La Casa Madre dei Missionari della Consolata a Torino all’inizio del Novecento

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La nuova Casa Madre (1905 - 1909)

«Via, via, quella pietra rotonda; chi mai ha visto usare tali pietre nelle costruzioni? Quei mattoni sono troppo asciutti, via, portate mattoni che rifiutino l’acqua. Sabbia di Dora negli intonaci! Neppure per sogno: sabbia di Stura voglio, e non questa che farà uscire delle macchiaccie quando si passerà alla tinteggiatura».

Chi parla così è, secondo padre Giuseppe Gallea, il canonico Giacomo Camisassa, che «quando viene a visitare i lavori della costruzione della nuova Casa Madre (e non c’è verso che manchi un solo giorno) va a scovare ad una ad una tutte le marachelle commesse dai mastri muratori nella giornata. Tutto sa, di tutto se ne intende, come non avesse fatto altro in vita sua. Con lui nessuno può dire di «lasciar fare a chi è del mestiere» perché «il canonico il mestiere lo sa più di noi[1]».

Questa vivace pagina di padre Gallea interpreta molto bene le intenzioni del Camisassa, e naturalmente dell’Allamano. Nell’impegnarsi a costruire la nuova Casa Madre il Camisassa mirava a fare ogni cosa bene, perché l’Allamano ripeteva in continuazione che il bene va fatto bene, che la nuova Casa Madre va costruita come si deve; al punto che, «osservando che il fabbricato già costrutto sarà adibito ad uso di collegio per l’istruzione di giovani, ai quali è necessario impartire l’insegnamento delle scienze naturali, astronomia e meteologia ecc., e che a tal scopo è non solo utile ma indispensabile una specola per le osservazioni», l’Allamano e il Camisassa fecero domanda al sindaco di Torino, senatore conte Secondo Frola, di costruirla «sulla sommità centrale dell’edificio in conformità del disegno allegato[2]».

Anche una specola, quindi, per la preparazione scientifica degli allievi che sarebbero stati destinati alla vita missionaria, e non soltanto, come voleva il Camisassa, la buona sabbia della Stura di Lanzo, le otto colonne di granito rosso di Baveno, acquistate al prezzo di lire 175 al metro cubo, e la rinomata pietra di Luserna per marciapiedi e zoccolo. La casa venne provvista di acqua potabile in ragione di 300 metri cubi al semestre[3]. Pertanto, la Casa Madre doveva essere ben costruita e risultare utile e rispondente a quanto l’Allamano e il Camisassa si prefiggevano; ma si era anche attenti a non eccedere nei costi. Un precedente progetto iniziale, attribuito all’ingegnere Antonio Vandone di Cortemiglia, era stato all’atto pratico scartato, forse «perché troppo elaborato e perciò troppo costoso[4]».

L’atto di acquisto del terreno per la nuova Casa Madre, a rogito del notaio Stefano Ruella, è del 10 novembre 1905. All’atto, oltre al proprietario del terreno, Leone Sacerdote del fu cavalier Emanuel, nato in Chieri, che rappresentava la Ditta Sacerdote cavalier Emanuel del fu Salvador, erano naturalmente presenti anche i compratori o «acquisitori», ossia il canonico Giuseppe Allamano, il canonico Giacomo Camisassa e il teologo Filippo Perlo di Caramagna Piemonte. Leone, il proprietario, era contitolare della società immobiliare, ossia della Ditta Sacerdote, ed era ebreo o israelita. Il terreno faceva parte della Cascina Porporata, aveva una superficie di 11 mila e 749 metri quadrati ed era stato comperato per la somma di lire 72 mila. Posto ai margini della Torino di allora, fuori della Barriera di Francia, il terreno era «campivo», cioè coltivabile. Come coerenze aveva la città per la parte di strada di Circonvallazione, l’asse della via Coazze, l’asse di via Bruino e l’asse del prolungamento di corso Oporto, che nell’interno della città prendeva in parte il nome di via Cavalli[5], il generale d’artiglieria Giovanni Carlo Cavalli (1808-1879), che aveva partecipato alle guerre del Risorgimento, distinguendosi per bravura e coraggio, e che in seguito fu nominato comandante dell’Accademia militare di Torino e senatore del Regno. La domanda di licenza edilizia per la nuova costruzione fu inoltrata dall’Allamano alla Giunta Municipale in data 17 aprile 1906 e, veduti i vigenti regolamenti edilizi, di polizia e di igiene, venne approvata il 27 agosto dello stesso anno[6].

