3,1-23) chiude l'antica economia/alleanza e apre quella nuova, dove la missione per eccellenza è quella di Gesù. Da questa bisogna sempre partire, o meglio ripartire, per comprendere le altre e anche la nostra. Nella presentazione del mistero di Gesù, la riflessione neotestamentaria sulla missione — particolarmente adatta per spiegare la presenza di Gesù tra gli uomini e la ragione della sua attività — ha due livelli: quello dei vangeli Sinottici, a quello più complesso del quarto Vangelo.
Nei Sinottici Gesù si presenta agli uomini come l'inviato di Dio per eccellenza, lo stesso di cui parlava il profeta Isaia (Lc 4,17 21; cfr. Is 61,1s). In Marco, Matteo e Luca la missione non è la categoria fondamentale nel discorso di Gesù; ma anche i cenni occasionali sono assai istruttivi, perché consentono d'individuare i caratteri fondamentali di questa realtà. L'origine della missione di Gesù è chiaramente il Padre: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato» (Mt 10,40; cfr. Lc 10,16). L'andamento della frase è particolarmente significativo, correlando la missione di Gesù all'invio dei discepoli.5 Oggetto della missione è la proclamazione della buona novella (come dice il passo classico di Lc 4,18, in riferimento a Is 61,1s). Altrove si precisa che Gesù è venuto «a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10; sul rapporto Gesù peccatori, cfr. tutto Lc 15 ); «non a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,13), «non a essere servito, ma a servire, e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28); non a portare la pace, ma la guerra/una spada (Mt 10,34). La parabola dei vignaioli omicidi sottolinea la continuità della sua missione con quella dei profeti, ma connotando pure la differenza fondamentale dei due casi: dopo aver mandato i suoi servi il padre di famiglia manda infine il suo figlio (Mc 12,28 e par.).

Perciò accogliendolo o rigettandolo, si accoglie o si rigetta Colui che lo ha mandato. Altrove Gesù dirà: «Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome accoglie me; e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato» (Lc 9,48; 10,16 e par.), cioè il Padre stesso, che ha rimesso tutto nelle sue mani (Mt 11,27). Questa coscienza di una missione divina, che lascia intravedere i rapporti misteriosi del Figlio e del Padre, si manifesta in frasi caratteristiche: «Io sono stato mandato...», «Io sono venuto...», «il Figlio dell'Uomo è venuto...» , per annunziare il Vangelo (Mc 1,38 e par.), per compiere la Legge e i profeti (Mt 5,17 ), per «portare il fuoco sulla terra» (Lc 12,49). Tutti gli aspetti dell'opera redentrice compiuta da Gesù si ricollegano in tal modo alla missione che egli ha ricevuto dal Padre, dalla predicazione in Galilea al sacrificio della croce a Gerusalemme. Nel disegno del Padre questa missione provoca un fatto sorprendente: le persone, convertendosi, devono acquistare coscienza a loro volta della missione provvidenziale di Israele, di Gesù e della Chiesa, e dare testimonianza di Dio e del suo Regno davanti a tutte le nazioni.

I destinatari della missione di Gesù, cioè coloro in favore dei quali essa si realizza, sono anzitutto i figli d'Israele, ma la sua missione si rivolge a tutti. Lo chiarisce bene Pietro, in At 3,25s: «Voi siete i figli dei profeti e dell'alleanza che Dio stabilì con i vostri padri, quando disse ad Abramo: Nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra. Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l'ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità». Perciò la missione a Israele non è esclusiva, ma universale. Anzi colpisce come Gesù, a una donna Cananea che chiede aiuto, la guarigione della figlia (Mt 15,21 28), proprio nel contesto in cui annuncia di essere stato mandato solo alle «pecore perdute della casa d'Israele» (Mt 15,24), interviene anche in favore della madre Cananea e le guarisce la figlia. Anzi loda la fede di questa pagana: «Donna, davvero grande è la tua fede!» (Mt 15,28). La stessa tendenza di Gesù, nell'intervenire a favore di coloro che sono in difficoltà — «non i sani hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mc 2,17) — o dei peccatori, a preferenza dei giusti, prepara una comprensione della missione di Gesù che supera i confini materiali in cui si svolse. Di questo se ne avrà la proclamazione ancora più chiara in At 28,28, quando Paolo annuncia che «la salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani, ed essi l'ascoltano».

