La Vita, Un Viaggio

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Il termine “viaggio” deriva dal provenzale viatge, che, a sua volta, è un’evoluzione spontanea del latino viaticum, sostantivo con cui nell’antica Roma si designava l’insieme di oggetti e provviste preparati in vista di un viaggio. Come è noto, la Chiesa ha adottato il termine viaticum per indicare il sacramento dell’Eucaristia che il cristiano riceve prima di morire, come “approvvigionamento” per affrontare l’ultimo viaggio. Di fatto, al di là del suo significato immediato – quello cioè di spostamento fisico da un luogo all’altro – il termine “viaggio”, soprattutto sul piano religioso e cristiano, è applicato simbolicamente alla vita che l’uomo conduce su questa terra, e al suo passaggio da quest’ultima all’aldilà. Lo testimoniano espressioni appartenenti al linguaggio di tutti i giorni come: “venire al mondo” e “andare all’altro mondo”, che alludono rispettivamente al nascere e al morire.

Ma la metafora spaziale, legata al viaggio, tocca anche lo scorrere della vita nella sua ordinarietà. Non diciamo forse che “siamo a un bivio” quando le circostanze ci impongono una scelta? O che “siamo finiti fuori strada” quando abbiamo preso una decisione sbagliata? O che “siamo in un vicolo cieco” quando ci troviamo in una situazione critica e non riusciamo ad intravedere una via d’uscita? I miei cinque lettori mi perdoneranno se, impossibilitato ad entrare nel dettaglio, mi limiterò ad una riflessione di carattere generale sul “viaggio” come simbolo dell’esistenza umana e del suo significato.

 *** La differenza fondamentale tra l’uomo e gli altri esseri viventi consiste nel fatto che l’essere umano – questa “canna pensante”, come la definiva il filosofo e matematico Blaise Pascal – ha la consapevolezza di compiere il suo “viaggio” terreno, e si pone delle domande sul suo senso primo ed ultimo, perché e da dove esso prenda avvio e dove esso conduca. Il riferimento a Dio, che proviene dal “valore aggiunto” della fede, costituisce la linea di demarcazione circa il significato da attribuire al viaggio di quaggiù. Chi non crede ed elimina Dio dall’orizzonte della propria vita, si affanna a fondarne qui e ora il senso su se stesso e sulle proprie capacità umane, ritenendo che la morte sia l’ineluttabile capolinea oltre il quale non vi sarebbe che il nulla. Il credente, al contrario, fonda già ora il senso del proprio vivere in Dio, e nutre la ferma speranza che la sua vita terrena non si arenerà nelle secche del nulla, ma si spalancherà su un “oltre” – che è Dio stesso – nel quale l’anelito infinito di amore, di luce e di pace troverà il suo approdo sicuro e definitivo. Vi è dunque una differenza notevole tra l’affrontare il viaggio della vita da soli oppure insieme con Dio! Significativa, in proposito, è la contrapposizione espressa da due figure che appartengono al pensiero dell’umanità: il mitologico Ulisse e il biblico Abramo. Ulisse, oltre che dell’astuzia, è anche simbolo dell’uomo che affronta l’ignoto con la sola forza dell’ingegno. Secondo Dante (cf. Inferno, canto XXVI,85-142), il suo peccato – il suo “folle volo” – consiste precisamente nell’aver a tal punto esaltato la propria intelligenza da aver dimenticato l’intrinseca limitatezza del suo stato creaturale, trasformando il desiderio positivo di seguire “virtute e conoscenza” in un’irragionevole negazione dell’esistenza di ogni limite. Trasposto su un piano religioso, la figura di Ulisse risulta in qualche modo speculare a quelle di Adamo ed Eva che, pure, credevano di poter trascendere la propria creaturalità e diventare come Dio!