La prima mappa che raffigura la Casa Madre ne indica l’esistenza in Barriera di Francia, presso il piazzale dove si trovava uno degli uffici per il pagamento del dazio, l’attuale piazza Bernini. Essa sorgeva quindi ai margini della città, in via della Circonvallazione, ai numeri 514-516, segno che quella via periferica si prolungava oltre piazza Bernini, era cioè più lunga di quanto non sia l’attuale corso Ferrucci. La casa era inoltre situata tra le vie Bruino e Coazze, due località della Val Sangone a occidente di Torino.

In seguito, il 22 ottobre 1915, nel clima dell’esaltazione patriottica che precedette la prima guerra mondiale, via della Circonvallazione fu dedicata a Francesco Ferrucci (1489-1530), difensore della Repubblica di Firenze contro le truppe dell’imperatore Carlo V, che rimasto ferito nella battaglia di Gavinana (3 agosto 1530), venne pugnalato alla gola dal capitano imperiale Fabrizio Maramaldo, al quale, morendo, avrebbe detto: «Tu dai a un uomo morto». Per questo fatto fu considerato un eroe della patria, che difese fino alla morte. Anche corso Oporto, la via a sud dell’isolato che a inizio secolo si prolungava fino all’odierno corso Castelfidardo, troppo carloalbertino nel nome, perché ricordava la sconfitta di Carlo Alberto a Novara e il suo volontario esilio a Oporto in Portogallo, per delibera del Consiglio municipale del 3 luglio 1912 assunse il nome di via Cialdini, il generale Enrico Cialdini, che partecipò alla guerra di Crimea del 1855 e a quelle del Risorgimento, fu poi eletto deputato del Parlamento, dove ebbe un aspro contrasto con Garibaldi, e venne in seguito nominato ambasciatore a Madrid e a Parigi.

In questo quadrilatero storico-risorgimentale, a sud e a ridosso dell’antica strada di Francia, era appunto situata la Casa Madre. «Fu scelta la zona del Corso Francia – scrive padre Gallea – perché più salubre, in località subito fuori della cinta daziaria della città, servita da una delle poche linee tranviarie di allora, che aveva il vantaggio di avere fermate prossime alla Consolata (il Santuario) ed al costruendo fabbricato… Non fu prevista allora la eventualità di costruire sullo stesso terreno la casa delle Suore Missionarie: quindi il fabbricato coi relativi cortili occupò il centro dell’area, lasciando alle due estremità, a nord e a sud, due appezzamenti di circa 2000 mq ciascuno, che per alcuni anni furono adibiti a colture orto-frutticole[7]».

L’acquisto del terreno per la costruzione della casa era costato, sempre a dire di padre Gallea, circa 100.000 lire e la costruzione circa 400.000: pertanto complessivamente 500.000 lire[8]. Stando però a quanto ebbe a scrivere l’ingegnere Enrico Buffoni, al quale si deve il disegno definitivo della casa, il costo dell’edificio superava le 350 mila lire. Sulla base di questa cifra egli pretendeva una percentuale del tre per cento. Ma, per deferenza verso l’Allamano e il Camisassa, aveva limitato la sua richiesta al tre per cento su 250 mila lire, ossia 7.500 lire, poi ridotte a 6.000, che tuttavia il Camisassa contestò perché la cifra gli pareva eccessiva[9]. Finiti i lavori della costruzione, alla Ditta Faja restava ancora da versare lire 17.678,38, come l’Allamano scriveva nel marzo del 1911 al Camisassa, che si trovava in Kenya[10].