Riguardo il tempo della missione, è quello che Gesù trascorre sulla terra, ma Pietro conosce anche l'ultima missione: quella coincidente col ritorno di Cristo, una missione collegata con l'attuale impegno di chi ha udito il messaggio cristiano: «Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi quello che vi aveva destinato come Messia, cioè Gesù» (At 3,19s). Tutto ciò è la conferma di quanto Gesù stesso dice della sua ultima venuta: «Vedranno il Figlio dell'Uomo venire sulle nubi, con grande potenza e gloria ... dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo» (Mc 13,26s). Una missione che Gesù ribadisce subito dopo l'istituzione dell'Eucaristia, quando è portato davanti il Sinedrio : «Vedrete il Figlio dell'Uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62).

Il quarto Vangelo aiuta a capire ancora meglio la missione di Gesù, perché esso precisa sia il rapporto di Gesù con il Padre e lo Spirito, sia quello con gli uomini. Così, l’invio del Figlio da parte del Padre ritorna come un ritornello (per ben 40 volte) nei discorsi di Gesù (cfr. Gv 3,17; 10,36; 17,18 ecc. ). Perciò il desiderio di Gesù è «fare la volontà di Colui che lo ha mandato» (Gv 4,34); «compiere le opere di Colui che lo ha mandato» (Gv 9, 1), dire ciò che appreso da lui (8,26). Tra Gesù e il Padre c'è una tale unità di vita (Gv 6,57; 8,16.29) che l'atteggiamento assunto nei confronti di Gesù è una presa di posizione nei confronti di Dio stesso (Gv 5,23; 12,44s; 14,24; 15,21 24). Persino nella passione — compimento ultimo della sua opera — Gesù vede il suo ritorno a Colui che lo ha mandato: «Vado da Colui che mi ha mandato» (Gv,7,33; 16,5; cfr. 17,11). La fede che egli esige dagli uomini è una fede nella sua missione: «Credano che Tu mi hai mandato» (Gv 11,42; 17,8.21.23.25). Addirittura afferma che «questa è l'opera di Dio: credere in Colui che lo ha mandato», il che implica insieme la fede nel Figlio come Inviato (Gv 6,29) e la fede nel Padre che lo manda (Gv 5,24; 17,3). Attraverso la missione del Figlio in terra si è quindi rivelato agli uomini un aspetto essenziale del mistero intimo di Dio: «L'unico vero Dio» (Gv 17,3; cfr Dt 6,4), mandando il Figlio suo, si è fatto conoscere come Padre.

Di qui l'insistenza sull'origine della missione del Figlio dal Padre: «Disse loro Gesù: "Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato"» (Gv 8, 12). Tra il Padre che manda e il Figlio che è inviato, esiste la più intima unione. Nessun inviato precedente godette di questa familiarità col Padre, perché nessuno era come Gesù; e per questo nessuna missione è paragonabile alla sua. Sono forti le affermazioni di Gesù sull'unità che esiste tra Gesù ed il Padre («Io e il Padre siamo una cosa sola»: Gv 10,30). Nella mentalità ebraica solo l'agire rivela la persona e solo nell'agire di Gesù ci raggiunge con la sua salvezza. Tutto avviene nella grande economia della sua missione. Il Padre ha il potere esclusivo di vita e di morte, e tale potere trasmette al Figlio; il Padre solo può giudicare, ma giudica attraverso il Figlio, il quale giudica sulla linea della volontà del Padre (Gv 5,30 e tutto il contesto).

Le parole che io vi dico, non le dico da me, ma il Padre che è in me compie le sue opere. «Credetemi, chi non mi ama non osserva la mia parola; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14,10.20; e la sua [del Padre] «parola è verità» (Gv 17,17). Gesù cerca solo la gloria del Padre, da cui è venuto (Gv 7,18 28); e perciò chi onora il Figlio onora il Padre che lo invia (Gv 5,23); chi crede in Gesù, crede nel Padre (Gv 12,44); chi vede lui, vede il Padre, che lo ha mandato (Gv 12,45). Gli incarichi e i fini perseguiti nella missione sono rivelati in termini di annunzio, salvezza, redenzione, un vocabolario di vita per gli uomini: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già condannato, perché non ha creduto nel nome dell'Unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv, 3,17 19; cfr. 3,34). «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, cosi colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,57).

