Fil 3,8-14
Gv 8,1- 11
Domenica scorsa la parabola del figliol prodigo ci ha svelato il volto del Padre, il Vangelo di oggi è una testimonianza vivissima e autentica del Gesù della storia, e del suo costante atteggiamento verso i peccatori ed emarginati.
Siamo nel contesto della festa ebraica detta delle Capanne o dei Tabernacoli. Ogni anno la si celebra a settembre- ottobre improntata al ringraziamento per il raccolto avuto nell’anno, e volta a propiziare la benedizione del Signore per l’anno successivo.
L’ebreo costruisce una capanna di frasche o una tenda sul terrazzo della propria casa o nel giardino, e qui vi abita per sette giorni, come il popolo intero che abitò nelle tende per quarant’anni nella traversata del deserto; e questo lo aiuta a ricordarsi che anche lui è pellegrino sulla terra. Anche Gesù lo sentiva così, perché ha detto “il mondo è un ponte, attraversalo, ma non abitarvi sopra” (Agrafa).
L’ultima giornata di queste festività Gesù l’aveva passata nel Tempio; alla sera, come spesso faceva quando si trovava a Gerusalemme, si è ritirato sul Monte degli Ulivi a pernottare in una delle grotte ai piedi del monte. Quindi Gesù rientrava a Gerusalemme dal Monte degli Ulivi.
All’alba è venuto nel Tempio circondato da tanti pellegrini che desiderano ascoltare la sua parola: “ed Egli, sedutosi, li ammaestrava” (Gv 8,2).
È qui che arrivano gli Scribi e i Farisei trascinandogli davanti una donna sorpresa in peccato di adulterio. La sottopongono al giudizio di Gesù con una precisa richiesta: “Mosè, nella legge, ordina di lapidare donne come questa, tu che ne dici?”. La richiesta di parere non è sincera, in tal modo volevano soltanto metterlo alla prova e avere motivo di che accusarlo.
Sono uomini induriti che cercano non solo di lapidare la donna ma di far morire Gesù. Tuttavia Gesù non si lascia indurre in tentazione, conserva la sovrana libertà della sua vita e l’autorevolezza di cui tutta la sua esistenza è stata e sarà sempre esempio perfetto.
La donna era là in piedi, e Gesù era seduto. Sotto l’incalzare delle accuse Gesù compie un’azione insolita nella sua vita “chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra”. È un gesto profetico: con il suo gesto ripetuto due volte di chinarsi a terra e scrivere con il suo dito evoca indubbiamente le due tavole di pietra scritte col dito di Dio (Es 31,18 - Dt 9,10).
Le tavole della prima scrittura erano state infrante da Mosè di fronte alla constatazione del peccato del popolo (Es 32,19 - Dt 9,10). Si era resa allora necessaria una seconda scrittura, quale testimonianza di un perdono divino che aveva superato la trasgressione e il peccato del popolo (Es 34,4. 28 - Dt 10,4). La duplice scrittura sta dunque per Israele a significare che il perdono divino è più potente del peccato e che la legge ricevuta da Dio è appunto una legge di misericordia.
“Gesù scrivendo per terra non scrive qualcosa, ma presenta se stesso come parola definitiva ed autorevole di Dio che dà compimento alla scrittura antica” (L. Manicardi).
L’episodio dell’adultera dice l’autorivelazione del mistero di Gesù, e i capitoli in cui è inserita la scena parlano appunto della identità di Gesù.
Dio ha scritto la legge nel cuore di ogni uomo, prima ancora che sulla pietra. Per questo Gesù sfida gli accusatori dell’adultera a mettere lo sguardo sulla propria coscienza, a vedervi in che modo essi osservano quella legge in base alla quale vogliono farsi giudici e severi accusatori dell’adultera.
“E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Una frase degna del Figlio di Dio, di colui che è l’incarnazione della misericordia divina. Solo Gesù poteva lanciare questa sfida perché in Lui non c’è ombra di peccato. Egli è l’amore assoluto di Dio che si dona agli uomini.
Gesù capovolge la situazione: più che un giudizio sulla donna, ognuno dovrà esprimere un giudizio su se stesso, leggersi dentro.
Gesù trasferisce il problema su un piano inaccessibile ai suoi nemici, e questi inseguiti dalle sferzanti parole di Gesù si dileguano: “udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi”.
Con il gesto di allontanarsi inizia la loro conversione, Gesù quindi ha una parola di perdono anche per loro.
Partiti tutti rimane solo la misera e la ‘misericordia’ (sant’Agostino).
Veramente l’eucaristia ci garantisce che tra l’Agnello di Dio e la miseria non esiste abisso che la misericordia non possa colmare (F. Mauriac).
Gesù si è alzato e dice alla donna “donna dove sono?” attraverso le parole di Gesù incontra, forse per la prima volta, il vero sguardo di Dio che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (Ez 33,11).
Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui (Gv 3,17).
Lo sguardo di Gesù è, in un certo senso, creatore, sempre teso a creare cose nuove, a salvare, a liberare. La parola di Gesù “va’ e d’ora in poi non peccare più” non è come un semplice invito, ma come dono che veramente fa nuovi il cuore e la vita.
Gesù è la perenne novità della storia; dobbiamo credere alla perenne novità del suo amore, capace di rimediare a qualsiasi situazione e aprire ad un futuro nuovo di libertà e di salvezza. Da qui il dinamismo della vita cristiana, la quale risulta sempre impari davanti alla infinita novità rappresentata da Cristo nella totalità del suo mistero, che si estende fino al giorno del suo ritorno nella gloria.
La fede vera è gioia di sentirsi accolti, incoraggiati, restituiti alla speranza. La vera fede è gratitudine perché Dio è entrato nella nostra vita con il volto, lo sguardo, il cuore di Gesù. L’avere fede è l’incontro con la misericordia, la pietà, la tenerezza di Dio.
La vera etica che Gesù è venuto a insegnare è quella che, senza abolire la legge antica, esalta la pietà che non si permette mai di condannare, il perdono che sana tutte le ferite, l’amore che fa rifiorire la vita (Luigi Pozzoli).
Con Cristo invece nasce una nuova primavera, una stagione nuova dell’umanità in cui si respira il soffio della vita e il profumo della inesprimibile tenerezza di Dio (Giovanni Vannucci).