Non è per nulla facile farsi un’idea del capitale impiegato nell’acquistare il terreno e nella costruzione della casa. I valori in lire di allora non sono affatto quelli di oggi, che, come tutti sappiamo, dopo tante inflazioni e svalutazioni, sono lievitati quasi all’infinito. Sulla base del costo della vita di questi ultimi anni, ossia secondo le cifre fornite dall’indice 2006 FOI (ISTAT), le 72 mila lire, con cui nel 1905 fu comperato il terreno, corrispondono a 509 milioni e 786.604 lire, pari a euro 262.973,67; le 161 lire spettanti al notaio a lire 1 milione 139.939 e a euro 566,42; le 350 mila, ma certamente di più, quanto cioè era costata la costruzione, sono invece pari a lire 2 miliardi 619 milioni 736 mila 715 e a euro 1 milione 350 mila 350,57; infine, oltre ad altre spese, la somma di lire 17.678,38, che ancora nel 1911 doveva essere versata alla Ditta Faja, corrisponde oggi a lire 125 milioni 166 mila 772 e a euro 64 mila 643,24.

Complessivamente euro 1 milione 677 mila 533,70 cifra di tutto rispetto e di un certo rilievo, che forse però allora, nel 1909, mettevano meno paura di quanto oggi, rivalutate secondo l’indice ISTAT, suonano alle nostre orecchie. Cifra che tuttavia sul mercato degli immobili potrebbe ulteriormente salire, se si considera la posizione topografica della casa, situata lungo un corso cittadino di grande scorrimento, che unisce i corsi Francia e Vittorio Emanuele II, e del fatto che dista poco più di un chilometro dalla cosiddetta spina dorsale, la grande arteria stradale che scorre da nord a sud della città, e dalla nuova stazione di Porta Susa e, ancora, del fatto che è vicinissima al nuovo Palazzo di Giustizia, alla metropolitana e a bus e tram che la collegano direttamente con il centro-città e i diversi quartieri periferici.

 Torino fra Otto e Novecento

A questo punto è però inevitabile e importante chiederci in quale contesto si trovasse la nuova Casa Madre quando fu costruita, quale la cornice storica, quali i fermenti socio-culturali della Torino fra Otto e Novecento, quali le difficoltà che un tale progetto avrebbe potuto incontrare e, non ultimo, come trovare il denaro necessario per attuarlo? Non solo l’Allamano e il Camisassa si dovevano porre simili domande, ma la stessa città di Torino poteva avere e creare difficoltà a concedere i necessari permessi per la costruzione.

Una grave crisi finanziaria negli anni 1880 e 1890 aveva colpito la città in seguito al fallimento di alcune banche per la sfrenata speculazione edilizia, che aveva coinvolto le città di Roma e di Napoli. I dissesti e i fallimenti arrestarono per alcuni anni ogni iniziativa, ma quando la bufera passò, la città riprese la sua espansione industriale ed edilizia cominciata alcuni anni prima lungo la grande strada di Francia, corso Siccardi e via Nizza.

Una mappa del territorio di Torino, pubblicata dallo Stato Maggiore Sardo nel 1854, descrive buona parte del territorio periferico della città caratterizzata da ampi spazi coltivi, specialmente la zona situata a ovest di Porta Susa, in direzione appunto della valle di Susa, lungo l’attuale corso Francia, disseminata di cascinali che normalmente portavano il nome del loro proprietario[11]. Questo vasto territorio, quasi del tutto disabitato, fra Otto e Novecento offrì la possibilità alla città di allargare i suoi confini tradizionali per la creazione di fabbriche e industrie e per lo spirito industriale e commerciale che animava i suoi abitanti, per la conseguente immigrazione dalla campagna alla città e per il notevole aumento della popolazione.