L'opera di Cristo è rivelazione dell'amore di Dio: «In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,9s). Questa missione è veramente fruttuosa per ogni singolo uomo, se si adempie una condizione, credere nell'inviato del Padre, aprendosi con/nella fede alla sua parola: «E anche il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me. Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto, e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato» (Gv 5,37s). Perciò Gesù dice: «Questa è l'opera di Dio: credere in Colui che egli ha mandato» (Gv 6,29); «questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato Gesù Cristo» (Gv 17,3). In Gv 8,42 si trovano cenni anche all'amore per lui: già la fede però è autentica soltanto se comprende l'amore: «Perché l'amore è da Dio ... chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,7s). Dicendo che Dio è amore Giovanni non intende dare una definizione astratta dell'essere divino, ma ricordare che Dio si è manifestato come un Dio che ama (1 Gv 4,9 11). Tuttavia questo amore, che si è manifestato nella storia della salvezza, svela insieme l'amore del Padre per il Figlio (Gv 3,35; 5,20; 10,17; 15,9; 17,26). Per Giovanni ogni amore viene da Dio (cfr. 1 Gv 4,7) e riflette tra noi la vita stessa delle Persone della Trinità! Proprio il quarto Vangelo ci aiuta a comprendere che il cuore del mistero di Gesù è la sua missione: in essa diventa comprensibile la sua discesa dal cielo e il suo pellegrinare sulla terra, per uno scopo ben preciso, fino al ritorno presso il Padre e al momento in cui di nuovo tornerà per il giudizio finale (Gv 5,26¬-29). Contemporaneamente essa è all'origine della salvezza dell'uomo, il luogo dove essa si realizza, il confronto a cui l'uomo viene sottoposto: egli sarà salvato o perduto, a seconda se l'accetta con fede amorosa o la esclude con ostinazione. La missione di Gesù però non termina con la sua morte, come nulla di Gesù termina nel mondo, perché tutto viene a continuare attraverso la missione dello Spirito e dei discepoli. Gesù però è e resta l'inviato per eccellenza (Gv 9,7 ), «l'apostolo» della nostra professione di fede (Eb 3,1).

Dagli apostoli ai nostri tempi: la missione degli inviati

La missione di Gesù si prolunga in quella dei suoi inviati, i Dodici, che per questo stesso motivo portano il nome di apostoli. Già durante la sua vita Gesù li manda «innanzi a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10,1) (6) a predicare il Vangelo e a guarire (Lc 9,1 6 e par.): il che costituisce l'oggetto della sua missione personale. Gesù afferma che i discepoli sono gli operai mandati dal padrone della messe (Mt 9,38 e par.; cfr Gv 4,38). Sono i servi mandati dal re per condurre gli invitati alle nozze del Figlio suo (Mt 22,3 e par.). Non devono farsi nessuna illusione sul destino che li attende: l’inviato non è maggiore di colui che lo manda: «Un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato» (Gv 13,16). «Un discepolo non è più grande del maestro, né un servo più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro» (Mt 10,24 25). Gesù avverte che come hanno trattato il padrone, così tratteranno i servi (Mt 10,24s). Perciò Gesù li manda «come agnelli in mezzo ai lupi» (Lc 10,3 e par.). Egli sa che la «generazione perversa» perseguiterà i suoi inviati e li metterà a morte. Ma ciò che sarà loro fatto, sarà fatto a lui stesso, e in definitiva al Padre, perché c'è uguaglianza tra inviato e colui che invia: «Chi ascolta voi, ascolta me, e chi disprezza voi, disprezza me, e chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato» (Lc 10,16). Su questa realtà è significativa la concordanza col quarto Vangelo: «Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie Colui che mi ha mandato» (Gv 13,20). Di fatto la missione degli apostoli si collega nel modo più stretto a quella di Gesù che da risorto appare agli apostoli e afferma: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20,21). Questa frase illumina il senso profondo dell'invio finale dei Dodici in occasione delle apparizioni del Risorto: «Andate...». Essi andranno, dunque, ad annunziare il Vangelo, a reclutare e formare discepoli di tutte le nazioni (Mt 18,19), a portare dovunque la loro testimonianza: « Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Così la missione del Figlio raggiungerà effettivamente tutti gli uomini, grazie alla missione dei suoi apostoli e della sua Chiesa. E lo Spirito Santo, per volere di Gesù, è il vero iniziatore della missione apostolica.