 Al viaggio avventuroso dell’Ulisse omerico possiamo accostare anche quello anticonformistico narrato dallo scrittore statunitense Jack Kerouac nel suo romanzo On the road (Sulla strada). I protagonisti – tutti giovani della beat generation – viaggiano per il continente 2 nordamericano senza una meta fissa, sospinti unicamente da una concezione di vita opposta alla comune aspirazione ad una fissa dimora, ad un lavoro stabile e ad una gestione responsabile della propria esistenza. Essi si muovono alla continua ricerca di nuove esperienze, mai sazi di quello che hanno sperimentato e sempre affascinati dall’inedito. In una parola, la loro vita scorre senza una ragione precisa, sull’onda di quel credo che ritroviamo sulla bocca degli stessi protagonisti: “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”. “Dove andiamo?”. “Non lo so, ma dobbiamo andare”. Per converso, Abramo è il simbolo dell’uomo che – pur aperto a un futuro inedito – non fonda il proprio cammino esistenziale su se stesso, non si affida esclusivamente alle proprie capacità e al proprio ingegno, né si consegna al caso. Egli accoglie nel suo orizzonte vitale colui che lo ha creato, Dio; ne ricerca con passione la volontà e, scopertala, vi aderisce di buon grado, convinto che essa sia finalizzata al suo bene.

 In questa luce, Abramo affronta il viaggio della vita – nel suo caso anche in senso fisico-spaziale e non solo metaforico – insieme con Dio, fidandosi della sua Parola e lasciandosi da essa guidare: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”. (...) Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Gen 12,1.4a). Alla fine Ulisse e i suoi straniti epigoni di On the road compiono un percorso circolare: da se stessi a se stessi o, altrimenti detto, su se stessi. Vaga, sì, verso l’ignoto ma, dopo aver affrontato molte peripezie, fa ritorno al punto di partenza, alla loro rispettiva Itaca, e lì il cerchio si richiude attorno a loro. Abramo, invece, esce da se stesso per andare verso l’Altro. Come viandante – e simbolo del credente – egli si incammina verso un futuro ignoto, verso la vera e definitiva patria (figura di quella celeste), sapendo che non farà più ritorno nella sua terra di origine. Sorretto da una fede radicale, senza appigli concreti e senza una garanzia tangibile, si mette fiduciosamente in cammino verso la terra promessa – ossia verso la pienezza della vita – che è sì una terra ancora da scoprire, ma nello stesso tempo e in qualche modo già a lui familiare perché abitata dall’impronta di un Dio che cammina insieme con lui, al suo fianco. E questo gli basta per intravedere la luce nuova di cui risplende il futuro che gli viene incontro.

*** La consapevolezza che «il viaggio più serio è quello che porta all’incontro con Dio» (Don Tonino Bello), sospinge il credente a ricercare Dio nelle pieghe della propria esistenza, e a cogliere nella trama dei giorni che si susseguono i segni della sua presenza che salva. In questa sua diuturna ricerca, il cristiano è ugualmente consapevole che il suo cammino non procede alla cieca, poiché esso gli è stato tracciato dallo stesso Gesù, che ha detto: «Io sono la via» (Gv 14,6), e ancora: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Fattosi uomo e divenuto nostro fratello, amico e compagno di viaggio, Cristo è la “via” attraverso cui ci è possibile incontrare Dio. E questa via Gesù ce l’ha definitivamente mostrata sulla croce dove, in obbedienza alla volontà del Padre, si è offerto vittima di amore per noi. Con la sua morte e la sua risurrezione Egli ci ha, infatti, riaperto il cammino che riconduce alla comunione con Dio. *** Sulla scia di Gesù, anche il viaggio esistenziale del cristiano è chiamato ad essere un’oblazione di amore a Dio e al prossimo. Scrive sant’Agostino: “Quello che fa avanzare sulla via è l’amore di Dio e del prossimo. Chi ama corre, e la corsa è tanto più alacre quanto più è profondo l’amore. A un amore debole corrisponde un cammino lento, e se addirittura manca l’amore, ecco che uno si arresta sulla via”. E ancora: “Amando il prossimo e interessandoti di lui, tu camminerai. E quale cammino farai, se non quello che conduce al 3 Signore Iddio, a colui che dobbiamo amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente? Al Signore non siamo ancora arrivati, ma il prossimo lo abbiamo sempre con noi. Porta dunque colui assieme al quale cammini, per giungere a Colui con il quale desideri rimanere per sempre”. La via indicataci da Gesù è dunque quella dell’amore a Dio e al prossimo. Non c’è l’uno senza l’altro, e l’uno illumina l’altro. «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,20-21). Per questo motivo, l’espressione di Don Tonino Bello sopra riportata, va completata con quest’altra: “Il più bel viaggio che facciamo quaggiù è quello che si compie verso l’altro” (Paul Maurand).

