Nella seconda domenica, oggi, a Gerusalemme, preso la piscina del tempio, Gesù incontra un giovane cieco fin dalla nascita. È il Cristo che ci dona la luce della fede. Nella terza domenica, a Betania, presso il sepolcro dell’amico Lazzaro, assisteremo all’incontro di Gesù con la morte. Gesù è il Figlio di Dio; è per noi vita della nostra anima e garanzia di risurrezione.
Incontri ricorrenti nella nostra vita quotidiana, segnata dallo sfruttamento della donna, dalla sofferenza fisica e morale, dal brivido della morte.
Nell’incontro di oggi Gesù compie un miracolo; uno dei sette miracoli che Giovanni definisce: segni della divinità di Gesù.
Un miracolo strepitoso: “detto questo sputò per terra, fece del fango e spalmò gli occhi”. Va contro ogni norma sanitaria ed inoltre incompleto. Gesù lo invita ad andare a lavarsi alla prodigiosa piscina di Siloe. Andò, si lavò, ci vide e tornò. Un miracolo evidente, irrefutabile: lo afferma ripetutamente il giovane guarito; lo confermano i genitori, lo testimonia la folla assidua al tempio e solita a fare l’elemosina, lo riconoscono gli stessi oppositori. Eppure c’è chi si ostina a non credere, chi per paura, per omertà, dice: “non so”.
Segue dunque con i farisei un dibattito serrato, astioso e ottuso. I pochi minuti a disposizione non ci permettono né di approfondire la ricchezza di contenuto del colloquio di Gesù, né di gustare tutta la freschezza del racconto evangelico. Evidenziamo alcuni atteggiamenti: i pregiudizi degli apostoli di fronte ad un handiccapato; l’omertà dei genitori paurosi; l’ostilità dei farisei; la maturazione della fede del giovane guarito e riconoscente.
Domandano gli apostoli: “Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché egli nascesse cieco?”. Per la società pagana di allora e delle tribù primitive ogni handicappato era considerato un maledetto da dio e quindi veniva soppresso nel suo nascere oppure emarginato. Anche la società ebraica non sfuggiva a questa mentalità; i discepoli stessi quindi puntano il dito accusatore: Maestro, di chi è la colpa? Anche ai nostri giorni persiste una mentalità pagana che ci rende diffidenti e ingenerosi nel giudicare. Quante volte di fronte allo sbandato, al drogato, alla prostituta, a chi è violentato o coinvolte in situazioni dubbie, andiamo alla ricerca della colpa in lui o nell’ambiente familiare o sociale ed esclamiamo: “Se l’è cercato, ben gli sta; se lo merita…”. Interroghiamoci piuttosto: Signore, perché è toccato a lui e non a me? Se il signore dovesse comportarsi secondo le mie colpe, che ne direbbe di me?
Gesù rifiuta di ammetter una connessione causale tra malattia e peccato. “non lui, né i genitori sono colpevoli”. Come la cecità del giovane miracolato, così qualsiasi nostra sofferenza entra in un disegno di Dio. Scriveva Tina Salvi, paralizzata dalla nascita: “E’ per amore che i miei genitori mi hanno dato la vita e hanno sostenuto 35 anni il mio handicap. E io sono felice di vivere, nonostante la mia malattia”.
I farisei rifiutano di verificare senza pregiudizi il miracolo. Sconfitti dall’evidenza e dalle testimonianze, passano all’insulto e alla calunnia: “Quest’uomo è un peccatore, non viene da Dio”; ed al giovane rinfacciano la sua disgrazia: “Sei nato tutto nei peccati… e lo cacciarono dal tempio”.
Di fronte alla Parola di Dio e all’evidenza di fatti religiosi, agli insegnamenti della chiesa, sovente affiora l’atteggiamento restio ad un dialogo onesto, senza pregiudizi, rispettoso. È stato scritto: “Il Papa faccia il suo mestiere e non s’impicci nelle nostre faccende. Chiesa romana sei burocrate, dogmatica e moralista”.