Il quarto Vangelo riporta nei discorsi d'addio una parola molto significativa per il nostro terra, perché Gesù rivela che il motivo della scelta dei discepoli è proprio la missione: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri» (Gv 15,16s). Gesù si circonda di discepoli, non tanto per avere una scuola come i maestri giudaici del suo tempo, quanto per avere dei trasmettitori del suo messaggio. Ma non dei ripetitori di una dottrina imparata a scuola, bensì dei testimoni di un incontro che ha trasformato la loro vita. A questo scopo egli dedica ai discepoli assai più tempo che alle folle, a li mette a parte del suo intimo con una familiarità e apertura non concessa ad altri. Inoltre, egli li introduce al loro compito di messaggeri con esperimenti previi.

Al di là della missione personale degli apostoli, tutta la Chiesa — di ogni tempo e luogo — nella sua funzione missionaria si ricollega alla missione del Figlio. Peraltro, nel compiere questa funzione missionaria gli apostoli e i predicatori del Vangelo di ogni tempo non sono lasciati alle loro sole forze, bensì svolgono il loro compito in virtù dello Spirito Santo. Ce lo fa capire Gesù stesso, evocando la sua futura venuta, nel discorso dopo la cena: «Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà in nome mio, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto» (Gv 1,26). Tale è di fatto il senso della Pentecoste, manifestazione iniziale di questa missione dello Spirito, che durerà finché durerà la Chiesa. È lo Spirito a fare dei Dodici i testimoni speciali di Gesù (cfr At 1,8). Lo Spirito è stato dato loro per svolgere il loro compito di inviati (Gv 20,21s). In lui ormai predicheranno il Vangelo (1 Pt 1,12) e così faranno i predicatori di tutti i tempi. Così la missione dello Spirito è inerente al mistero stesso della Chiesa quando annunzia la Parola, fonte della santificazione degli uomini.

L'Eucaristia o, meglio, l'esperienza che «porta a riconoscere il corpo del Signore» (1 Cor 11,29), è e rimane — nell'attesa del suo ritorno — non solo sorgente e verifica del nostro cammino personale di fede, di unità nell'amore e della comunione ecclesiale, ma anche sorgente a forza della nnssìone. Infatti, nella «Cena del Signore» (1 Cor 11,20) è presente il mistero di Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo ... questo è il mio sangue» (1 Cor 11,24s) e perciò Paolo raccomanda ai cristiani di Corinto — e a noi tutti, oggi come ieri — a celebrare degnamente quell'ineffabile mistero, proprio vivendone tutte le implicazioni, pena il «mangiare e bere la propria condanna» (1 Cor 11,28 30). Nella fattispecie, Paolo lamenta divisioni, tensioni e abusi vari intracomunitari (1 Cor 5; 8,1-11,1), e ben s'intuisce quanto ciò danneggi la testimomanza/missionarietà ad extra. D'altronde egli riconosce anche i molti doni che lo Spirito ha effuso su quella comunità, e «la testimonianza di Cristo» (1 Cor 1,5s). In breve, Paolo non nega i problemi, non finge che tutto vada bene, ma aiuta a guardare in faccia la realtà della propria vita, e incoraggia a convertirsi, per riprendere il cammino alla sequela di Cristo, incontrato e vissuto nell'Eucaristia. Fino a vivere le proprie mancanze come esperienze forti, che trasformano gli errori in lezioni di vita. Ritrovando così l'esperienza della «comunione con il corpo di Cristo» (1 Cor 10,16), per diventare «corpo di Cristo, e sue membra, ciascuno per la sua parte» (1 Cor 12,27).