L’aumento della popolazione, richiamata dalle industrie che producevano notevole ricchezza, aveva ben presto fatto sentire la necessità di nuove costruzioni edilizie. Ai margini della città sorgevano così nuovi borghi, quali per esempio i borghi di Vanchiglia e di Dora, quelli di Borgo Vittoria e di Borgo San Paolo, borghi che a partire dalla metà dell’Ottocento s’ingrandirono sempre più in modo disorganico e a volte caotico. Edifici regolari e grandiosi sorgevano invece ai due lati di piazza Carlo Felice e della Stazione di Porta Nuova, lungo corso Vittorio Emanuele e corso Vinzaglio, ricche di portici e di villini di vario disegno e costruzione. La città andava così assumendo l’aspetto di una grande metropoli con corsi e strade diritte e a scacchiera, che s’incrociavano ad angolo retto e si prolungavano nelle zone periferiche.

Torino fu tra le poche città italiane che già alla fine dell’Ottocento vantavano industrie metallurgiche e meccaniche. Queste industrie, che nel 1890 occupavano una maestranza di quasi 9.000 operai, comprese quelle militari e ferroviarie, nel 1910 davano lavoro a circa 30.000 operai. Su tutte primeggiavano le fabbriche automobilistiche: la Lancia, la Itala, la Spa, la Rapid e naturalmente la Fiat, fondata nel giugno 1899 con un modesto capitale di 800.000 lire e una cinquantina di operai, ma che già una ventina d’anni dopo contava un capitale di 100 milioni di lire interamente versato e una maestranza di 38 mila persone.

L’immigrazione venuta da fuori e l’inevitabile allargamento della città influì enormemente sull’industria delle costruzioni. Fuori della cinta daziaria, che correva attorno alla città barocca per un perimetro di 32 chilometri, approvata nel 1853 ed eliminata soltanto nel 1908, si moltiplicarono i borghi operai. La popolazione di questi borghi cresceva più di quella urbana. Nel 1901 l’85 per cento dei 320.000 abitanti di Torino si collocava entro la cinta daziaria; nel 1911, dieci anni dopo, tale cifra era scesa al 72 per cento su 428.000 abitanti. Questo andamento demografico fu stimolato, specialmente nelle zone di insediamenti industriali, dall’immigrazione, che ancora negli anni 1911-12, poco prima della guerra mondiale, proveniva in prevalenza dal Piemonte e soprattutto dalla provincia di Torino.

Il rapido aumento della popolazione avvenne specialmente nella parte occidentale del territorio torinese, lungo l’asse di corso Francia (la zona che maggiormente ci interessa), dove in pochi anni, nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, si moltiplicarono gli insediamenti operai. Lo documenta l’apertura al culto di nuove chiese parrocchiali. In Borgo San Donato, nel luogo dove fin dal medioevo passava una strada che da Torino portava alla Pellerina e a Collegno, fu costruita la chiesa dell’Immacolata Concezione, terminata nel 1884. Non molto dopo, in Borgo Vittoria si iniziò la costruzione della chiesa parrocchiale della Madonna della Salute, inaugurata nel 1890, sul luogo dove nel 1706 si svolse l’ultimo episodio della battaglia di Torino contro i francesi. Quell’area, attraversata dal canale Geronda, nel 1700 era pressoché disabitata. In seguito, ricoperto il canale, cominciarono a delinearsi prospettive di sviluppo industriale con conseguente immigrazione dalle campagne e la necessità di abitazioni.

Seguirono, più vicine alla nostra Casa Madre, le chiese parrocchiali di Sant’Alfonso nella borgata Campidoglio (1893), quella dei Santi Angeli nel quartiere dell’ex-Piazza d’Armi (1884-88), quella di San Bernardino di Siena in Borgo San Paolo (1906-1915). Appartenevano invece a congregazioni religiose le chiese di San Pellegrino Laziosi, dei Santi Bernardo e Brigida di Lucento, di Madonna di Campagna e, più tardi, nel quartiere Cit Turin, tra il 1905 e il 1913, quella di Gesù Nazareno, consacrata nel 1930[12].