*** Ma per amare Dio e il prossimo come ci ha insegnato Gesù occorre intraprendere un altro viaggio: quello che conduce all’interno di noi stessi, verso l’uomo «nascosto nel profondo del cuore» (1Pt 3,4). Un viaggio, questo, il cui esito non è scontato. Può, infatti, succedere che lo si percorra in maniera maldestra, come quando, ad esempio, ci lasciamo prendere dalla paura di incontrare il nostro vero “io”, denudato di quegli illusori make ups a cui spesso lo sottoponiamo per esibire agli altri un’immagine accettabile di noi stessi, magari omologata alla moda del momento! Al contrario, il credente che accetta di compiere umilmente il suo viaggio interiore, sa quanto sia importante essere se stessi e riconoscere che anche le difficoltà, le lentezze, i peccati e i lati oscuri, che si celano nel doppiofondo poco frequentato della propria anima, fanno parte del cammino della vita. Sa che anch’essi vanno identificati senza timore e posti fiduciosamente sotto lo sguardo del Signore, che non è venuto per condannarci, ma per perdonarci e guarirci dalle nostre infermità. Solo così, imparando a vivere nella verità di noi stessi, e affidandoci alla misericordia divina, sarà possibile rendere più autentico il nostro amore per Dio e per il prossimo. *** Accanto al viaggio che ci porta nell’intimo del nostro cuore e della nostra coscienza, vi sono poi quei viaggi che appartengono all’orizzonte della nostra quotidianità: sono i volti delle persone di casa e dell’ambiente nel quale viviamo, lavoriamo e ci muoviamo, volti sui quali leggiamo o intuiamo gioie o fatiche, speranze o preoccupazioni, traguardi raggiunti o delusioni cocenti; è la comunità ecclesiale e civile nella quale siamo inseriti e che ha bisogno del nostro fattivo contributo affinché la pace, la concordia e la giustizia abbiano la meglio sui meschini interessi personali; è la creato che ci circonda, con le sue stagioni che si susseguono, il cielo mai uguale a se stesso, la natura che si riveste di nuovi colori, l’odore della pioggia e il calore e la luce abbacinante del sole... Si tratta di viaggi – e accanto a quelli qui elencati ve ne sono tanti altri che ciascuno può aggiungere a suo piacimento – nei quali, ogni giorno daccapo, ci è data la possibilità di «vedere di nuovo quel che si è già visto. (…) Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre» (José Saramago). In altre parole, abbiamo bisogno di riappropriarci di ogni frammento che compone la nostra quotidianità e che – se contemplato con occhi nuovi – ha sempre qualcosa di diverso da dire al nostro cuore, alla nostra mente, alla nostra vita.

Soprattutto, si tratta di vigilare su quelle parole e su quei gesti che mediano le nostre relazioni con gli altri: un buongiorno, un sorriso, una stretta di mano, una lacrima raccolta, un gesto di solidarietà, un grazie, una preghiera... Gesti e parole che ogni giorno devono essere salvaguardati e rinverditi per impedire che diventino preda della routine e della superficialità che tutto appiattisce e rende incolore. Insomma, il nostro viaggio terreno ha bisogno di essere quotidianamente approvvigionato tramite il contatto con Dio, con il nostro vero “io”, con gli altri, con la realtà che ci circonda. Solo in tal modo ci sarà possibile contrastare le “passioni tristi” che incombono sulla nostra 4 epoca e delle quali è vacua espressione l’imperante cultura dell’apparenza; passioni tristi che ci immiseriscono e ci svuotano dal di dentro, generando smarrimento, angoscia e disperazione; passioni tristi che ci impediscono di accedere alla gioiosa libertà del Cristo, senso primo e ultimo del nostro cammino di quaggiù.

 

Fonte http://www.abbazialascala.it/

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