Ripensare la missione: persone in cammino, a partire da Gesù

Analogamente a quelli di Corinto, anche per noi il mistero dell'Eucaristia significa ripensare tutto il nostro percorso di fede, compresi gli errori: da riscattare continuamente. L'immersione nel vivere quotidiano, nel complesso mondo post-moderno, rischia di farci pensare che il sacrificio eucaristico di Cristo sia staccato dalla nostra missione. Invece, proprio il mistero dell'Eucaristia genera da sempre persone capaci di contemplare e agire «da cristiani», alla sequela di Gesù in ogni condizione e situazione. Eucaristia e missione non sono due momenti o realtà della vita dei credenti, ma il binomio di uno stesso incontro. Ognuno di noi deve acquisire la coscienza della propria missione a partire da quella di Cristo, come hanno fatto gli apostoli prima di noi. Nella storia della Chiesa ci sono stati frangenti nei quali persone semplici, umili, furono rivoluzionarie: pensiamo a Francesco d'Assisi e a Madre Teresa di Calcutta, che hanno aiutato a riscoprire la missione cristiana nel mondo in modo semplice, ma assai efficace, radicata sempre in Gesù Eucaristia. Nessuno ci può sostituire in questo cammino di discernimento e d'impegno! C'è l'aiuto misterioso, ma reale, dello Spirito, la luce quotidiana della Parola, la preghiera di intercessione della Chiesa, la sofferenza dell'umanità che ci provoca, ma Dio — come sempre nella storia della salvezza — vuole che la strada la troviamo da noi: è la logica dall'incarnazione, da Abramo a Mosè, da Maria a Gesù, da Pietro a Paolo, fino a noi, oggi. Non bisogna cedere alla tentazione idolatrica che la nostra missione sia già chiara e definita.

Non bisogna entrare nella logica devastatrice — a livello interiore ed ecclesiale — di chiudere la nostra vita in un ruolo predefinito. Invece, bisogna metterci in discussione, aprire il cuore nella libertà e nell'amore, come i profeti, come Maria, come Pietro, come Paolo, come i santi di ogni tempo, per aprire una strada nel deserto. La nostra missione parte da una certezza indiscutibile e piena di speranza: si innesta in quella di Gesù, siamo mandati da lui, assistiti dallo Spirito, sotto gli occhi amorevoli del Padre.

L’attuale pontefice Benedetto XVI, da cardinale si chiedeva: «Come si presenterà la Chiesa nel duemila?», e con onestà rispondeva che «il teologo non è un indovino. E non è neppure un futurologo che faccia calcoli sul futuro partendo da fattori calcolabili del presente. Il suo mestiere lo tiene abbastanza lontano dal calcolo, [...] ma stabilisce ciò che è calcolabile e deve lasciare aperto ciò che calcolabile non è. Siccome la fede e la Chiesa scendono in quelle profondità dell'uomo, dalle quali sempre di nuovo proviene il creativamente nuovo, l'inatteso e il non pianificato, ne risulta che il loro futuro rimane nascosto anche nell'epoca della futurologia. Chi avrebbe potuto predire, alla morte di Pio XII, il Vaticano II o, ancor più, gli sviluppi del post-concilio?» (7). È la novità del mondo di Dio, di Colui che ha il potere di fare nuove tutte le cose, come ha affermato: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Io sono l'Alfa e l'Omega, il Principio e la Fine» (Ap 21,6).

Bisogna riscoprire la centralità di Cristo, della sua Parola e della sua presenza trasformante nell'Eucaristia, lasciandosi guidare dallo Spirito. Nell'Apocalisse di Giovanni è Cristo il centro di tutto, perché tutto, realtà terrena e celeste, umana e cosmica, ruota intorno a Lui, in particolare «coloro che lo seguono» (Ap 14,4). E la fine (il fine) del mondo non è più una catastrofe, l'attesa di un qualcosa di misterioso, ma corrisponde a una persona: Gesù Cristo. La fine (il télos) per i cristiani è già venuta, perché coincide con Gesù Cristo. È Lui «l'inizio» (e archè) da cui tutto scaturisce ed è Lui «la fine» (tó télos) a cui tende la sequela e tutta la storia umana (8).

Madre Teresa ci aiuta a prendere coscienza della presenza di Gesù nella storia: «Nel povero, nelle nostre sorelle, nei nostri fratelli, c'è Gesù. Quindi noi siamo alla sua presenza ventiquattro'ore su ventiquattro. Per questo siamo contemplativi nel cuore del mondo. Se solo sapessimo imparare a pregare il lavoro, facendolo con Gesù, per la gloria del suo nome. [...] Noi mettiamo le nostre mani, i nostri occhi e il nostro cuore a disposizione di Cristo perché egli agisca per mezzo nostro». E continua ricordando la strada necessaria per tutti, quella della conversione, perché «occorre avere un cuore pulito per vedere Gesù nella persona spiritualmente più povera. Per cui, più sarà sfigurata l'immagine di Dio in quella persona, più grandi saranno la nostra fede e la nostra devozione nel cercare il volto di Gesù e nel servirlo con amore» (9).