Andando ad abitare fuori dalla cinta daziaria, gli operai cercavano prezzi più convenienti dei generi di consumo sottoposti a imposta, abitazioni ad affitto inferiore e possibilmente vicine al posto di lavoro. Succedeva però che queste borgate a popolazione operaia, separate dal centro e fra loro da ampie distese campestri, restavano isolate fisicamente e socialmente. Nasceva in questo modo una nuova solidarietà, che aveva un forte riferimento nell’appartenenza territoriale e nella prossimità fisica tra le famiglie.

La crescita dei borghi operai non comportò un generale miglioramento delle condizioni abitative. È stato osservato che, sebbene l’industria edilizia avesse preso un grande impulso a partire dagli anni 1898-99, la costruzione di nuove case ebbe luogo in misura maggiore fuori della cinta daziaria, cosicché i lavoratori, che andavano in gran numero a stabilirsi, si trovavano a vivere in uno stato di eccessivo affollamento e privi di ogni controllo igienico. In effetti nel 1901 poco meno di 12.000 delle famiglie censite nella zona suburbana, circa 5.000 occupavano un solo vano in case per lo più di ridotte dimensioni, con fabbriche mescolate alle case oppure isolate. Il tutto circondato da campi e prati. Poche le strade, polverose e fangose. Le reti dell’acqua e del gas limitate alle strade di grande comunicazione. Assenti i servizi pubblici, come tram, fogne, bagni, lavatoi pubblici e uffici postali; scarsi e poco forniti i negozi[13].

Tuttavia, animata dallo spirito industriale, la città, negli ultimi decenni dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, visse un periodo economico e culturale molto vivace e ricco. Migliorarono le condizioni della viabilità e dell’illuminazione pubblica e privata. La città fu dotata di acqua potabile e di fognature. Le comunicazioni dirette verso la Francia, con il completamento nel 1871 del Traforo del Fréjus, assicurarono a Torino un provvidenziale sbocco per i suoi prodotti industriali e agroalimentari. Furono costruiti mercati e scuole, educandati e opere di beneficenza, stabilimenti tipografici, come l’Unione Tipografica Torinese e la Paravia, e a Regio Parco la Manifattura Tabacchi, che impiegava 1434 operai. Fiorirono istituti e collegi privati, musei, teatri, tra cui il Regio, il primo dei teatri torinesi, associazioni e fondazioni culturali e artistiche, come la Società Storica Subalpina e l’Accademia delle Belle Arti.

Di fronte allo sviluppo tumultuoso e pressoché improvviso della città, nel 1860, il Consiglio comunale nominava una «Commissione per determinare i nomi da imporsi alle nuove vie», come cioè denominare le vie create dall’espandersi della città. In quell’anno infatti, il 1860, compariva un documento comunale contenente la «Nuova denominazione delle vie e nuova numerazione delle porte», che da allora vennero numerate a partire da Piazza Castello, i numeri pari a destra, quelli dispari a sinistra. Il rinnovamento topografico di metà Ottocento venne considerato un momento celebrativo necessario di una città che aveva avuto il ruolo di leader dell’unità nazionale. Luigi Cibrario nella sua Storia di Torino scriveva che queste vie «segneranno un’epoca nuova per la nostra patria[14]».

Come conseguenza dello sviluppo della città, nel 1905 gli amministratori torinesi poterono approvare un’operazione finanziaria che in un volume, edito nel 1909 sulla vita amministrativa del Comune, venne riassunta in questi termini: «Nel periodo 1893 - 1904 l’incremento territoriale e demografico della città seguì di pari passo lo sviluppo delle opere pubbliche comunali: la popolazione si accrebbe di circa 50.000 abitanti, il reddito imponibile sui fabbricati crebbe da lire 28.360.000 a 31.000.000». Tutto questo programma si poté compiere senza aumentare di un centesimo la sovrimposta comunale, a significare che il Comune si reggeva su buone basi, nonostante l’aumento della popolazione e i problemi che ne derivavano[15].

