XXIV Domenica TO

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Il commento alle letture di questa XXIV Domenica ci è stato inviato da Joseph e Raffaella Parolini, Laici Missionari della Consolata della comunità di Bevera, che si trovano attualmente in servizio missionario con i loro figli Pietro, Irene ed Ester, a Toribio, nella valle del Cauca (Colombia).


Nm 21, 4b-9;
Sal 77;
Fil 2, 6-11;
Gv 3, 13-17

Gli Israeliti guidati da Mosè iniziano la traversata del deserto e proprio quando la vita si fa dura, mancano le comodità di tutti i giorni e sentono la necessità di qualcosa di più, si rendono conto di aver lasciato qualcosa di certo, pur se una condizione di schiavitù, per qualcosa che non conoscono e che comincia a fargli paura. Così cercano un capro espiatorio, colui che li guida in questo cammino sconosciuto. Mosè, e con lui Dio.

Nella vita di ognuno si possono identificare dei momenti di “partenza”, in cui si va verso qualcosa di diverso da quello che fino ad oggi abbiamo vissuto, si attraversa il proprio “deserto”. In questi momenti di passaggio si può arrivare a una crisi, ma come si può superarla?

Gli Israeliti hanno cercato qualcuno su cui gettare la colpa della propria sofferenza e la propria frustrazione, ma Gesù nel dialogo con Nicodemo ci mostra una soluzione diversa. A che serve prendersela con gli altri? Questi momenti servono per guardarsi dentro e fare del “deserto” in sé, non intorno a sé, per ricordarsi che una via, una luce che ci indica il cammino sempre ci guida e ci accompagna. Se ci fissiamo su tutto quello che di materiale ci circonda e non ci facciamo bastare, è facile dimenticarsi di guardare “in alto” e pregare Dio che ci liberi dal male che ci affligge.

Così come il popolo di Israele, pentito, guardando il serpente di bronzo, ricordava la presenza di Dio e veniva sanato, anche noi dobbiamo ricordare che Dio ha avuto misericordia di noi e la venuta di Cristo ci ricorda che Dio è presenza costante in mezzo a noi, nonostante tutto.

Una presenza che è carità al di là di ogni logica umana, se nell'antico testamento per restituire la salute si forgia un serpente di bronzo, violando la stessa legge divina che proibiva di “farsi immagini” (Dt 5, 8), con la croce si arriva allo scandalo e stoltezza di un Dio che si fa uomo e muore sulla croce come un malfattore per la salvezza di ogni uomo.

Oggi celebriamo l'esaltazione della croce, nella contemplazione di questo mistero di amore ricordiamo che la sequela di Cristo passa attraverso la prova e la sofferenza, da affrontare e superare non come atto di stoicismo, ma per amore.

Sia il serpente che la croce sono innalzati per essere ben visibili, in entrambi i casi questa visibilità è necessaria per la salvezza del popolo di Dio, il serpente sana dal veleno, ma la croce guarisce l'umanità dal peccato.

La lezione che possiamo trarre per la nostra missione è che non possiamo accontentarci di salvare il corpo con le pur necessarie opere di promozione umana. Ci è chiesto di più: la croce è il nostro paradigma, darsi conta più del dare, darsi coscienti che questo può comportare il rifiuto da parte di quegli stessi a cui si è inviati o più spesso da parte dei potenti che temono la liberazione integrale dell'uomo portata dal Vangelo.

La tentazione del mostrarsi con mezzi potenti e grandi risultati ci allontana dal cammino della croce, la nostra grandezza spaventa i piccoli che sono i destinatari privilegiati della salvezza; la missione nella debolezza, al contrario, ci avvicina e ci apre i cuori degli ultimi.

Ci è capitato di pensare quanto sia idilliaca l'idea di partire ad gentes per mettersi dalla parte dei più poveri, quando poi ci si scontra con la cruda realtà che proprio tra i più bisognosi ci sono i primi che ti rifiutano.

Da quando siamo qui [a Toribio, regione del Cauca, Colombia, ndr], è successo che il passo più grande nella confidenza delle persone l'abbiamo ottenuto proprio condividendo le stesse sventure o i limiti di fronte alle ingiustizie, rendendoci più comprensibile la diffidenza e il disinganno che da generazioni i più poveri si caricano sulle spalle.

Se Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio, noi che ci diciamo cristiani quanto siamo disposti a dare? Ci viene chiesta una donazione generosa, una grandezza d'animo che guardi alla salvezza e non alla condanna. Specialmente nei confronti di coloro che più sono esclusi, coloro che anche tra i più poveri sono dei “paria”, coloro che con tutta la buona volontà non si riesce ad accettare, nei loro confronti ci viene chiesto di aprire il cuore con una misericordia che solo nell'imitazione di Cristo possiamo arrivare a concepire. Farsi deboli con i deboli e mantenersi saldi di fronte ai potenti è più che un esercizio di virtù, è il cammino stretto e tortuoso che porta inevitabilmente alla croce, ma che è necessario per la salvezza nostra e del mondo.




Last modified on Thursday, 05 February 2015 20:12
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