Concludiamo con la preghiera di un santo dei nostri giorni, Giacomo Alberione, perché riassume il percorso necessario che porta dall'esperienza personale ed ecclesiale dell'Eucaristia alla missione, vivendo il tutto con straordinaria unità: «Signore, dal tabernacolo tutto, senza il tabernacolo nulla. Adorarti, Gesù, è un incontro dell'anima e di tutto il nostro essere con te. E la creatura che si incontra con il Creatore. E il discepolo presso il divino Maestro. È l'infermo con il Medico delle anime. È il povero che ricorre al Ricco. E l'assestato che beve alla Fonte. È il debole che si presenta all'Onnipotente. È il tentato che cerca il Rifugio sicuro. È il cieco che cerca la Luce. È l'amico che va al vero Amico. E’ la pecorella smarrita cercata dal divino Pastore. E’ il cuore disorientato che trova la Via. È lo stolto che trova la Saggezza. È la Sposa che trova lo Sposo dell'anima. E’ il nulla che trova il Tutto» (10).  


Note

1 Questa omissione mostra, probabilmente, l'essere già in quella cornice evolutiva che protegge le parole della cena dal profanamento. Negli scritti del Nuovo Testamento si nota, su questo aspetto, una prudenza progressiva a parlare. Così Luca che, mentre nel Vangelo parla chiaramente, perché segue una sua fonte, negli Atti ne parla solo con termini sinonimi ed espressioni allusive («frazione del pane»: 2,42-46; 20,7-11). Anche la testimonianza della Didachè è significativa perché parla della cena al capitolo 14, ma l'Eucaristia non viene descritta: perciò non sappiamo nulla delle preghiere e delle parole che venivano usate.

2 M. Thurian, L'Eucaristia, a cura di L. Sapienza, LEV, Città del Vaticano 2004, 38.

3 Giovanni Paolo II, Parole da non dimenticare, a cura di O. Cavallo, Paoline, Milano 2005, 71.

4 L'idea della missione, nella rivelazione biblica, ha coordinate molto diverse rispetto alle altre religiosità: implica un appello positivo di Dio a persone che fanno l'esperienza di Lui. La missione si coglie bene nell'esperienza dei profeti, ma è già presente in Mosè. «Va', io ti mando» è al centro di ogni vocazione profetica (Es 3,10; Ger 1,7; Ez 2,35; 3,4s ecc.). La forza dell'inviato di Dio proviene dal fatto che è Dio stesso che manda, come Dio chiarisce a Gedeone: «Va' con questa tua forza a salva Israele … non ti mando forse io?» (Gdc 6,14).

5 Ritroviamo questo pensiero in modo ancora più esplicito nel quarto Vangelo: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi» (Gv 20,21).

6 Stupendo questo testo di Lc 10,1, perchè l'espressione tradotta con «innanzi a sé», in qreco letteralmente è «davanti al suo volto» (pro prosopou autou).

7 J. Ratzinger, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 1971, pp. 99 e 101.

8 Cristo stesso, nella parte finale del libro (Ap 22,13), si autopresenta con parole simboliche semplici e ricche: «lo sono l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, l'Inizio e la Fine». Egli usando il simbolismo alfabetico accosta la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco, Alfa ed Omega, e ne chiarisce, poi, il senso implicito con i correlativi: «Primo ed Ultimo» a «Inizio e Fine». È significativo notare come nell'Apocalisse queste formule di rivelazione si arricchiscano con l'affermazione: «lo sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente» (Ap 1,17). II fatto che Cristo sia «il Vivente» e « il Veniente» imprime la dinamicità propria e specifica della concezione cristiana della presenza di Dio e di Cristo nella storia. II sacrificio di Cristo, l'Eucaristia, è — in definitiva — il punto centrale e decisivo della storia nell'attesa della «fine», del suo ritorno finale.

9 Pensieri e parole di Teresa di Calcutta, Paoline, Milano 2003, 27s e 91.

10 Venite adoriamo, a cura di L. Guglielmoni F. Negri, Novastampa Bergamo 2003, 47s. Per un ritratto sintetico dell'Alberione cfr Civ. Catt. 2003, II 323 336.

Ref.: CISM – Religiosi in Italia, n. 5, settembre-ottobre 2005, pp. 215-226.

 

Last modified on Thursday, 05 February 2015 17:05
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