Tanta operosità avveniva all’interno di un clima socio-politico che non era certo dei più favorevoli alla costruzione di una nuova casa religiosa tra le tante già esistenti in Torino e dintorni. La crisi del cosiddetto conciliatorismo a seguito del Sillabo del 1864, in cui Pio IX condannava i «principali errori dell’età nostra», e l’affermarsi di un partito cattolico intransigente, rappresentato a Torino dall’«Unità Cattolica» di don Giacomo Margotti, avevano provocato una forte reazione anticlericale sia sul piano legislativo sia su quello della stampa e dei giornali, in particolare gli articoli della «Gazzetta del Popolo», diretta da Giovanni Battista Bottero. Questo anticlericalismo di matrice risorgimentale, che erodeva la fede cristiana e il prestigio della Chiesa, si sarebbe ben presto sposato con l’anticlericalismo di stampo socialista, che in Torino ebbe come interprete, dal 1892 al 1918, il settimanale «Grido del Popolo». Ferveva anche l’attività delle logge massoniche, sostenute da eminenti personaggi della politica e della cultura, e si ventilava il pericolo di una legge governativa di soppressione degli ordini religiosi con relativo incameramento dei beni.

Torino fu allora definita «una grande caserma» per la sua disciplina ordinata, per le sue abitudini decorose, per la presenza di molti militari, ma anche per il suo lavoro proficuo e rimunerativo, che in quegli anni le assicurarono una non comune prosperità. Ne sono una prova, tra le altre, le molteplici Esposizioni, come la Mostra Torinese del 1881, quella memorabile del 1884, pensata come festa dell’industria e dell’arte e visitata da poco meno di tre milioni di persone. Manifestazioni dell’operosità torinese furono pure l’Esposizione operaia italiana del 1890 e quella di Architettura del 1892, alle quali seguì nel 1898 un’altra Esposizione per il cinquantenario dello Statuto di Carlo Alberto, che comprendeva una mostra di Arte Sacra e un padiglione delle Missioni Cattoliche. Un’altra Esposizione mondiale d’arte decorativa fu attuata nel 1902 con un concorso di un milione e mezzo di visitatori. Infine nel 1911 si tenne l’Esposizione mondiale dell’industria e dell’arte per il primo cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia e di Roma capitale.

Di tutto questo Torino andava orgogliosa. Con buona retorica lo scrittore Antonio Fogazzaro così la salutava: «Ritrova in te, vecchia Torino, il vinto spirito del tuo tempo migliore; infondilo a questa Italia manifatturiera, commerciante, artista, oziosa, che viene a te per aver lucri, plausi, onori, piaceri. Le ricorda l’austero tuo costume antico, il viver civile retto come le tue vie, il dovere compiuto da’ tuoi in ogni ufficio e sul campo, senza vanto né orgoglio». Retorica sì, tipica del tempo, ma rivelatrice di una Torino operosa, alla quale re Umberto I il 10 maggio 1898 assegnava la medaglia d’oro «per commemorare le benemerenze civili e politiche della Cittadinanza» e come «atto di riconoscenza e di amore per parte di tutti gli italiani[16]».

Inaugurazione della casa (9 ottobre 1909)

In questo contesto socio-culturale e politico fu costruita la nuova Casa Madre dei Missionari della Consolata. Non era un’impresa facile per i risvolti economici che comportava, ma anche e soprattutto per quelli socio-politici e culturali di inizio Novecento. La casa, progettata fin dal 1905, fu inaugurata nell’ottobre 1909. Il possesso della prima parte dello stabile avvenne il 9 ottobre. Era un sabato dedicato ai santi Dionigi e compagni, martirizzati per la fede ad Alessandria sotto gli imperatori Decio e Valeriano, e sembravano di buon auspicio per un Istituto che era ai suoi primi passi, dopo appena otto anni dalla sua fondazione nel 1901, animato da uno spirito missionario giovanile, pieno di zelo e coraggio.

Ne dava notizia il mensile «La Consolata» dell’ottobre 1909 con una descrizione minuziosa della Casa: «Erigendo il nuovo edificio – costrutto con lodevole impegno dalla rinomata Ditta Fratelli Faja, su disegno e direzione del valente ingegnere cav. E. Buffoni – si è tenuto conto dei diversi scopi ai quali esso doveva servire. Il fabbricato si è voluto anzitutto grandioso nella severa e semplice eleganza del suo complessivo disegno, ove nessun spazio è rubato da inutili ornamentazioni».

L’articolo continuava precisando la forma e la disposizione della nuova Casa: «La lunghezza della fronte di facciata, di ben 90 metri, volta a levante, è opportunamente spezzata da tre corpi avanzati. I piani sono 4, oltre il sotterraneo sopraelevato di metri 1,50 e reso sanissimo da una doppia intercapedine, conforme alle migliori regole dell’edilizia moderna… L’aria e la luce regnano dappertutto sovrane, penetrando per le ampie finestre nelle spaziose camerate, nelle sale destinate alle classi, ecc. e l’ufficio delle numerosissime finestre è ancor completato da un impianto generale di ventilatori che, insieme con quello dei caloriferi, specialmente nell’inverno, permetterà di mantenere sempre pura l’aria degli ambienti. L’acqua potabile circola per ogni parte della casa, dai sottotetti alle cucine sotterranee, alla lavanderia ed ai completi impianti di bagni e doccie[17]».

Una descrizione così minuziosa e precisa, lo stesso stile chiaro ed elegante, non potevano essere che del canonico Camisassa, che aveva presieduto a tutta la costruzione. Chi infatti vi aveva dedicato anima e corpo, era stato proprio il canonico Giacomo Camisassa. Fu lui, scrive padre Lorenzo Sales, «a studiare il disegno della nuova sede e curarne l’esecuzione. Ogni giorno, per più anni, fu visto andare e venire dal santuario della Consolata alla fabbrica in costruzione, salir sui ponti, rendersi conto del progresso dei lavori, esaminare il materiale impiegato, interessarsi di tutto: della tubatura dell’acqua come della conduttura del gas, del telaio d’una finestra come d’una serratura ad una porta[18]»; di tutto al punto da non essere ben visto dagli operai e dalle maestranze.

Ne era perciò risultato un edificio solido e razionale, curato da maestranze affezionate all’Istituto. Scrivendo al Camisassa, Giovanni Caneparo, falegname che abitava a Torino in Borgo San Donato, lo assicurava che intendeva «fare un lavoro, come se la casa fosse mia e voglio che da qui a 100 anni dicano ancora quel falegname che ha fatto queste finestre lavorava in coscienza[19]».

Il canonico Camisassa voleva gente di tal fatta all’opera di costruzione della Casa Madre. Nei suoi intendimenti doveva essere un edificio semplice nelle forme, ma solido e luminoso, ben arredato e ben distribuito nei vari piani e nelle diverse stanze. Così terminava il suo articolo: «Tutto il caseggiato è diviso in tre sezioni assolutamente separate, e destinate rispettivamente ai chierici e ai sacerdoti, ai novizi, ed ai giovanetti collegiali; ciascuna sezione ha a disposizione un ampio cortile con porticato. Due fabbricati minori, poi, sulla linea del muro prospiciente la strada di Circonvallazione, contengono i parlatori, la segreteria, il museo, ecc., e in mezzo ad essi – nel sito contrassegnato da una croce (vedi incisione) – sorgerà col tempo la chiesa esterna».

Il nostro Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, parlando ai suoi missionari, come soleva fare, ossia domenica 2 aprile 1911, giorno di ritiro mensile, si rallegrava dell’ordine e della regolarità che la nuova casa offriva alla comunità, a differenza della precedente Casa che sorgeva nella zona della parrocchia dei Santi Angeli, la cosiddetta Consolatina di corso Duca di Genova: «Non è più come 2 o 3 anni fa nell’altra casa dove ci urtavamo l’un l’altro: qui siamo in locale ampio, e, passato finalmente il trambusto ed il disordine del trasloco, ogni cosa ha ricevuto il suo posto… E ciò va molto bene, c’è l’ordine, la regolarità, sì che un estraneo venendo qui, a veder tutto pulito», dove tutti sanno cosa fare, «sia ben accolto e si trovi a suo agio[20]».

 

Note

[1] G. Gallea, Istituto Missioni Consolata. Fondazione e primi sviluppi, I, La preparazione - la Fondazione. Anni: 1880 - 1909, Pro-manoscritto, Torino 1972, p. 343.

[2] Quasi una vita… Lettere scritte e ricevute dal beato Giuseppe Allamano con testi e documenti coevi, V (1908-1911), a cura di C. Bona, Edizioni Missioni Consolata, Roma 1995, p. 43.

[3] Quasi una vita cit., IV, p. 586 in nota; V, pp. 496-497, nota 16.

[4] I. Tubaldo, Giuseppe Allamano. Il suo tempo - la sua vita - la sua opera, III, 1903-1912, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1984, p. 417; le varie fasi della costruzione sono descritte alle pp. 412-429.

[5] Quasi una vita cit., IV, pp. 462-69.

[6] Quasi una vita cit., IV, pp. 584-587.

[7] Gallea, Istituto cit., I, p. 302.

[8] Gallea, Istituto cit., I., pp. 311-12.

[9] Tubaldo, Giuseppe Allamano cit., III, pp. 417-422; Quasi una vita cit., V, pp. 369-71, 23 giugno 1910; 390-94, 26 luglio 1910; 396-97, 2 agosto 1910.

[10] Quasi una vita cit., V, pp. 498-99, 13 marzo 1911.

[11] Istituto di Architettura Tecnica del Politecnico di Torino, Forma urbana ed architettura nella Torino barocca, II, Mappe e regolamenti, Torino 1968, A, mappa I, striscie 2-4.

[12] G. Tuninetti, Organizzazione ecclesiastica e pratica religiosa, in Storia di Torino, 7, Da capitale politica a capitale industriale, a cura di U. Levra, Einaudi, Torino 2001, pp. 226-230.

[13] G. L. Bravo, Vita quotidiana e tradizioni popolari, in Storia di Torino cit., 7, pp. 1042-43.

[14] Memorie di pietra, Torino 1991, pp. 10-11, 14.

[15] Storia di Torino cit., 7, pp. 540-541.

[16] G. Bragagnolo, E. Bettazzi, Torino nella storia del Piemonte e d’Italia, II, Da Emanuele Filiberto ai giorni nostri, Unione Tipografica Editrice Torinese, Torino 1919, pp. 1251-52.

[17] «La Consolata», n. 10, ottobre 1909, pp. 160-61.

[18] L. Sales, Il servo di Dio canonico Giuseppe Allamano fondatore delle Missioni della Consolata, terza ed., Casale Monferrato 1944, p. 280.

[19] Tubaldo, Giuseppe Allamano cit., p. 416. Sulla figura di Giovanni Caneparo cfr. Quasi una vita cit., II, pp. 68-69 in nota; IV, p. 567, nota 4.

[20] Le «Conferenze spirituali» del servo di Dio Giuseppe Allamano, I, 1901-1913, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1981, p. 390.

Last modified on Friday, 24 April 2015 08:17

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I rappresentanti dei popoli nativi dell'Amazzonia peruviana, insieme ai missionari, si sono riuniti nella Prima Assemblea dei Popoli Nativi, che...

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

13-07-2024 Notizie

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

La comunità di Casa Generalizia a Roma festeggerà, il 18 luglio 2024, il 25° anniversario di ordinazione sacerdotale di padre...

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

13-07-2024 Allamano sarà Santo

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

L'11 maggio 1925 padre Giuseppe Allamano scrisse una lettera ai suoi missionari che erano sparsi in diverse missioni. A quel...

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

11-07-2024 Allamano sarà Santo

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

In una edizione speciale interamente dedicata alla figura di Giuseppe Allamano, la rivista “Dimensión Misionera” curata della Regione Colombia, esplora...

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

10-07-2024 Domenica Missionaria

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13 La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata...

"Camminatori di consolazione e di speranza"

10-07-2024 I missionari dicono

"Camminatori di consolazione e di speranza"

I missionari della Consolata che operano in Venezuela si sono radunati per la loro IX Conferenza con il motto "Camminatori...

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